< La palermitana
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Libro secondo
Libro primo - Canto XXX Libro secondo - Canto I

LIBRO SECONDO

CANTO I

Figura del discorso fatto per Io mar della Scrittura santa.
Invoca Gioseppe in luoco del morto Palermo.
Stanca la nave mia solcar tant’onde
per lo profondo mar de’sacri inchiostri,
or siede a ristorar le fiacche sponde.
Del fier Nettunno abbiam provato i mostri,
5dal forte mio nochier poco stimati,
fin che del porto entrammo i tuti chiostri.
Nochier mi fu Palermo, che i latrati
di Scilla quinci, di Cariddi quindi
ha nell’ondoso e stretto mar passati,
io Securi andammo alli ciclopi, e d’indi
con piene vele in alto abbiam veduto
d’Europa i mari, gli africani e gl’indi.
Or chi mi dá speranza d’altro aiuto,
che il Palinuro mio m’è tolto? Quando
15piú ad uopo m’era, lasso! io l’ho perduto.
So ben che noi l’atroce Uranio infando
sospinti avria coi suoi fulminei spirti
lá ove scuto non vai, non elmo e brando;
so ben che n’assorbean le ingorde sirti
20e i rotti golfi e scogli, ove piú volte
ne s’arricciáro i peli duri ed irti ;
se non foss’egli stato, che le molte
fraudi del tempo, i segni e l’arte a pieno.
l’insole aperte intese e le sepolte.

25Or vola scarco sotto al ciel sereno.
Trovar bisogna un simile governo,
che il troppo audace legno tenga a freno.
Voi solo, assunto dal senato eterno,
per secretezza del mistero santo,
30che non cognobbe il mondo, e men l’inferno,
voi voglio, o buon Gioseppe, il qual col vanto
il nome ancor di giusto avete eguale
scelto ad onor, che non ne fu mai tanto.
Non senza voi la barca mia carnale
35varcar di spirto il pelago presume,
né dell’antenna sciórre al vento l’ale.
Del trino ed uno inaccessibil Nume
il mar non tento, no, ché a tanto corso
remi non ho, né a tanto volo piume.
40Di profezie piú segni ho fin qua scorso:
or per un mar tranquillo d’umiltate
date, vi prego, al mio timon soccorso.
Se questo arcano acquisto a me narrate,
a me che vi son fatto partegiano,
45che pur le spalle al mondo ho giá voltate;
s’io per voi sento, intendo e pongo mano
nella chiarezza di quest’atto immenso,
che il divin groppo è avvinto con l’umano;
d’un tanto beneficio in ricompenso,
50a questo vostro Figlio un tempio faccio,
l’altar vi addrizzo ed offrovi l’incenso.
Non tempio a mano fatto, non impaccio
de’ buoi, capre, vitelli, odori e fumi,
ma dentro al cuor mel tolgo, e lo vi abbraccio.
55Erano spenti giá gli erranti lumi
del cielo all’apparir del lor piú grande,
ch’alluma piani, monti, mari e fiumi;
cd ecco in Betleém da varie bande
d’uomini e donne un popolo s’addossa
60lá ’ve non so ch’editto al lor si spande.

Ma non fia mai che tanta gente possa
caper in grembo di si poca terra,
qualor si sia per alloggiarvi mossa.
Per tanto io, come quello il qual non erra
65far, ’nauti gli sia detto, alcun servigio,
in cui desio d’onor sempre si serra,
mirando il nostro albergo alcun vestigio
d’albergo non aver, anzi piú presto
ruina di vecchiezza o per litigio,
70e che il volgo scortese e poco onesto
ivi verria com’a comun ostello
per far le cose sconce, a che è ben presto,
piglio non molto esperto l’asinelio,
e, degli arnesi suoi messolo in punto,
75corro a ventura ov’era un valloncello.
Del quale alla piú ascosa banda giunto,
quel che giammai non feci allor m’è caro
prender di far, almen ch’io so, l’assunto.
Qui stringo di materie un fascio varo,
80come di canne, verghe e molte cose
atte, a’ bisogni, a farne alcun riparo.
Io me le porto alle mie gemme ascose,
per anco piú celarle, acciò proposte
non siano a’ porci ed a somier le rose.
85Torno tre volte e quattro, e mai le coste
non punsi a quel gentil conoscitore
delle ricchezze nel suo strame ascoste.
Ben esso e il suo compagno, al fiato e odore,,
al vero istinto naturai, in scorno
90d’Israel, ebber cónto il lor Fattore.
Di che non voglio ch’entro a quel soggiorno
venga uomo alcuno, e della selva presa
compono un tetto e l’armo d’ogn’intorno.
Sol un usciol vi lascio in quell’impresa:
95del resto ogni pertugio in modo chiusi,
ch’avemmo d’abitar senz’altra spesa.

Non tutto mi usurpai, ma fuora esclusi,
delle tre parti, due di quel ridotto
d’uomini’vili e da’maggior delusi,
ioo Costoro, ai comun censi e al tempo rotto,
d’angosce e di gravezze sempre oppressi,
de’ grandi e ricchi ai piè si trovan sotto.
Però quel diversorio d’ambo i sessi
di questi maltrattati giorno e notte
105fu pieno ed a fatica li ripressi.
Venian talor a noi confuse frotte:
io con dolci parole le affrenai,
e pur vi furo alcune teste rotte.
Piacque da mane a sera e sempremai
io al Signor nostro, dacché usci dal ventre,
soffrir fino al sepolcro oltraggi e guai.
Volean entrar, ed io gridava: — Mentre
che noi romani e gente di Quirino
qui stiamo, non vogl’ io ch’alcuno v’entre.
115Noi siam della famiglia del divino
Imperador; guardate al fatto vostro;
non son io circonciso, ma latino! —
Con tai parole scritte a vero inchiostro,
ch’eramo noi del divin Re famiglia,
120lor tenni fuor del piccoletto chiostro.
Poscia spediti, e data a lor la briglia
e libertá di gire ovunque piaccia,
chi qua, chi lá, ciascun suo colle piglia.
Come dal rotto mar ponente caccia
125i venti e il fa tranquillo, cosi noi
trovamo si poi Tonde in gran bonaccia.
Madonna, vòlta a me, coi puri suoi
divini modi si degnò di dirmi:
— Folengo, e perché fai piú che non puoi?
130—Madre di Dio — risposi, —a che ferirmi
indignissimo plasma con le sante
parole vostre, e non qual reo punirmi?

Son forse io degno, lasso! starvi innante?
Innanti a chi?... Deh, non abbiate a schivo,
135fior d’ogni grazia, un lordo ed ignorante! —
Cosi parlando, come fuggitivo
servo che trema, le mi gitto a’ piedi.
Corr’ella, mi dá mano, e torna’ vivo.
Poi disse: — E chi son io? perché mi cedi
140con abbassarti tanto e darmi loda?
Ch’io sia di Dio la Madre? Troppo eccedi.
Fa’ dunque, o Filoteo, che non piú t’oda
darmi alcun vanto, mentre in carne sono,
che il fatto in sacrificio si è la coda. —
145Non le rispondo, eccetto che perdono
con gli atti chieggio, ed infinito abisso
d’umiltá scuopro de’ suoi detti al suono.
Fra tanto il nostro tener Crucifisso
ha fame, ha freddo e accenna con vagito
130l’alma sua Mamma e guatala ben fisso.
Io lor do loco; e mentre l’infinito
valor di quel Fanciullo alle mammelle
di mortai Madre pende, ad un convito
fui con Gioseppe d’acqua e di nocelle.

CANTO II

Parlamento del Fanciullo alla malvagia Babilonia.
Cosa d’alto stupori un molle infante,
nasciuto di tre di, non atto ancora
dir «tata» e «mamma» e starsi sulle piante,
ecco si scuote dalle fasce fuora,
5cavalca l’asinelio, e a gran giornate
va pel deserto e mai non si dimora.
Giunge alla gran cittá fra Tigri e Eufrate,
c’ha colmo il sacco e tien le sante chiavi;
io cércavi piazze, colli e lunghe strate.
Concorron tutti, avvenga ch’abbian travi
grossi negli occhi, a quel Fanciul mirare;
ma raro è chi d’un stecco tal si sgravi.
Esso qui trova dilargarsi un mare
15d’alte delicie, ma di scogli pieno,
sopra il cui lido cominciò a gridare:
— Io mai non scesi dal mio ciel sereno
qui ad esser uomo e, di monarca tanto,
nascer in grembo a povertá sul feno,
20perché, Babel, tu, scelta al maggior manto,
al maggior scanno d’Aròn e di Mòse,
Sodoma fossi (e avesti nome santo!);
non perché, tolta dalle mamme untose
di lupa ingorda e al sommo grado assunta,
25non t’acchinassi meco a basse cose.
S’io, delle grandi essendo colmo e punta,
or son pivi basso di bassezza e vermo,
acciò stii meco del tuo error compunta,
perché va pur deliberato e fermo
30il tuo voler ov’io non voglio, al grado
dal qual trabocchi e caggia senza schermo?

Ijc cose mie non ostro, non zendado,
non gonfie toghe son, non lunghe caude,
non cortigiani avvezzi al paggio, al dado.
Le cose mie non sono in bocca laude
ed inni al Padre mio, nel cuor biastemme,
odiar il vero, amar chi falso applaude.
Le cose mie non son l’oro e le gemme,
non elevate stanze in su colonne,
tolte dal mondo all’ultime maremme.
Le cose mie non son porporee gonne
e trasparenti sotto a bianchi lini,
non cani, augei, non mule, paggi e donne.
Le cose mie non son confetti e vini,
recati d’alto mare alla tua gola,
non perle in oro, argenti e vetri fini.
Le cose mie non sono aver la scola
de’ dotti a mensa, acciò ch’ipocrisia
vergine appaia in candidetta stola.
Le cose mie non sono simonia,
non avarizia ed inconcessi acquisti
per far grandezza e gire a tirannia.
Vien’, cittá santa, vieni; e quegli Egisti,
quei tuoi Sardanapali e Deci lascia,
quei scribi e farisei, quegli anticristi.
Vieni a veder se Chi d’un’ampia fascia
stellata cinge il globo della terra
fígliuol s’è fatto d’uom che vive all’ascia.
Vieni a veder Chi il mar e i fiumi serra,
l’un d’ampi lidi, gli altri d’alte prode,
se freddo, fame e inopia gli fan guerra.
Vieni a veder Chi le montagne sode
muove dal fondo, le urta e fa cadere,
s’or sul fien fra duo bruti per te gode.
Vieni a veder Chi pesci al mar, Chi fiere
die’ a’ boschi, augelli all’aria, al ciel le stelle,
s’ha contro il tempo donde aiuto spere.
Foi-KNGO, Opere italiane - in.

Vieni a veder Chi stipa d’ombre felle
il cavo centro, e d’indi giá ti scosse,
s’hai qui con teco, pessima Babelle.
70Credi aver fatto assai, perché riscosse
hai tu di sotto terra e poste a luce
in piú d’un tempio de’ miei santi Tosse?
perché nei di solenni miei riluce
la ròcca tua di fiamme, zolfi e bombi,
75e il volgo i baccanali circonduce?
perché per lor s’imprimon cere e piombi,
mandando l’alme al ciel, senza ch’uom pravo
pianga in cilicio e stringa in ferro i lombi?
Ed io ti dico che le man mi lavo
80di queste cosi fatte tue festacce,
eh’è un gran casson, ma dentro bugio e cavo.
Anzi, se vuoi ch’io caramente abbracce
verun piacer di te, fa’, mentre dormo
nel feno mio, che il sonno non mi scacce.
85Con quelle trombe tue, con quel tuo stormo
di cantator, con corna e con richiami
di cacce ed uccellar non mi conformo.
M’introni il capo, dico, ed i legami
del sonno rompo al grido d’ubbriachi
90Sdegno tai cose; lasciale, se m’ami!
Ver è, s’a riconoscer prendi e vachi,
e vedi te non fra grandezze e pompe,
ma tigri a’ fianchi aver, leoni e drachi,
io ti so dir che il marmo ti si rompe
95del cuor e il grosso tronco c’hai negli occhi,
e fuor di quei lo tuo Eufrate erompe.
Oh dolce suon, se queste corde tocchi,
e musica gentile alle mie orecchie!
e certo strai, se cosi l’arco scocchi!
100Vòltati un poco a ripensar le vecchie
e sante prove dell’antica Roma:
felice ogni cittá, eh’in lei si specchie!

Come fu pronta mietersi la chioma,
nudar i piedi, e in sacco ed in cilicio
105tór della croce l’onorata soma!
Quanto per me sudor, quanto supplicio
sempre fedel portò, constante e forte
contro tiranni e lor crudel giudicio!
Or tienti a lei, che chiuse tien le porte
no a frodi, furti, agguati e tirannie
e a tutti i mal del popol della morte.
Lascia le putte, i paggi e le pazzie,
dannose si, che a me siccome furie
vibran ceraste ed idre l’eresie.
115Le tue sfrenate e prodighe lussurie
piú ch’a me dietro stigan cani e lupi,
piú aumenti al Padre mio proterve ingiurie.
Ecco dall’iperboree alpestre rupi
s’apre ogni mal per minarti addosso,
120mentre che in ozio e vanitá ti occúpi.
Quinci ti vien da rodere dur’osso,
ch’a te disrompa i denti; a me li cani
per tua cagione fabrichin sul dosso. —
Cosi parlò il Fantino, e, monti e piani
125lasciando a spalle, al suo tugurio torna.
La Madre ancor gli fascia i piè e le mani.
Giá Febo a noi le luminose corna
lasciato avea della gelata sore
e in le contrade a noi diverse aggiorna.
130Io mi sottraggo della grotta fuore,
indegno starvi dentro, e guardia fida
mi faccio tutta notte al Fondatore
dell’universo, che sul fien si annida.

CANTO III

Circoncisione del Salvatore. Il nome di Giesú. Il primo di dell’anno
Sará forse, chi sa? nel eristianesmo
verun, cui parrá nuovo il Fanciullino
essersi messo in luce anzi al battesmo;
nomato avere alla cittá di Nino
5la croce, i santi, il sacerdozio, il manto,
e ciò che fu da Ottavio a Costantino.
Rispondo che sempr’ebbe il popol santo,
e sempre avrá fino al di grande estremo,
in fasce Cristo, in croce, in gioia, in pianto,
io Egli ha ben trionfato, e pur l’avemo
per la tenace sua virtú negli atti,
quai tra noi fece, sempre quel medemo.
Gridano i santi, dallo spirto tratti,
gridali le carte e i pulpiti corretti :
15—O falsi cristian, perduti e matti!
Cristo giace sul fien senz’ésca e tetti :
voi in piume incarche, in stanze aurate siete;
Cristo ha di sterco odor: voi di zibetti;
Cristo in deserto ha fame, in viaggio sete:
20voi fin agli occhi in vini e gran conviti;
langu’ Egli in croce: in balli voi ridete!
Ecco i suoi gesti, benché andar finiti,
son detti esser pur anco, e stan nei cuori,
non che in pittura e marmore, scolpiti.
25Torniamo dunque ai principai lavori,
ché talor tralasciarli a industria sanno,
per piú tornarvi pronti, i buon pittori.
Hanno altre opre alle man di manco affanno;
or tranno al morto questa, or quella al vivo;
30poi con piú affetto alla primiera vanno.

Otto giá volte avea donato e privo
il mondo Apollo di suoi fregi d’oro,
dando ber ai corsier dell’Utri al rivo,
quando di Dio la Madre, dal suo toro
35strato di frondi sorta, con le dotte
sue sante mani misesi a lavoro.
So ch’ella non mai di cessava e notte,
ed ora le ginocchia in terra ed ora
le mani aver in opra a tutte l’otte.
40Senz’ago e fuso mai non la vid’ora,
sol per vestir poveramente il Figlio,
ché dalle fasce ornai tori al lo fuora.
Gioseppe, che da lei seppe consiglio
esser nel ciel che l’incolpevol Cristo
45fosse di Legge termino ed esiglio,
fattosi tutto in faccia dubbio e tristo,
senza che a lei produca motto alcuno,
me solo accenna che l’avea provisto.
Teneva in mano un bel vasetto ed uno
50a me nuovo coltei d’acuta pietra,
stando pur mesto e di parlar digiuno.
S’acchina tòr l’Infante, e poi s’arretra
tremando; e, vólto a me: — Tu pigliai — dice, —
ch’a me stupisce il cuor, la mano impetra.
55— Aimè! — rispondo, —adunque se non lice
a voi, scelt’uomo in padre suo, toccarlo,
io il toccherò, prav’uomo ed infelice?
Non voglio e manco deggio e posso farlo,
ché mi sento impedir non so che in petto,
óo non dico a questo far, ma sol pensarlo. —
Ed egli a me: — Fallo, siccome astretto
ed ubidiente a Lui, che cosi vuole;
né senz’aiuto poss’io far l’effetto. —
Allor, com’uomo vile, il qual si duole
65non poter fugger qualche onor, non vòlsi
scusarmi piú, né invan gittar parole.

Per ubidirlo, dunque, alfine il tolsi
fra le mie man tremanti tuttavia,
e su le mie ginocchia lo disvolsi.
70Pensa, lettore, a ch’era l’alma mia,
vedermi nudo in man quel corpo, tolto
da Chi creato l’universo avia.
10l’appresento al padre cosi sciolto;
ed e’ fermò la man che pria tremava;
75tronca il prepuzio, e sangue usci non molto.
In quell’urnelta l’uno e l’altro inchiava,
ché anch’esso i suoi mártir futur fanciulli
di colpa originai ripurga e lava.
Alle miserie umane son trastulli
80sangue, sudor e passion di Quello.
Colpa non è, che Cristo non annulli.
Sei furono le volte, che del bello
suo sacro corpo a noi fu sangue tratto.
Questo è il primier, ch’agi’innocenti dièllo.
85Sparse il secondo, allor che, in astio fatto
per troppo ardor ch’avea di noi salvare,
sudollo fuori, e il Sol pianse a quell’atto.
11terzo alla colonna, e d’indi un mare
ne scorse alli flagelli e battiture,
90nel qual giá Palme incominciar nuotare.
Il quarto per le acute spine e dure
dall’onorando capo in terra piobbe,
onde pur Palme ancor fúr monde e pure.
Da chiodi il quinto; il sesto ben cognobbe
95chi gli apri il lato, i birri ed i duo ladri,
e chi spartirò a sorte le sue robbe.
Or di gran lunga sopra l’altre madri
la Madre vien da noi, mentr’io rifascio
quei membri ch’ella fe’ cosi leggiadri.
100Tutta gentil mi disse: — L’altrui fascio
perché, Folengo, porti?—Poi sorrise,
soggiungendo: — Tie ’l caro, ch’io tei lascio

Poi lungo al casto suo consorte assise,
ragionando con lui dell ’ab aeterno
105composto nome, che nel ciel si mise;
del nome di Giesú, che, dal superno
trono disceso, al Salvator fu imposto,
soave in terra, orribil nell’inferno.
Nome sopr’ogni nome in Dio riposto;
no né fuor di questo è nome sotto il cielo,
che dar salute all’uomo sia disposto.
Nome da dirlo in fuoco, e non in gelo,
d’ardentissimo amore, in cui voltáro
sossopra il mondo i figli del Vangelo;
115i figli, che in tal nome fisi andáro
coi nudi piè su per l’ardenti brage,
come di fior su per un prato raro.
Incanti, spettri ed ogni falsa image
spariscono a tal nome, e di demòni
120per noi se ne fa strazio e larga strage.
Nome, ch’a proferirlo in spirto i buoni
vengon migliori, e i pravi tremebondi
vanno a Giesú cacciati a cento sproni.
Madonna poi levossi, e con giocondi
125sguardi si tolse il Figlio, e via portollo
d’un verde allòr sotto l’ombrose frondi.
Qui piú ch’altrove al suo fattore Apollo
attemperava i raggi, e va si basso,
che sotto alla sua pianta veder |>uollo.
130Qui tiene il santo Infante un poco a spasso;
bacialo volte mille, ed Esso lei ;
donde ammolliva il lauro e il vicin sasso.
Stavano in loro stanze allor gli ebrei
chiusi per non veder bagordi e giuochi,’
135che fan romani ed io gran tempo fei.
Questi s’usáro sempre in tutti i luochi
nel primo di dell’anno, ch’a’ duo volti
di Giano s’accendean festivi fuochi.

Gioseppe allora ed io come sepolti
140stavam fra due massicce ròcche soli,
non molto lunghe da Madonna tolti.
Qui d’aure i fiati e degli uccelli i voli
eran del luogo il strepito piú grande,
si ch’ogni spirto par se ne consoli.
145Disturbo quivi appar da mille bande,
si che buona cagione in pronto s’ebbe
alle piú giorni fatte mie domande.
— Alle promesse — dissi — star si debbe.
Vorrei che le servaste. — Allor m’intese
15° h padre giusto; e, poi che in spirto crebbe,
alto principio a sue parole apprese.

CANTO IV

Manda Dio Padre l’angelo Gabriele in terra.
Costume de’sacerdoti del tempio della tribú di Levi.
— Dal primo giorno eli’ebbe il Padre eterno
degli elementi il fosco grembo rotto,
dond’usci il ciel, la terra, il mar, l’inferno,
cinque mill’anni cento e novant’otto
5son giá voltati, ed al baston romano
ha Dio soggetto quanto è qui di sotto.
Or, come puoi sapere, Ottaviano
tiene il furor dell’arme incatenato
e per la pace chiude il tempio a Giano,
io Giá Febo a noi, nel bianco ’l’auro entrato,
mentre partiva il raggio suo vivace
donde rinverde il bosco, infiora il prato,
e mentre all’aurea etade, al l’aurea pace
zefiro dolce aspira, e all’ore lente
15dolce garrir di vari augei non tace,
sovvenne al sommo Padre onnipotente
compiuti esser giá gli anni, che il suo Figlio
dovea slegar l’incarcerata gente.
Questo decreto nel divin consiglio
20fa allor che Adamo, accolto al mal lacciuolo,
trasse noi seco al suo perpetuo esiglio.
Stando di tre persone dunque un solo
eterno Dio, supremo ed infinito,
parlò in se stesso e disse: — Va’, Figliuolo!
25Va’, Figlio, in carne al mondo, e del Cocito
rompi le porte e tranne l’uomo nostro,
dove sta cieco, immondo ed invilito.

Come vogl’io che nel tartareo chiostro
stia quello, cui fregiamo il ciel di stelle,
30e per te quant’io l’amo ognor gli mostro?
Poi, vólto a Gabriel, pien di fiammelle,
gl’impon che quanto Ei dice presto faccia.
Egli s’annoda l’ale aurate e belle;
delle piú fine impennasi le braccia
35fra mille bei colori, e alla parola
di Dio compon la vereconda faccia.
Di ricamata d’oro e bianca stola
succinto, al Re fa il consueto inchino,
spande gli aurati vanni e in terra vola.
40Vola qua giuso a noi l’augel divino,
e dalla ottava spera in un momento
trovasi lungo alla cittá di Nino.
Qui di superbia mira l’argomento:
non torre piú, ma diroccata massa,
45ch’eguarsi al niobi 1 primo ebbe ardimento.
Questa sdegnando agli omeri si lassa,
giunge al petroso ed arido deserto
e varie cose attende mentre il passa.
Quel mar, ch’ebbe d’Egitto il re coperto,
50rade alla man sinistra, ed è sanguigno
dove Israel varcò nel fondo aperto.
Vede il fonte Maarath, che a porvi un tigno
addolci ratto e in lungo rivo crebbe,
per darlo in bere a quel popol maligno.
55Quel popol rio mormoratore n’ebbe,
cui d’esser sotto tratto a l’empie salme
gravose assai di Faraon increbbe.
Poscia descende alle settanta palme,
che a dodeci fontane porgon grati
60coperchi, e qui lavossi ambe le palme.
Sa ben che da quest’acque dissetati
fur quei malvagi e sempre a Dio rubelli,
piú degni di morir non anco nati.

Quindi partendo, giunge ove quei felli
65ebber la Legge, e Dio satolli ’i fece
della piovuta manna e tanti augelli.
Pur mormorar, e, tutti d’una pece
macchiati, contrattáro in lor ruina
quel che pensar, non che parlar non lece.
70Qui vede entrar le nebbie l’alto Sina;
e, questo ancor lasciando a lato manco,
strasvola il piano giá di Palestina.
Qual vago cigno e piú di latte bianco,
ch’abbia su il volo assai per l’aria corso,
75ferma giá l’ale e vien giú come stanco;
tal Gabriel, per terminar il corso,
dov’è Gierusalem descende al tempio,
e trova il popol, ch’eravi concorso.
Avea, molt’anni fanno, Erode l’empio
80da Roma questo regno avuto a sorte,
facendone mai sempre infamia e scempio.
E, perché l’opre sue, dal giusto torte,
nocqúer d’Ottavio all’incolpato ingegno,
ch’ad atto bestiai vuol mal di morte,
85egli, temendo cader d’esso regno,
era in quel tempo navigato a Roma,
per raddolcire il giusto amaro sdegno.
Ma piace al giusto Dio, che questa indoma
fiera crudel si tenga pur la iniqua
90rubella sua provincia per la chioma.
Né indegnamente il fa, ché sempre obliqua,
anzi ritrosa, nel mostrato calle
del vero andò sin dall’etá piú antiqua.
Però piú volte le voltò le spalle,
95lasciandola gir dietro agli appetiti,
ed or sotto un tirán gran scorno falle.
Ma, per tua piú chiarezza, alcuni riti
nostri giudaichi raccontar ti voglio,
che non hai forse da Palermo uditi.

ioo Non era in uso ancor del corno l’oglio,
col qual duoi primi re Samuel unse;
poi diede a Giuda il destinato soglio:
ché Móse per divin comando assunse
Aron il frate al sommo sacerdozio,
105cui tutto il peso del gran tempio aggiunse.
Successe d’uno in l’altro tal negozio
pontificai fin al figliuol di lesse,
che confermoilo e fégli alquanto d’ozio.
Perciò ch’un sol fin a quei giorni resse:
no David, per anco ampiar lo divin culto,
del seme d’Aròn ventiquattro elesse.
Come avantaggia fra piú d’un virgulto
alto cipresso, e fra gli umili tetti
non può torre o palagio star occulto;
115cosi ad un papa tutti stan soggetti.
il qual d’ogni mitrato il prince è detto.
Disposte ha circa il tempio stanze e letti,
ov’a vicenda ognun di quelli è astretto
star sette giorni casto, e tuttavia
120le cerimonie metter in assetto.
Or di costoro al saggio Zaccaria
cadea la volta ottava, in sorte essendo
d’Aròn disceso e suo figliuolo Abia.
Questo sant’uomo, dunque, moglie avendo,
125non ne traea la desiata prole,
mai sempre in gran meror perciò vivendo.
Ma Dio d’infruttuoso ventre suole
piú volte addur mirabil parto alfine,
ch’odor buon d’opre spiri e di parole.
130Le cose d’alto pregio, rare e fine,
nascon difiícil sempre e crescon tarde;
poi vivon piú dell’altre e non han fine.
E, se in le istorie sacre intento guarde,
vedrai ch’avvenne d’Anna e Sara, mentre
135e questa e quella di madr’esser arde.

Donna fra noi rara è, eh’in lei non entre
brama di partorir, tant’egli è duro
a tutte il biasmo d’un stordito ventre.
Cosi di Zaccaria, padre futuro
140del maggior uom degli uomini, la moglie
volea, benché di tempo assai maturo,
per un figliuol soffrire estreme doglie.

CANTO V

La concezione di san Giovanni Battista, precursore di Cristo.
Standosi dunque il vecchio Zaccaria
la volta sua d’attorno ai santi altari,
ove l’incenso rittamente offria,
ecco il messaggio angelico nei chiari
5splendori suoi celesti sopraggiunge,
lucido si, che vince i rai solari.
Giá ciò non vede il popolo, che, lunge
dal santuario e fuor del tempio assiso,
non in quell’atto al santo aitar si giunge,
io Ratto che il vecchio il non terrestre viso
s’accorge aver a lato suo, non puote
non scolorar nel volto all’ improviso.
Tralascia i prieghi e lacrime devote,
onde fu l’angel certo ch’egli è fuore
15di se medesmo alle smarrite gote.
Gli ride apposta, acciò l’andato cuore
sen torni in petto, e il sangue all’intercette
frigide vene, al volto il bel colore.
Poi gli soggiunge queste parolette:
20— Non hai che dubitar di me, profeta,
ch’io vengo a te dal Palme benedette.
Ecco, da Chi produsse ogni pianeta,
nunzio ti porto, ch’ai tuoi prieghi onesti
abbi un figliuol non oltre ti si vieta.
25Son di tua donna i membri oggimai desti
al parto, e non hai piú perché t’affanni,
ma si che a un tanto don l’opra tua presti.
Di lei, quantunque antiqua e carca d’anni,
tu, ancor antico e carco d’anni, un figlio
30sei per aver, che chiamerai Giovanni.

Cosi chiamarlo è di divin consiglio,
ch’un fulmine sará di tuono uscito
nel predicar, sprezzando ogni periglio.
Io il veggo giá del bel Giordan sul lito;
35io il veggo innanzi ai re senza rispetto
corregger l’altrui mende pronto e ardito.
Non vino egli berrá, né, fuor che il schietto
suo Gioredan, mai gusterá bevanda:
duro a se stesso, rigido, negletto.
40Cosi meritamente poi s’ammenda
le altrui mal fatte cose, quando nulla
trovi nel predicante, che t’offenda.
Giá mi si fa sentir del fiume sulla
sponda elevata la fulminea voce,
45che ad affrenar gli altieri si trastulla.
Non è si forte cuor, si duro e atroce
ch’udendo lui non tremi e senta al gusto
che d’Acheronte varcherá la foce.
Piú schietto d’òr, piú di bilance giusto,
50odo che gli ebri e adúlteri castiga,
parla scoperto ciò eh’è mal e ingiusto.
Di che rancor muovesi contro e briga;
ma non fia mai ch’a sforzo altrui soccomba,
o che di troppo detto aver s’affliga.
55Anzi piú fiato alla sonora tromba
rinforza il petto, ed ove molti stanno
piú scuote Palme loro e vi rimbomba.
La porpora non piú del rozzo panno,
Poro non stima piú del fango e loto;
60tutti ad un segno senza parte vanno.
Fra le minacce, come scoglio immoto,
nel dir lo ver giammai non viene stracco
contra potenti e fuor del volgo ignoto.
— Seme d’Abram — dirá, — seme d’Isacco
65non siete voi; vostr’opre a Dio son cónte;
ved’Egli sol che colmo avete il sacco!

Le mille vostre offese, le mill’onte
oprar» l’ira di Lui, che ornai non paté
si duro cuor, si cervicosa fronte. —
70Tal figlio avrai, di tanta in sé bontate,
che Dio, venendo in carne e uscendo fuora,
suo precursor l’elegge, amico e frate.—
Cosi parlava il nonzio; ed in quell’ora
quegli, abbagliato da cotanti rai,
75gittasi a terra e subito l’adora.
Poi gli risponde: — Deh! come fia mai
che noi vecchi decrepiti possiamo
quel conseguir, ch’aver gioven provai? —
L’angioi si turba e dice: —Se d’Àbramo
80avessi fé, vedresti che in assenza
per lei fruttar potrebbe un secco ramo;
dove, per questa deboi tua credenza,
or sei dal giusto Giudice dannato
la lingua aver, ma di parole senza.
85Io son del trino ed unico Senato
ambasciator, che vengo e vado snello
dal cielo empireo al vostro umano stato. —
Finito ch’ebbe il rutilante augello,
per su tornarsi al Padre slarga l’ale,
90e muto lascia il santo vecchiarello.
Ei piú del ben futur che men del male
presente è lieto; né di quel divieto
di poter dir parole assai gli cale.
Fra tanto fuor del tempio stava il ceto
95de’ mascolini e muliebri sessi,
finché il santo a lor venne in vista lieto.
Ma, poi che astretto fu parlar con essi,
tutti colmò di tanta meraviglia,
che intorno a lui s’uniro folti e spessi.
100Ei rispondea con mani, volto e ciglia,
non possendo con bocca far l’ufficio:
dond’entro a quelli gran stupor bisbiglia;

ma non ch’alcun non facciavi giudicio
e saggiamente seco non sospetti
105esser tal caso d’alto affar indicio.
Quinci va dunque ai geniali tetti
in compagnia di fede assai piú ferma,
ch’anzi non fu di Gabriele ai detti.
A Elisabetta, moglie annosa e inferma,
no entrò nel toro maritai; e quella
gravida in fatto esser in punto afferma.
Or conceputa è la fulgente stella,
ch’a mostrar abbia al mondo il divin Sole
quando fia il tempo e la stagion novella.
115Ma Vegno a quel che piú tua voglia vuole:
del principal soggetto avrai certezza,
ch’è questa nostra sacrosanta Prole.
E dirti vo\ per tua maggior prontezza
a quanto seguirá, le cose prime
120di questa dea, che il del cotanto apprezza;
acciò, se mai t’infiammi a dirla in rime,
t’appigli al vero e lasci burle e sogni,
che pulir soglion affettate lime.
Ama, Teofil, sempre il vero in ogni
125guisa di dire, e quando ascolti o pensi,
o, se puoi, quando ancor dormendo insogni.
Ma questo maggiormente far conviensi
nelle sincere istorie, che trattarle
senz’ulla passion e affetto dènsi,
130per cui non è chi il vero scriva o parie.

CANTO VI

Anna, madre di tre Marie; e sponsalizio della Madonna con Gioseppe
Fu di tre frutti avventuroso ramo
Anna, ch’or anco vive, onesta e bella,
della tribú di Giuda, onde noi siamo.
Prima si giunse a Ioachim, che d’ella
5ebbe questa gran donna, la qual, detta
Maria per nome, fia di mare stella;
la quale, offerta al tempio pargoletta,
non piú di ott’anni avea compiuti ancora,
che il padre morto a pianger fu costretta,
io Anna pur anco, senza gran dimora,
alle seconde nozze andò, ché a donna
tra noi star vidua e sola biasmo fora.
Depose dunque la funebre gonna
ed a mio frate Cleofe appoggiossi,
15come appoggiar si suol muro a colonna.
Quinci Maria seconda nacque, e gli ossi
del padre anch’ella pianse d’anni sei;
dond’Anna tolse il terzo e ancor legossi.
A Salome legossi, a cui di lei
20la terza similmente usci Maria,
che piú d’un anno aver non stimerei.
Or queste lascio e vengoti alla mia,
che moglie dir non oso, ma quell’una,
che del ciel donna e imperadrice fia.
25Tolta dal latte appena e dalla cuna,
fu da’ parenti al tempio consecrata,
ché di polcelle un coro ivi s’aduna.
Ma qual di lor nei matur’anni entrata,
da riparar la fragil e caduca
30progenie umana è sempre alfin chiamata.

Subito il santo sacerdote e duca
fa cenno al padre suo, ch’ai tempio vegna
e a matrimòn la vergine produca.
Rara quell’è, che voglia farsi degna
35del ricco e santo verginal tesoro
e gir deU’armellino sotto insegna.
Quel bianco animaluccio in campo d’oro
castitá porta con quel motto breve:
«Piú tosto che bruttarmi al fango, muoro».
40Ma questa, che qui vedi aver di neve
candor, non men di neve il freddo contra
libidinose fiamme in sé riceve.
QueU’amor cieco, anzi demòn, qual lontra
nuota sott’acqua, e poi, mostrando il nudo
45e osceno corpo, a castitá s’incontra.
Sola costei non stima verso il crudo
nemico della rara castimonia
cinger di spada ed imbracciar di scudo.
Sua sola grazia, onor e santimonia,
50l’altèr proponimento, in fé massiccio,
terror e fuga son delle demonia.
Giá non oblia l’introduttor del vizio
la fatta in sé promessa minacciosa,
ch’iria per donna a tempo in precipizio:
55ché, com’egli per femina vogliosa
s’afferrò sotto il mondo, ed all’inferno
l’insegna sua tornò vittoriosa;
cosi per una verginella scherno
avrebbe tal, che l’usurpato scanno
60vi perderia, lo scettro e ogni governo.
Or dunque, mentre intorno a costei stanno,
come a lor mastra, cento caste e intègre
presso gli altari e senza lei non vanno,
ecco a bramato anello, a nozze allegre
65son del sacrario e fuor del tempio messe:
le molte presto van, le puoche pegre.

Ma questa, che instar danno ed interesse
del fior amato sente, s’ange sola,
sola piove dagli occhi perle spesse.
Vien fuor del tempio in non gioconda stola
là ov’era in l’apparecchio maritale
sua madre intenta, e abbraccia la figliuola.
Or io fui stretto alfin per quello, il quale
le avessi dar la mano e poi l’anello,
non sapendo quant’essa fosse e quale.
Erasi chiusa, apposto il chiavistello,
in luogo sola, ov’apre al pianto il lume,
e strinsesi col cuore e pianger fèllo.
— Cuor mio — dicea, — ben hai ragion se un fiume
mandi di pianti amar per gli occhi fuore,
se or or verrà chi il nostro fior consume;
chi sfogli, dico, e sfrondi il gentil fiore,
fior da’ miei tener’ anni sol nudrito
di pensier casti e grazioso amore !
Piangi, cuor mio, ch’io piango ancor, e invito
a pianger nosco i nostri messaggeri,
che a te sposa mi diér, te a me marito.
Ah dura legge, fu già tempo ch’eri
più d’oggi al mondo necessaria madre,
privi di gente essendo i di primieri!
Or che vien grazia da quel forte Padre,
che pietre può mutar d’Àbramo in figli,
de’ quai son oggidì cotante squadre,
perché, se quante vuoi tante ne pigli,
me non dimetti sola, e fai pensiero
o ch’io sia morta o, sterile, non figli?
Deh, Dio! ché troppe fredde le preghiere
mie sono e furon sempre; donde, accorta
del proprio errore, non so che più mi sperei
Pur chiaro esempio assai mi riconforta
d’un giusto Abramo, il qual sperò che viva
sua prole avria, se a Dio l’offrisse morta.

Or quinci ancor speranza in me s’avviva.
Non pormi vo’ con l’uso a far contrasto;
105e a Dio girommi, ond’ogni ben deriva.
Egli potrá coppiarmi ad uom, che casto
forse con meco accorderá di starsi,
ambi col nostro armario in nulla guasto. —
Cosi sperando, co’ bei crini sparsi
110mi fu rimpetto addutta, e vereconda
gli occhi tenea per terra e al guardo scarsi.
Quando mi vidi quella pura e bionda
ninfa celeste a fronte, tutto svegno
e l’alma in me vien manca e tremebonda.
115Cagion nulla sapea né indicio o segno
di tanto in me stupor, se non che presto
mi giudicai di tal connubio indegno.
Pur io le do la mano; e, poi che il resto
del poco tempo ed intervallo passa,
120sposar tant’alta dea mi fu molesto.
Or ambo giunti alfin dove si lassa
il freno alla vergogna e al bel rispetto,
stava ella invita e con la fronte bassa.
Io il simil faccio, tutto in me ristretto;
125e tanto era l’onor mio ver’essa,
ch’io stavo rosso e muto a lei rimpetto.
Allor quella il suo voto mi confessa,
concorde al mio; e queste parolette
angeliche incomincia in voce pressa:
130— Caro Gioseppe, son due volte sette
giá gli anni c’ho serbato senza un nevo
di sozzo amor, cui castitá sommette.
Vorrei, piacendo a voi (giá non mi levo
al voler vostro), ancor portarli al fine.
135Morrò, se questo suco amar mi bevo.
Se i fior miei cari e l’erbe tenerine
fian messi ad esser paschi, or che mi resta
salvo che secche stoppie, cardi e spine? —

10allor, come dal sonno, alzai la testa,
e lieto le risposi: — Dunque semo,
per quant’io veggo, in pace manifesta.
11vostro e il mio voler son quel medemo:
il vaso d’òr trovato ha il suo coperchio.
e ad un premio e voi ed io corremo.
Ma, di cotante viste mezzo al cerchio
sendo noi posti, mostreremo al volgo
ch’io non vi son marito di soverchio;
ché, mentre frutto alcun di voi non tolgo,
pur, stando vosco nel decreto fermo,
a tutti esser infertil mi divolgo. —
Cosi le dissi, e volte sei le affermo,
che da’ teneri anni avea proposto
farmi contra quest’usi nostri schermo.
Ma ciò mal può chi a Legge è sottoposto.

CANTO VII

La sacrosanta incarnazione del Salvatore.
L’alto Valor, ch’ogni altro vince e atterra
e che, ad un punto e ad un voler di mente,
di stelle il ciel, di piante ornò la terra,
sedea in se stesso altiero e onnipotente.
5pensando ai pianti e dolorose stille,
ch’ascendon sempre a Lui dall’egra gente.
Un grido ancor di mille voci e mille
mosse dai bianchi spirti e sempre ardenti
ver’ noi fra l’amorose lor faville:
io —O Tu, che contemplarti a noi consenti,
sai quanto il tuo prim’uomo d’interesse
fu sempre a queste e alle future genti!
Pur egli un pomo finse, il qual avesse
mentr’era in carne, ed or, mentre n’è fuora,
15negli occhi ognora e ognora ne piangesse:
piangesse il fallo grave che l’accora,
ove destò la morte, apri l’inferno,
perdette Astrea per acquistar Pandora.
Vedi, Bontá infinita e Amor eterno,
20vedi gli empirei scanni algenti e vóti
de’bianchi spirti, e i foschi ne fan scherno!
Tu, che sei presto agli umili e devoti,
né mai fra l’uomo e l’angelo parteggi,
fa’grati i prieghi loro e i nostri voti;
15volgi quel guardo tuo pietoso ai seggi,
che polverosi son, che senza rai:
ornali Tu, ché Tu sol signoreggi!
A che l’uom vedi errar fra tanti guai,
nascer in ira, in morte ed in peccato,
ir all’inferno, e mano non gli dai?
30

Però, Signor, quant’egli fu piú ingrato
a quei di latte e mèl tuoi pieni rivi,
dégnati piú d’averlo alfín salvato!
E queste mansioni e alberghi, privi
35d’angeli, per superbia lor nel male
eternamente spenti, einpiam de’vivi! —
A tanto amor e grido universale,
anzi al decreto, fuor de’ chiostri fidi
fu Gabriel veduto spander l’ale.
40Va per maggior impresa ai bassi lidi,
come da torre candida colomba,
per poi tornar col cibo ai dolci nidi.
Pronto a venir è Cristo, non di tromba
a suon, a vento, a fuoco, a terremoto,
45non ch’abbia i morti a trar fuor d’ogni tomba;
non gran monarca no, ma vien rimoto
d’ogni grandezza, si che i propri suoi
noi raccorrán, come vii uomo e ignoto.
Giá Cinzia l’auree corna e fredde a noi
50sei volte avea nascoste e sei mostrate
al ventre pieno d’Isabetta poi.
Quest’unica fenice, cui son date
penne a volar tant’alto, ch’alle piante
si vegga il cielo e Palme sue beate,
55stava sola e rinchiusa e a sé davante
i gravi suoi pensier avea raccolti,
con lor volgendo i libri e carte sante.
Giá non han sensi in quelle persepolti
e arcani che si sian, che in spirto quella
60non abbia d’ombre fuor ritratti e sciolti.
Fra li piú interni passi, che rappella
sovente a’cuor l’oracol d’Esaia,
le mette avanti l’unica donzella;
quell’unica di quante mai sen cria,
05Vergine bella, che, di sol vestita,
esser di Dio la Madre degna fia;

Vergine, dico, e tal non unque udita,
del suo parto gentil figliola e madre,
ch’alluma e adorna l’una e l’altra vita.
70— O bellezze — dicea, — alte e leggiadre
di quella santa e delle grazie piena,
cui sará figlio il Figlio del gran Padre!
Io vo delle Scritture per l’amena
spiaggia cercando or questa or quella parte;
75trovo del vivo fonte alfin la vena.
Trovo che il suon dell’onorate carte
non cessa dir, che intiera ninfa e pura
conciperá di fuor natura ed arte.
Beata lei, che d’ogni creatura
80l’Autor partorirá dopo il concetto
senz’atto umano e genital mistura! —
Cosi volgea nel suo candido petto,
quand’improviso, di gran luce infuso,
ecco l’angel con lieto e grave aspetto
85entra, quantunque l’uscio sia rinchiuso,
quantunque ratturato sia il soggiorno,
dove or col libro asside ed or col fuso.
Egli è da capo a piè di stelle adorno,
delle celesti nozze mediatore:
90men luce il sol di lui sul mezzogiorno.
Or, con saluto e chino pien d’onore
e un ramo in man di gigli, disse: — Ave
Maria, di grazia e dentro piena e fuore!
Voi siete quell’onestá donna e grave,
95in cui Virtú divina entrar s’assetta,
com’io qua entrai pur senza oprarvi chiave:
voi siete quella diva, sola eletta
fra l’altre donne, in cui del grembo vostro
sia il Frutto, e voi con esso benedetta! —
100A quel sprovisto sole, assai del nostro
Febo maggiore, impallidi la diva,
poi venne ai detti qual piropo ad ostro.

Ma Gabriel, si ritrosetta e schiva
mirando lei nel nominar la prole,
105onde temea restar del suo ben priva:
— Stella — disse — del mare, alle parole
misteriose mie perché temete,
cui Dio mai fe’ tal grazia sotto il sole?
Quella gran Madre vergine voi siete,
no ch’essergli fante, ancilla ed umil serva
aveste sempre in cuor, ed or avete.
Voi l’arca del Tesor, voi la conserva
del Pregio incomparabil, cui non puote
né ladro mai né tinea proterva.
115Voltati gli anni e destinate rote
son del concetto vostro e nobil Parto
e del d’ogni virtú talento e dote.
Sta la sentenza in cielo, e la v’imparto,
che di voi nasca il Salvator del mondo,
120restando il vergin groppo stretto ed arto.
Però lo nome di Gesú, fecondo
di grazia, di pietá, d’amor, di fede,
porrete a lui, sol d’ogni fezza mondo.
Oh impresa che gli uman pensier eccede!
125Voi, Vergin Madre e del Figliuol figliuola,
sposa del Padre! E chi tant’alto crede?
Eia questo ad un sol cenno e alla parola,
che voi dicate: «si». Lo Spirto santo
sta pronto a entrar con l’onorata scola.
130Di tutte le virtú la scola, il vanto
con voi concilierá, chiudendo in loro
di vostra carne ed ossa in un bel manto.
O gemma preziosa, nel vostr’oro
legata, onde risplende com’è degno
135risplender santo e non uman lavoro;
esso fia detto il Figlio e caro pegno
dell’altissimo Dio, ch’erede fallo
della paterna sede, imperio e regno!

Eternamente a soggiogar porrallo
140l’alte, superbe, incoronate teste,
né fine avrá tal stato né intervallo.
Ed ecco han mesi sei che in le giá deste
viscere al parto d’Isabetta antica
di carne un maseoi figlio ancor si veste.
145Né fia ch’esser possibil questo dica,
se non per opra d’Esso, che il mar d’onde,
di stelle il ciel, la terra d’erbe implica. —
Chinossi allor con belle e vereconde
maniere la regina, e a sé raccoglie
150le stampe sue nell’umiltá profonde.
Quelle annodate d’un fil d’oro scioglie;
calca col forte piè l’angue superbo;
poi chiama: — Ecco l’ancella! Non si toglie
dal Dio voler! Sia in me l’eterno Verbo! —

CANTO VIII

Descrizione delle virtú di Dio Figliuolo, del fato, della natura e dell’ idea.
Nel ciel delli pili ardenti spirti adorno
tutte le belle e graziose dèe
muovon al divin trono attorno attorno;
agitan balli e oneste lor coree
5con armonia celeste, onde a misura
piena dolcezza ivi convien si cree;
entrano spesso d’un giardin le mura,
che il vecchio Fato guarda, e di piú piante
lui di diverse ed infinite ha cura,
io D’Idea si chiama l’orto; e quelle tante
verghe piantate sono in molta copia,
poste all’uman natura ognor avante.
La qual, d’ociositá nemica e inopia,
ne fa varie materie e poscia forme,
15giustando quelle a sesto ed a sinopia.
Non giorno posa mai, non notte dorme;
sempre al martello ha la callosa mano,
ma nulla oprar sapria senz’esse norme.
Norme ab aeterno sute nel piú arcano
20luoco del paradiso; e da quell’orto
stan pronte gir in opra a man a mano.
Qua vengon l’alme donne a lor diporto
nelle paterne piú remote stanze,
send’elle a Dio figliuole e gran conforto.
25L’antico Fato ai visi, alle onoranze,
ai modi lor s’acchina, ed esse, entrate,
volgon sossopra tante ivi sembianze.
Sembianze, idee e imagini, piantate
nel gran giardino, quelle ninfe sole
30vanno volgendo, e il Padre loro il paté.

Esso le assegna al Fato, il qual non vuole
eh’ove di muro circondò quel barco
altro entri che le amate sue figliuole.
Angiol non è, ch’uscio mai v’abbia o varco;
35ch’un re terreno ancor non vuol si lasse
aperto il suo poder, di che n’è parco.
Ben temerario fora chi v’entrasse,
per grande che si fosse o duca o prince,
se ’l re quanto i stessi occhi non amasse.
40Sola delle virtú la squadra vince
ogni rispetto e penetra quel muro,
com’occhio fa di inaculosa lince.
Il Fato, eh’è robusto, austero e duro,
non mette il piè mai fuora e dá il malanno
45a chi fosse d’entrar troppo sicuro.
Or dunque sole rimischiando vanno
quelle nate di Dio, del ciel sorelle,
per quel gran chiostro e non puon farvi danno.
Di gemme ed òr a guisa di fiammelle
50in un fregiato panno èvvi Giustizia
con altre tre, cosi vestite aneli’elle.
Son quattro al dolce nodo d’amicizia:
Fortezza, Temperanza e la prudente
poi Fede in bianca stola e Pudicizia.
55Quella tien alti gli occhi e va ridente
col dito steso, e questa ’i porta bassi
e va sommessa e fugge assai la gente.
Speranza pensierosa e balda stassi ;
gode nel verde, come la sorore
60sua terza in roscio affretta i lievi passi.
Son tre germane: Fede di candore,
Speme di tempo, Caritá, la terza,
sol si nodrisce d’amoroso cuore.
Èvvi Pace, che tien in man la sferza
65di ramuscei d’oliva, con che scaccia
tutte le risse e nel menar non scherza.

Misericordia con Pietá sdiaccia:
hann’abito morello e questa e quella,
d’un ragionar, d’un modo e d’una faccia.
70Vi è Veritade alfrn con la sorella
sua Sapienza, e a braccio vanno dietro
l’altre, ascoltando ciò che si favella.
Vestono azzurro, il qual si tiene al tetro
e fosco alquanto, e di distinte in oro
75stellette è sparso innanzi, a’fianchi e retro.
Molt’altre son, ma non tra questo coro
furono allor che Veritá sul passo
fermossi a dir siccome in concistoro.
Una fra molte volte, cosi a spasso
80andando, avean parlato, queste dive
del ciel lassú, quaggiú del mondo basso.
Ma Veritá, tacendo, con furtive
orecchie udiva il ragionar a tempo
or delle piante morte or delle vive.
85Ruppe il silenzio e disse alfin: — Gran tempo
fu ch’io potea parlar, e pur mi tacqui;
ma dir il ver non troppo è mai per tempo.
So che, tacendo tanto, a voi non piacqui.
Or piú non ammutisco, ch’a dir vero
90e predicarlo eternamente nacqui.
Noi siamo al punto di quel gran mistero,
che delle idee nel barco fra’ piú eletti
tronchi è disposto al principal impero.
Voi queste verghe e rami novelletti,
95onde a natura un bel poder riesce,
ornate di bei frutti, ma non schietti,
ma non sinceri, s’entro vi si mesce
sul fiorir loro un vepre, una mal’erba,
ch’affoga il buono ed in gran selva cresce.
100Quest’è la sapienza dolce e acerba
degli Aristotel vostri, stoici e Piati,
cui non mi diedi mai, perch’è superba.

Pazza e superba, i saggi suoi privati
di senno lascia, come lor scritture
105gli mostran esser orbi ed insensati.
Prendo a mirar talor le creature,
e quelle piú di vostre doti altiere,
di lettre, d’artifici e d’armature.
Veggoli andar chi gravi di bandiere,
no chi mostri a dito come saggi e dèi;
ma senza me fur ombre e larve mere.
U’son quei Scipi, Cesari e Pompei?
u’ quanti e quai di senno e d’arme andáro?
u’ li Zenoni, Socrati e Mosei?
115u’ son d’Egitto i maghi e chi solcáro
tutto il mar dell’insania, mentre cani,
talpe, cicogne e nottole adoráro?
Ben troppo ebber audaci piedi e mani
per aggrapparsi all’ardua salita;
120ma risospinsi lor com’ebri e vani.
Fu sol per gloria in quei virtú gradita;
e quant’era uom piú dotto universale,
piú da me cadde giú senz’ulla aita.
Il caso di colui sol è mortale,
125ch’essendo di dottrina pien, ma cieco,
ascender vuole piú ch’affidan l’ale.
La Sapienzia (non costei, che meco
vedete unirsi come a Febo il lume),
quella che innalza il sopracciglio greco,
130infín a qua soffersi; e il suo costume
or io le impaglierò non senza guerra,
ché volar osa e scuote invan le piume.
Dacché per me Dio fabbricò la terra,
che a sé sostegno sia, che a sé sia pondo,
135a questi di l’aspetto mio si serra.
Degno non fu di contemplarlo il mondo;
però di scender giú son risoluta
e farmivi vedere a tondo a tondo,

a ciò tra gente altèra e troppo arguta,
140che, seminando errori, errori miete,
scusa non sia di non mi aver veduta.
Tu, Caritá, tu, Pace, v’accingete
al venir meco in tanta nuova impresa;
anzi voi, sore, tutte soccorrete.
145Andiamo insieme ad una gran contesa.
Ver è che il tuo rigor, Giustizia, voglio,
finché onorata palma mi fia resa,
si stia frattanto chiuso in qualche scoglio.

CANTO IX

Conclusione delle virtú, e che la veritá tolga la croce.
Tosto che l’aversaria di menzogna
disse a Giustizia, troppo allor severa,
che il suo rigor non le facea bisogna,
alzò l’ardita fronte quell’altiera;
5— E perché — disse — senza lui ti metti
a voler giú calar tra gente fiera?
E perché i pravi e d’ogni morbo infetti,
sendo persona eguale all’altre due,
col mio rigore a te non sottometti?
io Ché s’a lui miri ed alle forze sue,
egli fa tanto, che piú dir non voglio,
mestier quant’altra cosa all’opre tue.
Ch’io il leghi alla catena in cavo scoglio
non so pensare a che, se mi rimembra
15quel ricapriccio dell’uman orgoglio,
quando, lá dove Eufrate un mare assembra,
per gire al ciel fecero gran contesa
quelli ch’avean le gigantesche membra.
Ond’io, che vidi me si vilipesa
20e si da lor stimata o nulla o poco,
lasciai, per cui mandasti me, l’impresa.
L’atto però non parveti da gioco,
avendone poc’anzi esempio e norma
d’angioli, ch’ésca son d’eterno foco.
25Mercé il rigor, che chiuso or vuoi che dorma,
si veramente il ventre allor si scalpe,
quand’esso il guasto mondo ti riforma;
siccome ai giorni di Noè, che l’alpe,
per celse che si fosser, quel feroce
30mandò sott’acqua e fe’ sbucar le talpe.

Non è parer mio, dunque, se la voce
ho teco qual sempr’ebbi, che tu vada
piú presto a tòr che dare altrui la croce.
Non voler, no, ch’arruggini la spada
35quest’uomo, che tant’anni ognor piú saldo
segue gli errori e mai non torna in strada.
Piú che il carezzi, arrabbia e va si baldo,
va si arrogante e pien d’iniquitade,
che non gli duol, ma gode esser ribaldo.—
40Stette a quel giusto dir la Veritade
in vista quasi di cangiar sentenzia;
ma pronto il collo abbracciale Pietade.
Prega per la gentil sua providenzia
che all’animal degli altri piú felice
45scenda, non con rigor, ma con clemenzia.
Speranza, de’ mortai l’imbasciatrice,
come quella che in tal disio verdeggia,
tace e, tacendo, ascolta ciò si dice.
Non è fra l’altre tanta, ch’osar deggia
50muover in quella causa ivi parola,
ma solo accenna Fede e la motteggia.
Fa cenno e la motteggia, ch’ella sola
ottenerá co’ prieghi, che il disegno
sia fatto in quel che i miseri consola.
55E tanto piú, che ad essa il manto e regno
della Legge mosaica è per sortire,
se alzata ha la Veritá sul legno.
Fede, ch’a tanto imperio avea da gire,
fa d’occhio a Caritá, ch’usi sua arte
60e faccia gli almi ardori altrui sentire.
Fortezza con Giustizia tien la parte
alla Pietá contraria, e a spegner stanno
Prudenza e Temperanza il nuovo Marte.
Concordia e Pace assai tramesse fanno;
65come tranquille e facili madonne,
or quinci or quindi componendo vanno.

Ed ecco stava dietro a due colonne
di questa loggia un’umil feminella,
che indegna tiensi usar con l’altre donne.
70Ell’era d’ogni vii servigio ancella,
dolce a vederla, senza orgoglio ed ira;
ed ha con seco un’altra sua sorella,
la qual si batte il petto e tace e mira
la terra, e d’acque il ciel, piangendo, impregna,
75e d’aura e vivo ardor, qualor sospira.
Misericordia corse lá, ché, avvegna
fosser in rotti arnesi, non le sprezza,
anzi sapere il nome lor si degna.
— Chi siete — disse — voi ? Chi a tanta altezza
80vi consultò poggiar? Chi v’ange e sprona,
ch’io veggo in voi giá Tossa per magrezza? —
Risponde quella che piangea: — Patrona
de’ miseri mortali, abbiam riguardo
venir ove fra voi si questiona. —
85Cosi parlando tuttavia, col tardo
pugno si batte e piega le ginocchia
e pur a terra il rugiadoso guardo.
— Quest’è l’Umiltá — disse, — mia sirocchia,
ed io la fredda e sciocca Orazione;
90lasciammo un’altra suora alla conocchia:
l’odiata Povertá dalle persone
lasciammo al fuso, e a pena si mantiene.
Venimmo due non senza gran cagione.
Nostra madonna e vostr’ancella, Spene,
95impose a noi che, posto ogni rispetto,
venissimo qua dentro in tanto bene. —
Misericordia allor, che molto affetto
tiene a Speranza, lor signora, vede
starsi Compunzion nel costei petto.
100Dálie la mano e la solleva in piede,
dicendo: — L’umil pianto si è la rete,
che piglia ciò che un cuor contrito chiede.

Non fuor di queste porte abbasso irete.
10vel prometto per li nostri rai,
105che vosco a salvar l’uom voi tutte avrete. —
Cosi diss’ella, e torna donde mai
non parte; e, benché sappia, intender cerca
per cui sia data la sentenzia ornai.
Pur data è sempre ove union alterca,
no Conteso avean tutte alla Pace vòlte,
ch’ivi suffragio a ben comun si merca.
Or, quando alfine Sapienzia molte
ragioni addusse del voler paterno,
furon le sante e oneste gare sciolte.
115Giustizia e Pace con affetto interno
e dolci baci s’ebber avvinchiate:
sentille Pluto e ne tremò l’inferno.
Misericordia e Veritá, scontrate,
giungon le destre e baci, e fassi patto
120di tòr la croce e giú posar le spate.
Fu dunque delle piante a quel grand’atto
la maggior scelta, ov’era in minio ed oro
11nome di Giesú scolpito e tratto.
Fan tutte l’altre a lei d’intorno un coro:
125— Non ha qui a far Natura, in tanto incarco,
ma delle grazie solo il concistoro! —
Alfine un tanto pregio di quel barco
in grembo a Veritá raccolto scende,
fra le virtú di tutte gioie carco.
130Maria, che in spirto i messaggieri intende,
ch’a lei riportali: —Ecco fra le elette
sue belle figlie il Creator descende! —
gittasi a terra, e tutta si sommette;
canta nel cuore sanza muover bocca.
135Entra lo Spirto e in mezzo all’alma stette.
Sent’ella il santo ardor, che il cuor le tocca.
Stanno e staranno sempre, come addrieto,
chiuse le porte di si altiera ròcca.

Quivi sol signoreggia il Paracleto,
140ed introdotto vi ha quel Figlio bello,
che di virtú, di grazie è in mezzo al ceto,
le quali han giá composto un degno ostello
d’incorruttibil carne, ov’è corcato
Chi ha il del per scanno e terra per scabello,
<4S l’altre sostanzie all’uno e l’altro lato.

CANTO X

Opera della indivisa Trinitá
e visitazione della Madre di Dio ad Elisabetta.
Con qual silenzio grata pioggia cade
su molli dossi di lanosa greggia
o su fresch’erbe gelide rugiade;
tal viene in terra cheto e non motteggia
5Colui che i monti crolla fin sul fondo,
qualor d’Olimpo i fulmini dardeggia.
Ben antedetto fu, che dal profondo
divin consiglio il giorno del Signore
siccome rubator verria nel mondo,
io Non fora dunque uscito l’uomo fuore
mai d’intricato e cieco laberinto
senza quest’uno e singoiar duttore.
Tre le persone fur, ch’ebber avvinto
un corpo, un’alma, un Dio nel ventre santo
15e fattone uom di nostra pece tinto:
non di sua pece dico, ch’egli vanto
sol porta d’incolpata e retta vita,
ma vòlse di miserie il nostro manto.
Il Padre un’alma fe’, la qual, vestita
20di puro corpo umano e preparato
dal Santo Spirto, s’ebbe il Figlio unita.
Tutto ch’un sol Dio sia, non mai slegato
in quelle tre ch’odi nomar «persone»,
pur ad ognuna un atto proprio è grato.
25L’onnipotenzia il Padre in sé dispone,
la sapienzia il Figlio, il Paracleto
la caritá: pur tutto un Dio compone.
Cosi la veritá con l’almo ceto
delle virtú fu l’aura, fu il semente
30di questo Agnel, ch’abbiam si mansueto.

In lui bontá verace, umil, prudente,
temperata, fedel, giusta, pietosa,
forte, benigna, affabil e clemente.
Ma sovra tutto in lui sta l’amorosa:
35e, se viver ti degna il cielo assai,
vedrai stupenda e incomprensibil cosa.
A tanta invero ed eccessiva mai
non travenir fui degno e men saperla
fino a quei di, che mal di lei pensai.
40Credul fanciullo e ancor supposto a feria
fui di giudizio, allor ch’esser mal netta
parvemi questa immacolata perla.
Pur anco voglio ch’una ti sia detta
di mie sciocchezze, allor mostrata quando
45essa tornò dal nido d’Isabetta.
Or dunque un giorno quella, ripensando
agli angelici detti, cosi parse
starmi sospesa, ed io perché domando.
Ed ella a me: — Dio la sua grazia sparse
50in Isabetta sterile, attempata,
ch’or pieno ha il ventre e appena può levarse.
Creggio che cosa le sarebbe grata
se andassi a lei, oltre ch’onesta parmi,
send’ella antiqua e ancor nostra cognata. —
55Io le rispondo: — Chi può consolarmi
piú che veder Vostra Bontá contenta?
anzi di me servirsi non risparmi ! —
Cosi presto le acconcio una giomenta,
quantunque indegna di si altiere some;
60ma girsi a piè piú tosto s’argomenta.
Con una vecchiarella va, non come
colei ch’ad esser ha del ciel reina,
ma sposa d’un d’assai depresso nome.
Per vie montose e asperrime camina:
65fatica e sconcio alcun amor non stanca
ed ogni incontro quanto può declina.

Non alla destra inai, non alla manca
piega, ma dritta va finché perviene
alla cugina sua canuta e bianca.
70La qual, d’un seme tanto avendo piene
le viscere, passato il sesto mese,
ad incontrarsi al Re del cielo viene.
Madonna, che la vede, in un cortese
atto saluta quella; e con prestezza,
75d’amor sospinte, vengon alle prese.
Del lor saluto mosse tal dolcezza,
che l’uno e l’altro figlio, in dolce foco
ardenti, segno fecer d’allegrezza.
Onde Isabetta, con tremor non poco,
80rapita dallo Spirto e in fiamme assorta,
chiamò con suono ardito e non giá roco:
— Oh benedetta fra le donne! oh scorta
fida delli figliuoli d’Èva, mentre
sei del mar stella, sei del cielo porta !
85Oh benedetto il frutto del tuo ventre!
E chi son io? qual grazia in me, qual merto,
che tu, di Dio la Madre, a me sottentre?
a me, ch’esserti serva pur non merto,
perché tu entrar? Ed ecco al tuo Bambino
90saltella il mio, che tengo in me coperto.
Io dico, al tuo Figliuolo alto e divino
il mio, cui Tesser suo da Quel deriva,
tutto si rallegrò devoto e chino!
Ed oh beata te, che per la viva
95tua fede il desir casto or franco vola,
naviga in porto ed ove torse arriva!
Tu Vergine, tu Madre, tu Figliuola,
tu Sposa di quel Re, che l’alto incarco
dell’universo ha in la sua destra sola! —
100A tanto dir basso Madonna il parco
lume degli occhi e la parola insieme,
dicendo: — Siamo giunti al nobil varco,

all’aspettato varco, dove preme
e fiacca il capo e tolto ha giá la palma
105al Principe del mondo il nostro seme.
Però, mentre nel tronco mio s’incalma
senza partirlo un ramuscel si degno,
10spirto mio resulta e gode l’alma;
e ne ringrazio il Re deH’alto regno,
no che dell’ancella sua l’umil desio
ha riguardato e scelto a un tanto pegno.
Di che da molte nazion son io
per esser detta gloriosa Madre,
e m’alzeranno sovra Tesser mio.
1x5 Gran cose fatte m’ha quel sommo Padre,
11qual sol porta il santo nome, il quale
gli umili toglie in del fra le sue squadre,
ma col forte suo braccio atterra e d’ale
spennacchia li superbi, acciò giú caggia
120crepato alfin chi troppo gonfio sale;
al poveri affannato, che non aggia
disagio e sconcio alcuno, porge aiuto
e l’empio ricco batte, che l’oltraggia.
Felice tu, Israel, c’hai ricevuto
125quel tuo promesso giá tant’anni infante,
che fu da’ nostri antiqui antiveduto.
Parlonne a loro tante volte e tante
il mio Signore, e n’ebbe ancor novella
il nostro padre Abramo e gli altri avante. —
130Cosi Madonna disse; e, come quella
ch’ama bassezza e dignitá refuta,
mosse a servir, qual riverente ancella,
colei cui rende onor l’etá canuta
185

CANTO XI

Congresso dei duoi fanciulli, l’uno santo e l’altro santificato nel ventre.
Gelosia di Gioseppe.
Felicissimo albergo, e che sembianza
(se d’esso agli abitanti metti cura)
sol potè aver dell’alta empirea stanza,
ove del mondo e d’ogni sua fattura
5entrato è l’architetto, e seco ha i santi
duo principali dentro a quelle mura!
Giovanni avea passato giorni alquanti
al sesto mese dopo, ancor acerbo,
quando il Signor del ciel si vidde innanti.
io Viddesi innanti l’incarnato Verbo,
degnando a sé venir, che servo gli era,
contro l’uso mortai vano e superbo.
Tuttoché in ventre è chiuso, pur la nera
stanza raggiò nell’apparir del sole,
15e il grembo fu qual vetro a tanta spera.
Come di rose, gigli e di viole
le piante, mentr’è freddo, ardir non hanno
di fuore aprir la nuova loro prole;
poi, quando appresso all’alba vederanno
20spuntar Apollo, quelle rugiadose
ai sostentati fior la briglia danno:
cosi Giovanni e molte altr’alme, ascose
sotto a quel tetto, e che veder non ponno
mentr’ha sul viso a loro il velo Mòse,
25nel sottentrar che fece il maggior Donno,
splendor del sommo Padre e lume eterno,
tutte saltár fuor d’ombra, notte e sonno.
Quante vi si trováro, un dolce interno
fuoco sentirò, ai freddi cuor disceso,
ch’eran di Legge attratti nell’inverno.
30

Ciascun saggiollo in spirto e stette acceso.
Sol il Battista le due grazie ottenne,
eh’oltre sentirlo agli occhi fagli reso.
Quali dal nido le anco mille penne
battono i polli a lei, che gli empie il gozzo
e per nudrirli ogni altro ben contenne;
non men Giovanni, ancor in piume e rozzo,
al vivo pan che il suo Signor gli apporta,
guizza, gambetta e in ventre dá di cozzo.
Sente il materno spirto e sen conforta,
ed a parole non mortali e sante
d’affocati pensieri apre la porta.
Poi ch’ebbe detto, il sovrumano Infante,
in grembo a Pudicizia e fra le dive
sue grazie, stava dritto in su le piante;
guata quell’altro, e queste ardenti e vive
parole incominciò divinamente
(Giován le ascolta solo e in cuor le scrive:)
— Tu, innanzi che giammai fosser distente
le viscere materne ove t’informo,
sempre mi fosti, com’or sei, presente.
Io son, né fuor di me fu alcun. Io dormo,
e il cuor mio veglia in me. Nel ciel son Dio,
qua in terra Dio ed uomo, il qual reformo.
Ecco, tu, liber d’esto umano oblio,
per me santificato innanzi ch’esci
di vulva, conosciuto hai Tesser mio.
A me sei fatto; a me nel ventre cresci ;
e fra le genti a me sarai profeta,
che a me trarrai, siccome in rete pesci. —
Giovanni a lui con voce mansueta:
— Ah ah ! Signor, ah ah ! che in tal impresa
mia pueril etá parlar mi vieta ! —
Cui Cristo: — Il giogo mio non molto pesa;
ch’ovunque t’invierò, tu, infante, irai,
e fia la lingua tua dal mondo intesa.

Non le lor dure facce temerai,
ch’io ti sto sempre accosto e ti do mano,
qualor s’accingeran per darti guai.
Ecco, t’apro la bocca, e a man a mano
parole vi ho formate; non tu muto,
o a popol circonciso o dille a strano;
acciò tu, baldo del divin aiuto,
strugga, disperda, svella, pianti e dricci
quel che in le spine fin ad or è suto;
acciò le fredde voglie, i petti arsicci
quelle riscaldi, questi ammolli e bagni
e i molli troppo induri ed animassicci ;
acciò con giusti detti e sacri bagni
prepari l’alme, ed io, venendo appresso,
il mal nel buono, il buon nel meglio cagni.
Cosi parlò l’eterno Figlio; ed esso,
gentil suo precursore, in spirto alzossi
e disse fuor quel ch’era dentro impresso:
— Insole, udite, e voi, popoli, smossi
dal vero, sol tendete a me, ch’eletto
da Dio nel ventre fuor di quel mi scossi!
Post’ha la bocca mia, ch’alcun rispetto
nel dir lo ver non aggia, e come spata
radente il capo v’apra, il fianco, il petto.
Io di sua man sott’ombra fida e grata
sono il suo dardo scelto, ed esso il prome,
esso il rimette in faretra dorata.
A me non ancor nato ha posto nome
confatto all’esser mio fulmineo e baldo
e che terrá superbia per le chiome.
Non contra borea ed aquilon piú saldo
stiè mai si forte quercia, com’io a’colpi
degli empi farisei, del re ribaldo.
Non varrá lor entr’esser lupi e volpi,
fuor pecorelle e semplici colombe;
sará chi ipocrisia disnervi e spolpi.

Sará delle giá roche antiche trombe
una sonora alfin, che introni e tocchi
105sul vivo i morti e cacciali di tombe.
Sará chi a sordi e ciechi orecchie ed occhi
dia pronti a udir lo vero ed abbracciarlo,
veder il falso, acciò non vi trabocchi.
Sará colui, cui fia bisogno alzarlo,
110me sminuire alfin, ch’io sono indegno,
ed altri ancor saranno, di scalciarlo. —
Cotai ragionamenti non fu degno
mortale orecchio udir, né esse madri
sentian parlar nel proprio ventre pregno.
115lo fra quel tempo, ad asce, a serre, a squadri
intento, in Nazarette dimorava,
osservata cittá da’ santi padri.
Madonna, che me indegno molto amava,
dalla cugina sua congedo tolse,
120ch’ai parto in pochi di si avvicinava.
Forse vederla partorir non vòlse
per lo futur concorso al parto novo,
si che l’affetto a me benigna volse.
Io ben degno le fui che sotto giovo
125arassi come bestia i campi, mentre
ver’ lei di gelosia mi strinse il chiovo.
Ché, quando vidi lei tornar col ventre
alquanto in fuor: — Ah! — dissi — creder deggio
ch’a simil puritade adúlter entre? —
130Altrui dirlo abborriva, ed era peggio;
ché celato dolor piú forza piglia,
e a questo l’infernal non ha pareggio.
La vicinanza nostra e la famiglia
credean, come si crede, d’opra mia
135gravida lei, né vi torser mai ciglia.
Sol io quel succo amar di gelosia
bevuto avea, pensando il di, la notte
come da lei potessi tórmi via.

Sospiri accesi e lacrime dirotte
140sorgean dal cuor distorto e cruciato,
né ornai potea durarmi a si aspre bòtte.
Ma il grazioso Dio, c’ha l’uomo grato
d i sovruman valor non mai tentarlo,’
me ne francò mentr’erami assonnato:
145non assonnato no, ch’un simil tarlo
non dorme mai né desto vuol star solo,
ma il cuor m’era giá manco a piú cibarlo.
Mi vidi, ecco, dal ciel venir a volo
un medico gentil d’acerbe doglie:
150— Gioseppe — disse, — di David figliolo,
a che rifiuti l’innocente moglie?
Non sai che il Re del cielo in lei vestito
ora si sta di vostre umane spoglie?
Ma gravidezza tal secondo il rito
155vostro mortai non è, ch’a’ miei sol detti
lo Spirto santo ebb’ella per marito.
Sposo sei giunto a lei per molti effetti,
duo delli quali fúr: l’un per serbare
la Vergine da iniqui altrui sospetti ;
160l’altro, ch’un mistier tanto singolare
all’angel negro piú d’ogni etiopo,
angel astuto, possasi celare.
Né dianzi al parto altissimo né dopo
tu sarai degno, né altri, di tal donna. —
165Cosi dicendo sparve, e a tal siropo,
di vetro, venni solida colonna.

CANTO XII

La nativitá del Battista Giovanni.
Discorso della grazia.
Da poi tre giorni a Zaccaria, secondo
l’angelica promessa, il figlio nacque,
ove il popol concorse assai giocondo.
Un tanto don celeste a ciascun piacque.
5Poi, giunto il tempo ch’ai fanciullo tolta
sia poca pelle, il padre non piú tacque.
Il padre, ch’era muto, in quella volta
che circoncise e nominò «Giovanni»,
con lingua ivi parlò spedita e sciolta:
io — Sia benedetto, giorni, mesi ed anni
il Signor nostro Dio, Dio d’ Israelle,
ch’a noi man porge in si vivaci affanni.
Alla sua cara plebe or dalle stelle
redenzion apporta, e dritto il corno
15ha di salute all’anime rubelle.
Il corno del sant’olio nel soggiorno
di David, servo suo, ci ha suscitato,
dell’odor cui fia tutto il mondo adorno.
Di tanto voler far n’ha ragionato
20per bocca di quei santi, ch’egli elesse
al profetar da ch’ebbe il ciel creato.
Salvarne per lor detti giá promesse
dagli aversari nostri e dalle mani
di quanti contra noi grand’odio impresse.
25Molta Egli usò pietá coi parteggiani
suoi, padri nostri, acciò che i sacri detti
non sian del Testamento infermi e vani.

In quel d’Àbramo fra’ piú cari petti
fu posto un tal mistier con giuramento,
30ch’avesse a uscir nei nostri giorni eletti;
acciò che a Lui noi, fuora di spavento
sendo da chi perseguon noi giá sciobi,
serviamo lieti e con pensier intento;
acciò che, in fede ed opre giuste involti,
35ci appresentiamo al suo benigno aspetto
in tutti i nostri giorni, non che in molti.
Ma tu, mio figlio, ch’or sei nato, detto
sarai quel dell’Altissimo profeta,
ch’anderá sempre innanzi al suo cospetto,
40per dare alla sua plebe immonda e vieta
nel puzzo de’ peccati la certezza
di lor salute, vita onesta e lieta.
Cosi di Dio le viscere dolcezza
di pietá mosse, eh’Esso, d’alto sceso,
45visita noi, consola, incende, apprezza.
Il vero Sol d’Oriente vien acceso,
per l’ombre sciòr col raggio suo vivace
di morte a chi stan sotto il loro peso.
E cosi ognun di noi, ch’or palpa, or giace
50in tenebre, giá scosso a tanto Lume,
drizzi le perdut’orme in via di pace! —
Cosi il buon Zaccaria, c’ha per costume
il profetare, alle sonore corde
sciolse di lingua ed alto stile un fiume.
55Dico, poi ch’alia moglie sua concorde
fu di nomar Giovanni il figlio loro,
apri la bocca muta e orecchie sorde,
e diede a noi quella canzon, che d’oro
lassuso è scritta, e noi quaggiuso sparsa
60l’abbiam di cantatrici in piú d’un coro.
Era quella stagion fiammata ed arsa,
che il sol verso Leon va tardo e pegro,
stride la cicadetta e l’ombra è scarsa.

S’affretta il viandante asciutto e negro;
65beve sovente ov’altri gli è cortese;
il pecorar si lagna afflitto ed egro,
col gregge suo di quel si fatto mese
si lagna e duol, ch’ardendo tutte l’ore,
sciugò le fonti e le moli’erbe incese.
70Quando delle sacr’onde l’inventore
nacque Giovanni a porger larghe vene,
ch’empian gli arsicci petti di liquore,
facciano ravvivar le morte arene,
acciò che il nostro Figlio di viole
75e rose e gigli trovi l’alme piene.
Trovale, dico, insieme con parole
nei petti sparso; ma chi presso segue,
Egli sia lor la pioggia, Egli sia il sole.
La grazia sua non pur il nostro adegue
80peccato a noi, ma di gran lunga supri,
il qual nel legno affisso vi si slegue.
Ch’ove abondáro furti, inganni e stupri
ella vi abondi, cresca, sovrabondi,
e di malizia il re se ne vitupri.
85Vengati gli avari, osceni ed iracondi,
micidiali, ipocriti, gelosi
e quanti son d’infernal peste immondi,
vengati in fede arditi ed animosi
al Medico sol dato a noi dal cielo,
90che i vecchi morbi tolga e abominosi!
Dagli occhi del ver Mòse tolto è il velo.
Vediamol d’or innanti a faccia a faccia,
cedendo l’ombre al candid’Evangelo.
Tutti quest’uomo chiama, tutti abbraccia;
95uom nuovo, raro e non udito unquanco,
ch’aperta tien la bocca, il cuor, le braccia:
la bocca un predicar, di téma franco,
il cuor un vivo ardor, le braccia danno
i seggi a noi del Figlio al destro fianco.

ioo Non so, Teofil mio, se pago t’hanno
cotesti miei ragionamenti appieno:
son io di quei, c’han poco e manco sanno.
Bastiti assai del vero il chiar sereno
esserti cónto, di mie nebbie fuora,
105e forse d’alto stil ne avresti meno. —
Cosi Gioseppe in una e piú d’un’ora
mi tenne a udir del nato Sol eterno
e della scorta sua fedel aurora.
Io resi grazie al senso in lui paterno,
no ché sazio d’un tal cibo m’ebbe fatto,
qual nutre il ciel, qual tosca il tristo inferno.
Poi similmente a lui narrai quell’atto
veduto fra’ pastori si distinto,
che gli parve trovarsi dentro il fatto.
115Cosi quel primo giorno a noi succinto
dell’anno andò, ma con maggior profitto
che in mille fole allor trovarsi estinto.
Lode al Signor, che, tratti noi d’Egitto,
col fumo il di, la notte con la fiamma
120scorge del Rosso mar per lo tragitto!
Fra tanto il sol calava e picciol dramma
di luce ancor porgea. Madonna il Figlio
riporta dentro e tienlosi a mamma.
Io pronto l’ésca ed il focile piglio,
125e, scossavi di selce una favilla,
il zolfo accendo e a secche foglie impiglio.
Qui servo alcun non è, qui non ancilla;
fo quanto saccio, e piú saper desio.
Dissi mia colpa e non mancò chi udilla.
130Composto il fuoco, alla cittá m’invio.
Non lieve borsa m’era; compro alcune
cosette in cibo a quel senato mio.
Da me fúr posti sull’ardenti prune
minuti pesci, e, giunta l’acqua, il pane,
135tre ci aggirammo alle beate cune.

Madonna disse: — In noi, Signor, rimane
l’impresso nevo del primier parente,
che ci sommette a passion umane.
Or dunque alla tua grazia la presente
140mensa drizziamo; benedilla, o Padre,
e dá’ che al tuo convito finalmente
seggiamo tutti fra l’empiree squadre! —

CANTO XIII

Discorso della crudeltá dei tiranni contro i martiri.
Profezia compiuta in Erode: «Non auferelur •.
Per concitar piú contra sé quell’empio
e troppo allor pernicioso mondo,
Giesu, di toleranzia sommo esempio,
nacque, visse, mori sotto l’immondo
5e crudo imper dell’uno e l’altro Erode;
ché in culla il primo, in croce ebbe il secondo.
Cosi poi volle e vuol eh’ovunque s’ode
regnar tiranni barbari e superbi,
nati ad incesti, uccision e frode,
io lá un Pietro, un Paolo avventasi, né serbi
rispetto alcun, sebben di sangue un guazzo
riporti e rotte Tossa e spenti i nerbi.
Sallo Sisto, Lorenzo, sallo Ignazzo;
sannoio mille e mille e centomiglia,
15che forte improperáro al mondo pazzo.
E che dir puossi quanto sia vermiglia
stata la faccia della terra ai sangui
non dirò d’un’Agnese o pur Ciciglia,
ma d’infinite simili, che gli angui
20d’odio, di rabbia in petto di quei tori
schiacciáro, ed ei restar confusi, esangui?
Donne di quindici anni ebbero cuori
d’acciaio contra orribili tormenti,
se fosser stati tra moll’erbe e fiori!
25Queste fúr torri inver, ch’a turbi, a venti,
ad impeti di piogge, a fiumi ondanti
ben fermi in Cristo avean lor fondamenti.
Cristo gli è pietra e scoglio, in cui lor pianti,
lor ceppi, eculei, croci, sangue ed ossa
30fondár quai marmi sodi ed adamanti.

Cosi par qui, se Dio benigno possa
servirsi ancor di pravi spirti a buono,
mentre ii suo campo in ciel ad or piú ingrossa.
Fuoco e martello i fier tiranni sono,
35dond’Esso i figli suoi tramuta in oro
e tuttavia se n’orna il proprio trono.
L’odio di quegli e il duol d’ogni martoro
giovano si, che i torti nervi e piaghe
gemme son or dell’immortai Tesoro.
40Ma veggo in voi, signor, le voglie vaghe
d’intender la cagion perché travia
la musa e gir altrove par s’appaghe.
Io m’era con Gioseppe e con la mia
a me tropp’alta e nobile Matrona
45posto a sedere a mensa e vi arricchia.
Udia fra loro ciò che si ragiona
fra spirti buoni innanti a Dio, ciò c’hanno
a far della commessa a lor persona.
Ed ecco altre materie fuor mi tránno
50o tratto pare avermi di proposto,
che rittamente cónte a me non stanno.
S’io fui col Salvator nei di d’agosto,
perché Sisto, Lorenzo ed altri nomo
di quei del tempo assai da noi discosto?
55Tal è d’istoria dignitá, che l’uomo,
leggendo lei. siccome legger déssi,
vive fin a’ di suoi dal primo pomo.
Molti e molt’atti lessi, anzi non lessi,
ma vi travenni, vidi e da principio
60a Carlo quinto li aggio dentro impressi.
Stipendio fei sotto Camillo e Scipio,
poi contr’Ottavio col virile Bruto,
fin ch’ai celeste Re mi fei mancipio.
Però, signori, a voi quel c’ho veduto
65giá mille cinquecento e quarantanni
del Redentor, fu ordito e poi tessuto.

Né esposivi per altro de’ tiranni
l’uso crudel, ché, per venire al peggio,
di tutti è Erode falso e pien d’inganni;
70il qual, dal mal possesso regai seggio
temendo di cascar, cercò ch’estinto
fosse Giesú: però dir lui qui deggio.
Leggesi che Giacòb, sendo in procinto
per oggimai sbrigarsi a piú serena
75vita fuor d’esto nostro laberinto,
con deboi voce ed affannata lena
levò la testa un poco, ed un sermone
fece ai figliuoli, ed era udito appena.
Parlato ch’ebbe a Ruben e a Simone,
80eh’erano i primi, tutto riverente
voltato a Giuda, il gran mistero espone.
— Figliuol mio — disse, — or fisso denti a mente
quel che del gran desdn nelle radici
sta fermo in esaltare il tuo semente.
85Tu fia lodato sol tra’ piú felici
dell’universo e in mezzo alle tue squadre
le man terrai nei crini a’ tuoi nemici.
Adoreranno i figli di tuo padre
chi di te nasce altèro e forte Leo,
90per disgombrar le selve orrende ed adre.
Ma non verrá, se non quando l’ebreo
popol un strano re terrá sepolto
e, di regai, farallo vii plebeo.
Qualor, dunque, vedrai che il seggio tolto
95ti sia, datolo a strani, di’ che viene
quel tuo Promesso e d’indi t’abbia sciolto. —
Si in il parlar colui, che ingannò bene,
per Dio voler, il frate, porse a Giuda;
poi chiuse gli occhi spenti e fredde vene.
100L’esterno re fu Erode, ch’ebbe nuda
in braccio del buon Dio l’ingrata donna,
supposta in tutto a quella bestia cruda.
\

Ma Dio, c’ha d’onor zelo e non assonna
dopo lungo aspettar sferzate darne,
105lá su tuonò, qua giú vesti la gonna.
Lá su tuonò, piovendo non piú starne,
non manna piú, ma guerra solo e peste;
qua giú vesti la nostra umana carne.
Anzi, fatt’uomo, tolse in sé due veste:
110di leon Luna, e qui la pace atterra;
d’agnel quell’altra, e qui vuol ch’ella reste.
Scese leon, rompendo pace in terra;
pace, qual tengon quei c’han negre l’ali;
pace dannosa piú d’ogni aspra guerra.
115Dannosa era la pace tra’mortali,
che sotto empio monarca si nudriva
di gola, d’ozio e assai peggiori mali;
ma di quel piú che Dio piú abborre e schiva,
quel conficcato in noi con fermi chiodi,
120l’adorar un troncone e pietra viva.
Perché Satanno e i suoi, con mille frodi
scorrendo i popol tutti e piú lo greco,
spenser del divin culto i riti e modi.
Né Roma sol, ma tutto il mondo seco
125nuotava in questo abominevol puzzo,
bestie adorando e mostri l’uomo cieco.
Ogni quantunque piccolo vertnuzzo
l’onore a Dio togliea per man d’un grave
mastro, nelle cagion seconde aguzzo.
130Tu sol, Giudeo, latrie si lorde e prave
cognosci vane, e in quelle non incapi,
benché piú volte urtovvi la tua nave.
Furono in scherno agli altri le tue dapi
ed osservati bagni; e a loro spettri
135rendean onore, a stercoli e priapi
quei che del mondo tolser manti e scettri,
dico quei Scipi, Gracchi, Sergi e Fabi,
nati a dur’ elmi piú che a molli plettri ;

quei eh’abbassarci parti, medi, arábi,
140galli, africani e tante umane gregge,
vider le busche altrui, non le lor trabi.
Antenne avean negli occhi, e alcune schegge
ivan schernendo come cosa odiata
nei lumi tuoi, ché Dio ti die’ la Legge.
145Essendo nondimen tu sempre stata
ingrata a Quello, o razza di giudei,
sei degnamente a strani soggiogata;
a quei d’Egitto, a persi e filistei.
Alfin Pompeo ti trasse in Campidoglio
150fra cento e piú onorati suoi trofei.
Cadesti sempre poi sol per tuo orgoglio
ad esser gioco e scherno al mondo tutto,
finché un bel porco ascese nel tuo soglio.
Fu Marco Antonio, autor di alzar quel brutto
155laido mastino e schiuma d’ogni vizio,
nel santo tribunal da Dio costrutto.
Cosi punirti suol divin giudizio! —

CANTO XIV

Qualitá di Erode ed avvenimento di tre magi d’Oriente
Nel sacro, dunque, scanno ed onorato,
ove un re degno e santo sacerdote
dee star coi padri all’uno e l’altro lato.
Erode sta, che de’ vassalli scuote
5dagli occhi il sonno, dalle borse l’oro,
dai cuor gli affanni, e pianti dalle gote.
Erode sta, che a’ fianchi ha concistoro
di teste vote, molli, effeminate,
mandre di vacche e in mezzo il suo bel toro,
io Non uomo qui crudel, ma crudeltate
sovr’ogni vuoi qual vizio fa soggiorno,
a furti pronta e a sanguinar le spate.
Né artiglio mai né dente mai né corno
il griffo, il porco, il tauro con orgoglio
15vibran si certi a’veltri c’hanno intorno,
come questo tirán dal crudo soglio
fulmina pene alla mordente turba,
che non può non dir fuora il suo cordoglio.
Qual rotto mar, quand’Africo lo sturba,
20vedi levarse al ciel, ch’altri lo scaccia
del letto fuora e il fondo gli conturba;
tal, misera Giudea, cui fu bonaccia
in grembo a Dio sotto piú chiari soli,
hai chi ti sprezza, crucia e dá la caccia.
25Ebbe costui da cinque o sei figliuoli,
che l’improntare assai, piú che di volto,
di stupri, mal acquisti, astuzie e doli.
Ma due n’avea stampati di non molto
legitimo metallo e pure nozze,
da’ quai temea gli fosse il regno tolto.
30

Sicché alle forche obbrobriose e sozze
d’ambi fe’ don quel Polifemo ed orco,
e a’ corvi ’i diede impesi per le strozze.
Ben disse Ottavio, che di sangue sporco
35d’un altro suo figliuol non stato fóra
quando l’avesse generato porco;
chiamando! «mal giudeo», che mentre onora
sua Legge, non porcina mai gustando,
si ben la carne de’ figliuoi divora.
40Dovea quel giusto imperador in bando
cacciarlo al tutto privo, ma sol era
punizion decente al divin brando.
Or dal balcone un giorno questa fiera,
stando a mirar lá verso ove il sol suole
45da mane uscire a ritrovar la sera,
vede lustrar lontan sott’esso sole
un intervallo a guisa d’elmi tersi:
suspica presto e seco se ne duole.
Pur punto non si muove, e, mentre immersi
50tien gli occhi coi pensieri in quella parte,
vede gran gente, o medi o arabi o persi.
Non comprende però se sono o d’arte
mercatantesca o ambasciador piú chiari
o, quel che l’ange piú, guerrier di Marte.
55Uomini alfin, cavalli o dromedari,
sendo propinqui, ornai discerne e vede,
lupi cervieri ed animai piú rari.
Vengon parte a destriero, parte a piede.
Rallenta il duol alquanto, come quello
60che, mal vivendo, al mal d’ogn’ora cede.
Rallenta il duol, ch’aver paura fèllo
quel d’arme tremolar. Posa, or vedendo
cani di caccia e in lor piú d’un augello.
Va lor incontro, in s’un corsier salendo,
65ch’avegna egli non sa chi sian espresso,
pur onor pargli d’uomo reverendo.

Chiamasi dietro i grandi e il volgo stesso,
ché tutti a forza vuol l’astuta volpe,
per un passo che faccia, il seguan presso.
70Fra morsi e punte d’infinite colpe
vive chi mal di fuora signoreggia,
ch’entro serve a chi gli rode ossa e polpe.
Mentre va, dunque, innanzi a tanta greggia,
vede calar tre coronate teste
75fra nobil calca che dal monte ondeggia.
Han loro verghe in mano; han loro veste
fin a’ taloni a modo de’ nostr’avi ;
hanno di re le insegne manifeste.
Son tre canuti venerandi e gravi,
80Gasparo, Melchiorre e Baldassaro,
giustissimi signori, acconci e savi,
sciolti d’ogni pensier crudel e avaro;
e di scienze tengon si le vene,
s’ognun fosse a natura segretaro.
85Le gemme e l’oro vengon dalle tene
della felice loro Arabia, ed anco
son d’aloe, d’incenso e mirra piene.
Lá innanzi, dietro, all’uno e all’altro fianco,
veggon del ciel i corsi e chiari specchi
90e san degli emisper qual ner, qual bianco.
Lá il sol augello, alli fiammati stecchi
postosi ad arder, par che grazia impètre
vestirsi nuovi vanni e porre i vecchi.
Han d’erbe e fiori, han d’animali e pietre,
95han d’altre cose assai notizia, e buoni
a sciórre i corpi ancor dall’ombre tetre.
Di fiamme, nevi, piogge, venti e tuoni,
folgori ed archi, mari, fiumi e laghi
san dire a pieno e d’altre passioni.
100Però son detti da lor lingua «maghi»;
«filosofi» da’greci; noi «saputi»;
l’ebreo nomarli «scribi» par s’appaghi.

Lo clima lor felice ingegni acuti
spira col seme a fonder de’ sabei,
105donde s’acconcian tutti alle virtuti.
E, perché son confini alti caldei,
per mastro ebber gli antichi loro Abramo,
che padre fu de’ padri antichi ebrei.
Esso adescò delle scienzie all’amo
no piú nazioni, essendone perito
da quel eh’ancor donolle al padre Adamo.
Or questi saggi, dunque, avean udito,
veduto e letto cosa, che nel cribro
volgon del senso ad alte imprese ardito.
115Di Balaam lor mago han seco il libro;
han diece e piú sentenzie di sibille,
tratte da quei che fúr portati al Tibro.
Sann’esser stato giá mill’anni e mille,
veduto cose in spirto e detto e scritto,
120che nulla etá cosi stupende udille;
cose d’un nuovo Re, che far tragitto
dovea di cielo in terra, e di divino
fars’uom, come di Dio chiudea l’editto;
e che in Giudea vederlo fanciullino
125potean allor che lampeggiar vedranno
stella di nuovo nel celeste sino.
Però, veduta lei, con fretta vanno
servandola, quantunque assai remoti,
per dirne a chi la cosa meglio sanno.
130Voglion spiar da scribi e sacerdoti
di Palestina ove quel Cristo nasce,
ch’ardon veder ognor chini e devoti.
E se una stella non mentisce e pasce
lor di speranza indarno, san di certo
135ch’Egli è giá mai nasciuto e dorme in fasce,
e pregan un ben tanto gli sia aperto.

CANTO XV

Ode Erode da’ magi la cagione di lor venuta, tínge esserne lieto,
fa grand’onore ad essi e fa chiamare i dottori ebrei.
Non era esposta la cagion d’un tanto
avvenimento ancor, né vi è fuor d’essi
chi di saperla possa darsi vanto.
Erode, che lor vede a indici espressi
5esser di pace obbietti e non di guerra,
gli accoglie, abbraccia e in cuor giá se gli ha messi.
Ch’avvegna egli sia degno andar sotterra,
u’ non mai vegga il sol, pur essa propria
dignitá regia dá, quale non erra,
io Sebben di giusto e pio voler ha inopia,
di delizie non l’ha, ma d’esse a quelli
versato è tutto il corno della copia.
Dentro la gran cittá nei piú alti e belli
soggiorni gli ha corcati, ove in secreto
15si stringe un poco a ragionar con elli.
Or ode Erode alfin un poco lieto
nunzio per lui; di che pien d’ira e sdegno,
noi mostra fuor, mentr’è fra il chiaro ceto.
Poi, toltosi da loro, ornai del regno
20non sospettoso men che per usanza,
riporta un seno d’odio e téma pregno.
Ch’altri venga occupar la regia stanza
forte gli par, se allor non vi provede,
e finge, essendo traditor, leanza.
25Sol con versuzia può ritrar il piede
dal precipizio e pinger tal amore,
qual a coperto mentitor si chiede.
Onda tranquilla e ciel sereno fuore
apre nel lieto e simulato volto,
30ma di dolor tempesta dentro il cuore.

Fuor un ridente prato appar col molto
e vario bel fiorir: ma, voi, fuggite,
fanciulli miei, ché l’angue vi è sepolto!
Frattanto genti assai, come invaghite
35di novitá, vernano alla cittade
da ville, borghi ed oppidi partite.
Chi va, chi vien per piazze, campi e strade;
ciascun è di veder tre re bramoso;
cosa onorata e che di rado accade.
40S’appara un gran convito e sontuoso,
e tiensi dal tirán bandita corte,
il volgo è piú che mai licenzioso.
Aperti in questi di stann’usci e porte;
non è pertugio nel palazzo e tomba,
45ch’entro a guatar ognun non vi si porte.
Fansi piú feste, e l’aria ne rimbomba:
qua vanno i pazzi ad incitar il toro,
lá romper lance e teste a suon di tromba.
Tutto era fatto parte da coloro
50ch’intendon esser nato il Re promesso,
non strano e sporco, ma del ceppo loro;
parte fingon apposta giuochi, ch’esso
finger lor fa, per chiuder il partito
giá preso in cuore e ben tenerlo presso.
55E, mentre ancor procede il gran convito,
vi fa chiamar un volgo di dottori,
ch’avean da lui pria la cagion udito.
Vengono quelli, e sono de’ peggiori,
ché raro a verno i buoni, e quei comparsi
60stan sulle strade e del palagio fuori.
Non per alcuna guisa voglion darsi
con lorda nazione e che dissenta
dai riti lor per non contaminarsi.
Stanno, dico, da venti mastri o trenta
65fuor delle porte, e attendon sulle slrate
infin che il Mése lor d’entrar consenta.

Or poscia che le mense fúr levate
e i magi al re donáro alcuni pardi,
venne un uscier, che disse loro: — Entrate! —
70Entrano pettoruti a passi tardi,
con toghe lunghe, mille inchiappi e bende,
parendo lor che il mondo fiso ’i guardi.
Di queste e d’altre cerimonie prende
quel sovraciglio lor, quella lor gloria,
75quel«tienti buon», che Dio sol buono offende.
Oh vani lor, che son fuor di memoria,
se non in ciò, ch’ognun beffarli gode,
mentre ventosi scoppiano di boria!
E, pur soggetti ad un villano Erode
80send’essi e degni star nel regio scanno,
timida rabbia gli ange dentro e rode.
Quei re vecchioni appariscenti, c’ hanno
gran tempo fa negli animi concetto
che pur gli ebrei sian quelli il tutto sanno,
85voglion mostrar il debito rispetto,
ponendo man all’onorande chiome;
ma noi sofferse Erode in lor dispetto.
Ei sa per lungo esperimento come
in quei sovente, c’hanno grido e suono,
90l’effetto poi non corrisponde al nome.
Altro ci vuol che dir: — Prelato sono! —
chi l’uso vuol serbar dei santi vecchi,
ch’or a fatica n’hai di mille un buono.
Aman d’esser nomati e d’esser specchi;
95d’occhi malsani e ventri son forniti,
per non dir d’altro, di pagliuzze e stecchi.
E pur han cura che ciascun gli additi
lungo alle piazze ed ove sia gran calca
per satrapi di conto e in senno arditi.
100Però non poco scema e si diffalca
la fama alla presenzia d’un che, basso
e vile, or per le gran cittá cavalca;

eh’ove diffidi venghi un poco il passo,
o ch’egli intoppa o ch’egli addietro torna,
105standosi nel suo termine e compasso.
Può assai tacendo, eh’alte ha giá le corna;
e, quando parla, è mozzo; ché il dir lungo
l’augello il fa che del pavon s’adorna.
Alfine, acciò sia detto ch’io ben pungo
no tant’uomo dotto, questo a dir vi basto:
ognun, che il vede, chiama: — Ecco un bel fungo! —
Questo medesmo a quell’ebraico fasto
per troppa opinion di lor travenne:
or ecco da chi sconcio vien e guasto.
115Erode, come dissi, non sostenne
che si levasser quei tre bianchi cigni
a quelli corvi, c’han d’altrui le penne.
Seder doveano aneli’essi, ch’a ciò digni
lor grado ’i fa; ma sempre onrar spreggiamo
120quei, la cui vita dai maggior traligni.
— Signor — disser, — al vostro imperio, abbiamo
delle Scritture assai visto e rivisto
fin a quest’or dal padre nostro Abramo.
Dubbio non è, ch’occulto ed imprevisto
125gli oraeoi molti e le sentenzie molte
dicon che in Betleém dé’ nascer Cristo;
e ch’Ei si grande fia, ch’andranno accolte
le nazion sotto il suo magno impero.
Se questo è ver, son giá le carte sciolte.
130Sciolte le carte son, se questo è vero;
e vero esser pensiam, ché Dio non mente;
poi v’ha degli anni l’osservar intero. —
Erode al lor, che stringersi entro sente
man fredda il cuor, si volge ai santi maghi
135e disse, in volto al duol non rispondente:
— Che indizio avete voi, che cosi vaghi
siete di ritrovarlo, ch’un re tale
sia nato, e oscuro star par che s’appaghi? —

Ed essi a lui: — La sopranaturale
140sua stella in Oriente apparse a noi,
ch’altra non ha tanto splendor né tale.
Venere, Giove, Cinosura e i Buoi
men lucidi miramo, e nuova aurora
qui ver’ ponente fanno i lumi suoi.
145Però dei nostri noi confini fuora
uscimmo a seguir lei, che ci scorgea
per aspre vie senza mai far dimora.
Ma, tosto che toccammo di Giudea
vostra l’estreme parti, ella disparse
150dagli occhi nostri e piú non si vedea.
A noi disposti di trovarlo parse
con securtá venir pel vostro stato,
né tardi i piedi aver, né le man scarse. —
Erode a lor: — Non può se non lodato
155esser cotanto degno in voi disio.
Ite a cercarlo in qual vi piace lato.
Trovato che l’abbiate, intento è mio,
quando vi piaccia un poco darmi aviso,
venire ad adorarlo come Dio.—
160Cosi quel falso disse in lieto viso;
e quei, giá risaliti ancor in sella,
venian in Betleemme all’ improviso,
quando di nuovo usci la chiara stella.

CANTO XVI

Figura della regina Saba, che andò da Salomone.
Li magi entrano ad adorare ed offerire a Cristo.
Febo giá torna a riscaldar quel sole
ch’a noi dá il caldo, il lume, il corso e quanto
donde succresce l’universa prole.
Gioseppe ed io con esso lui, fra tanto
5che la gran Madre al maggior Figlio intende,
da lor ci erámo allontanati alquanto.
Non oziose il giusto l’ore spende,
ché in una sempre verde antica selva
per nutrir noi fa piú cosette e vende,
io Qui ladro alcun né temeraria belva
danneggiar suole, ove con lor armenti
piú d’un bifolco a pecorar s’inselva.
Qui il santo fabro ed io con li strumenti
fabrili ci trovamo; io mal perito
15solo a sgrossar, egli a pulir intenti.
Ma, giunta l’ora, poi, che l’appetito
nativo in noi chiede ristoro ed ésca,
seggiamo al nostro solito convito.
Pane, frutta, radici ed acqua fresca
20delizie sono e splendide vivande:
raro si caccia a noi, raro si pesca.
Qua sempre armenti e gregge in copia grande
vengono al mormorar delle vive acque;
chi l’erbe pasce e frondi e chi le ghiande.
25Benché gennaro sia nevoso, piacque
pur a natura assai per tempo sciòrre
e fronde e fiori ove ’l suo Mastro nacque.
È fra’ pastori alcun nato a comporre
semplici versi, e a querci darli ed olmi,
30e chi li canta e chi ad udirli corre.
i
k

Son ei pastor si di memoria colmi,
eh’infinite ne dicon si soave,
eh’anco da lor esser lontano duoimi.
Quando sott’ombre e quando in pietre cave,
35concordan lor zampogne a voci vive,
sebben né acuto san né tuono grave.
Suoi satiri, sue ninfe ed altre dive
son gli angeli del del, non finti e vani.
Oh misere cittá, che ne son prive!
40Muggiolar vacche in boschi e latrar cani
quant’èssi meglio udir, che in piazze e templi
qua Bartoli gracchiar, lá Pietri ispani !
Chi vuol delle virtú ritrar gli esempli,
virtú native ed entro l’uovo assunte,
45vada fra quei pastori e vi contempli,
vegga lor opre ai documenti giunte,
come son casti, sobri, puri e schietti,
e legga poesie nei faggi punte!
Giá non fuor di ragion fúr essi eletti
50d’appresentarsi al gran presepio soli
e d’ amor riportarne colmi i petti.
Non hanno di Rachel quei buon figliuoli
altro a temer in tanta lor quiete,
che lupo o ladro qualche agnello involi.
55Or dunque noi, sedendo a quelle liete
fercole, udimo al monte voce tale,
ch’obliar ne fe’ lo stimol della sete:
voce d’un angiol, creggio, in pastorale
abito apparso e postosi, s’un ramo
60solo, a cantar, d’un pino al ciel uguale.
Noi, fatti un poco a lui di quel ch’erámo
vicini e occulti piú, per non sturbarlo,
questa canzone ad ascoltar cen stiamo.
— Platani ombrosi e palme, e voi, che il tarlo
65né il tempo offende, cedri, e voi cipressi,
udite il suono che cantando io parlo!

Volan le trombe, e quinci e quindi i messi
spargon di Salomon le grazie, il senno:
corron a udirlo genti d’ambo i sessi.
70L’alta regina Saba, eh’ad un cenno
corre di sapienza al vivo fiume
(né in quattro etá gli ebrei cotanto fenno),
stupisce al grave aspetto, al bel costume,
al dir soave, al gran consiglio, al senso,
75all’intelletto, all’arte, al vivo acume.
Offregli l’oro come a re che immenso
sta sovra gli altri, e come a sacerdote
ofiregli mirra ed odorato incenso.—
Cosi cantando in leggiadrette note,
80cosa ci apparse che interruppe a lui
la bocca piena, a noi le orecchie vote.
Sferica fiamma e illustre in capo a nui
fece piú giri ed ampie rote; poscia
fermò sopra il presepio i raggi sui.
85Sembianza di gran stella avea, che roscia
fa l’aria intorno come ardesse il foco:
di che mi venne al cor subit’angoscia.
Senza pensarvi suso almen un poco,
lá m’avventai, com’uom che vede a caso
90essersi appreso alla sua stanza il foco.
Era nel bosco il mastro mio rimaso,
ed io, correndo nell’uscirne fuora,
pien d’allegrezza fui, di téma raso,
perché una squadra nobile, ch’onora
Q5 tre re nel mezzo, d’oro e gemme ornati,
veggo gir dove il nuovo Sol dimora.
So che divinamente ivi guidati
fur da quel vivo lume, e, giá discesi
di lor camilli, al Figlio son entrati.
100Córrevi la cittá, ché giá piú mesi
ed anni e lustri e secoli passáro,
che di tanto stupor non mai fúr presi.

Ma non però dietro ai gran saggi entráro,
ché all’uscio stati le consuete guarde:
105sol i tre re nel vile albergo andáro.
Stanno con ronche, dico, ed alebarde
in sull’entrata del tugurio basso,
che tutto dentro e fuore raggia ed arde.
Io, giunto alfine lá, piú che di passo
110giro alle spalle della nota stanza,
ov’era scuro, e per veder m’abbasso.
M’abbasso curioso, e con baldanza
non so se troppo ardita, ad un forame,
sol per veder quell’inclita raunanza.
115Veggo Madonna, posto giú lo stame,
aver sulle ginocchia tolto il Figlio,
sedendo bassa in candido velame.
Tien vereconda sempre in terra il ciglio,
e il Bambin stassi ardito e fuor di fasce
120in un farsetto del color del giglio.
Io, nondimeno, in non so ch’astio e ambasce
era mirando i re prostrati e chini
toccar il bue, tant’ei vicino pasce!
Ma sciocco me, che gli ordini divini,
125né quanto può lo Spirto, ancor sapea,
ov’egli spiri, ov’egli afflar s’acchini!
Non di tre re tal maestá potea
piegar un piè, non che gittarsi a terra,
s’entro valor di Spirto non movea.
130II buono Dio, che in quel Fantin si serra,
dramma di luce propria in quei vecchioni
al primo entrar e vista lor disserra.
Essi, che, in legge di natura buoni,
disposte avean assai le stanze interne,
135ov’entri quella e d’ombre i cuor sprigioni,
nel porger di lor occhi alle lucerne
che il Fanciullin ha sotto fronte accese,
videro un poco delle gioie eterne.

Però stan lor persone fuor distese,
140l’anime dentro alzate, e veggon schietto
il perché Dio qui s’ombra in vii arnese.
L’asino, il bove, il ruinoso tetto
a lor son in quel punto un ciel aperto,
né tórsi unque vorrian di tanto aspetto.
145Alfin, siccome a Dio fatt’uomo e a certo
re, sacerdote e che sostien martiro,
salute uni versai, gli ebber offerto
incenso, mirra ed òr: poi se ne giro.

CANTO XVII

Vanno in Gerusalemme alla purificazione della Madonna.
Costume della Legge.
SI tosto che i tre maghi e le primizie
dell’alme nostre incirconcise per le
celesti offrir le umane lor divizie,
forse Madonna sen vaghi vederle?
5forse ne divisò le dita, il petto,
le trecce ornarsi d’oro e fine perle?
forse le venne in mente il duro letto
del fien cangiar in piume al tener Figlio?
forse comprarne un campo, un poderetto?
io Anzi sa l’alta donna esser consiglio
nel ciel, che dove Cristo il capo acchine
non abbia proprio loco e domiciglio.
Di quei tre doni la cagion, la fine
intende, abbraccia, la ripon nel cuore:
15il pregio lor terreno ha come spine;
spine tenaci, ch’occupan l’umore,
onde il buon seme ingravida, germoglia,
e d’un sol n’esce un centinaio fuore.
Della vaghezza esterna lor si svoglia:
20me chiama in parte, ove, imperar dovendo,
pregami ch’io dar l’oro a’pover voglia.
Senza pensarvi piú, tal cura prendo:
faccione particelle, che in secreto
fra le man d’affamati e nudi spendo.
25Torna fra tanto a noi Gioseppe lieto,
a cui Madonna e della stella narra,
dei re, dei doni ed onorato ceto.
Il giusto allor giú mette l’ascia e marra,
e in ginocchioni chiama questa voce:
— Venute son le genti, han dato l’arra!
30

2IÓ IV - la palermitana
Ben fosti, Donna, a prenderla veloce;
or non piú ritrattar si può, ch’a loro
il Figlio è debitor di sangue e croce.
Dieron l’incenso, dièr la mirra e l’oro,
35daranno l’alme a tempo, e noi daremo
il Figlio ad essi in strazio ed in martoro.
Fra tanto a impier la legge tenderemo;
l’abbiamo, com’ei volle, circonciso;
or, per offrirlo al tempio, al tempio iremo.
40Esso poi beffeggiato e alfine ucciso,
dia nuova Legge e nuovo Testamento,
da carne ed ombra e littera diviso. —
Cosi parlava il giusto, al ciel intento.
Poi s’erge, volta a me facendo ch’io
45all’asinelio ponga il guarnimento.
Faccio presto e fedel l’officio mio
con tal fervor, ch’un animai si fatto,
per tal soma portar, esser desio.
Sfrondo una verga e i vecchi arnesi batto
50e della polve scuoto, in cui bisogna
seder Chi l’universo fece a un tratto.
E tu, vii uomo, e tu, lorda carogna,
salire al ciel disegni, e il Re del cielo
seguire in umiltá ti par vergogna!
55lo ricercando vo di pelo in pelo
quel suo destriero, e, s’ulla in lui mi spiace
o via la tolgo, o la ricopro e velo.
Va il giusto intanto ove sott’ombra giace
l’altro animai pasciuto, il drizza e mena
60e ponlo in mandre, ov’egli si conface.
Ritorna poscia, e l’unica serena
del ciel Imperatrice alfin s’asside
nel basto; ed io, vedendo, il creggio appena
Gioseppe le dá il Figlio, e nelle fide
65sue sante mani accetta il dolce incarco,
né mai dal caro sen lo si divide.

Io di piú cose in un fardel mi carco,
ed al somier, ovunque ficca il piede,
ho cura ognor d’agevolar il varco.
70Va concio il buon somier, non sta, non riede;
va, persevera e portasi la salma,
che al portator perseveranza chiede.
Ogni fedele, accesa e devot’alma
venga a seguirla nosco in guerra, ch’anco
75iremo seco alla vittrice palma!
Io non per piano, io non per monte stanco
vengo farle servigio in quel viaggio;
perdón le chieggio, se talora manco.
Poscia, siccome quel che pur sempre aggio
80pronto il desio d’intender le cagioni
degli andamenti suoi, m’accosto al saggio:
al saggio e buono, anzi ottimo fra’ buoni,
Gioseppe accosto, ed umil prego ch’esso,
cosi in andando, ad util mio ragioni;
85e che un pensier fra gli altri ho dentro impresso,
di saper donde avvien che vanno allora
per purgar vizio non da lor commesso.
Risponde: — In ciò s’ammanta e s’incolora
il sacramento, per tenerlo ascoso
90fino al prescritto tempo ch’esca fuora.
La Legge vuol che il mal contagioso,
contratto nel consorzio maritale,
immondo sia non men d’ogni leproso.
Però nasce un infante lordo, e tale
95l’ottavo di vien circonciso e appare
purgato e lascia il fiele originale.
Sua madre in quei di ancor non all’altare
esce, come appestata, fuor di casa;
poi, giunti i trenta di, si va a purgare.
100Or, benché questa Dea sia netta e rasa
d’ogni quantunque piccola sozzura,
quantunque fuor d’un career tal rimasa,

vuol Cristo nondimen ciò, che in figura
di Lui sta scritto e in cerimonie posto,
105scioglier e seco trarlo in sepoltura.
Esso in tre di se ne sciorrá tantosto,
giá ravvivato; ma di scritta Legge
quest’uso sempre rimarrá nascosto.
Altr’uso, altri costumi, altr’opre elegge;
110viensi allo Spirto, al circoncider solo
l’alme e purgarle e offrir del cuor le gregge.
Il pianto e degli eccessi l’astio, il duolo,
il cangiar vita, il reformarsi dentro,
saran di agnei, di buoi, di capre stuolo.
115Ma siamo giunti alla cittade, al centro
dell’ampia balla in piano posta. Ahi cieca,
ch’or non vedrai quel Re, che a te vien entro!
Quel, che chiamasti e cerchi, mò ti reca
la libertá; ma non la vuoi, ché troppo
120godi nel mal, troppo l’error t’accieca!
Tu viver pensi, e piú che di galoppo
sei corsa a morte. Tu veder pur credi,
e il lume hai sguerzo; andar, e il piede hai zoppo!
Esser ti persuadi sana, e i fedi
125tuoi membri van gli stomacosi vermi
d’ognor pascendo dalla fronte ai piedi.
Però t’annunzio che non puoi vedermi
nel fascio ch’or ti porta l’asinelio,
c’hai gli occhi al tutto spenti, non che infermi.
130Porto di contrabando un mio fardello
ch’or non ti paga il fio, né addurlo voglio
nel tuo dotaggio, ch’entro evvi l’Agnello.
L’Agno ho qui meco, il quale piú d’un foglio
del libro, ove tuoi debiti stan scritti,
135per scontar viene e tòrti un tal cordoglio.
Ho meco il sol refugio degli afflitti,
che per te scioglio e muovere non manca
sol ch’a’ suoi piè chiamar pietá ti gitti.

L’Agnello ho meco, la cui lana bianca
140tonder porrai, ch’ei mutolo starassi:
vendendo lei, da creditor sei franca.
E tutto d’òr e tutto fin darassi
a te, che il compri vii, che il vendi caro;
non intier no, ma rompilo e fracassi.
145Ponlo al macello, tránne il sangue chiaro;
sangue c’ha sol virtú, chi ’l bee, chi s’unge,
sciòr ciascun membro pestilente e raro. —
Cosi parlava il giusto; e, mentre punge
e accenna il somarei ch’afTretti, entramo
150le regai porte, ed ove al ciel si giunge
il ricco tempio, a por le salme andiamo.

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