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ATTO II.
SCENA I.
Gulone parasito, solo.
Gulone. Sempre ch’odo sputar filosofia da questi savioni, odo dir che la natura è stata a noi benignissima madre. O che mai nascessero piú filosofi, e che si perdesse, in tutto, il collegio e la razza loro! perché, quando discorro fra me, trovo tutto il contrario: che la natura ci è stata capitalissima nimica nel farci del modo che ci ha fatto. A che proposito far duo occhi, due orecchie, due faccie, due mani, due piedi, duo spalle, ed una bocca, dove sta tutta l’importanza? che l’uomo vive per la bocca, e non per gli occhi né per l’orecchie. A che proposito far le budella cinquanta palmi lunghe, accioché peniamo tutto un giorno fin che il cibo si rassetti, si prepari e si smaltisca, e il gargarozzo, per lo quale sentiamo il gusto e l’esquisitezza de’ cibi saporiti, di tre diti? ch’appena mangiato un boccone, cala giú, sparisce subito, come si mangiato non l’avesti? Doveva far il gargarozzo lungo un miglio, che, calando giú per quello il cibo, durasse il diletto tutto un giorno; e le budelle far tre diti, dalla gola al buco di sotto, largo, aperto, che, subito inghiottito, uscisse fuori, e fusse l’introito uguale all’esito. A che proposito consumar tutto il corpo in gambe, in braccia e testa, e il ventre farlo picciolo? or non potea farlo come un sacco, per poter insaccar robbe assai? Che dispiacer si trova uguale a quello che di trovarsi in una tavola abondante e ben fornita di vivande e di vini eccellentissimi, poi aver un corpo picciolo e non poter divorare? ché tanta è la rabbia e la disperazione, che vorrei allora con un coltello forarmi la pancia per poterlo cavar fuori e tornare a riempirlo. Almeno ci avesse una apertura nel ventre, che si aprisse e serrasse con bottoni come le vesti, ché, dolendoci il ventre o essendo troppo pieno, potessimo guardar che cosa sia dentro, e poi tornar ad affibbiarlo. A me par che sia stata benignissima madre agli animali, perché ha fatto al bue, alla capra e agli uccelli una saccoccia alla gola, ché il cibo ingoiato si riceve in quella, e dopo mangiato ruminano quel cibo, e mangiano di nuovo, e si trattengono tutta la notte. Or non potea farne un’altra all’uomo? accioché, trovandosi a mangiar ne’ tinelli, dove per la fretta bisogna tranguggiare i bocconi senza masticargli, poi quando fussimo a casa, li potessimo ruminar di nuovo? Ha fatto al Gulone un budello largo e breve, che, quando è ben satollato, passando per mezo a dui arbori stretti, scarica il cibo da dietro, e poi torna a satollarsi di nuovo? Non poteva la natura farmi una bestia come queste? darmi fame di lupo, bocca di rana, pancia di rospo, collo di grue, denti di cane, due lingue di serpe, stomaco di sturzo, che bevesse come cavallo, dormisse come ghiro e cacasse come una vacca?
SCENA II.
Trasimaco capitano, Gulone.
Trasimaco. Riniego Marte, se non t’ammazzo; ché ti son gito cercando per tutte l’ostarie, dubitando che non fossi restato in pegno, per riscattarti.
Gulone. M’hai interrotto un discorso che facea contro la natura.
Trasimaco. La natura fu sempre tua nemica, e sempre le fosti contrario.
Gulone. Come uomo di poco spirito, non posso penetrar nella grandezza e magnificenza sua, né toccarne il fondo.
Trasimaco. Nascesti col cervello a roverscio, però tutte le tue cose vanno al roverso: schivi le cose straordinarie e ti servi del snaturale. La forca che ti appicchi per la gola!
Gulone. Appicchimi per dove vole, ma non per la gola: la vo’ intiera e sana per me.
Trasimaco. Ma dimmi s’hai ragionato con Pardo.
Gulone. Sí, bene.
Trasimaco. L’hai detto che son un Rodomonte, un Alessandro Magno de’ nostri tempi? non rispondi, furfante?
Gulone. Non posso far ragionamenti, per la gola secca che ho.
Trasimaco. Tu a me menti per la gola? Mira a che pericolo ti poni.
Gulone. Dico che, per la gola secca che ho, non posso formar ragionamenti.
Trasimaco. In somma hai conchiuso le nozze?
Gulone. Se non bevo una voltarella e inumidisco il palato e la lingua e ristoro la virtú, vengo meno.
Trasimaco. Non puoi dir sí o no?
Gulone. Son cosí affamato, che vedrei la fame nell’aria: il ventre sta vòto e si bacia con la schena di maladetti baci. Ascolta come gorgoglia.
Trasimaco. Che sei di razza di cavalli, che, quando stai digiuno, il ventre gorgoglia? Odi.
Gulone. Non odo, ché le budelle fanno tanto rumore che m’impediscono l’udire.
Trasimaco. Non mi promettesti iersera darmi la risoluzione del matrimonio?
Gulone. È vero che l’ho promesso; ma, venendo a casa vostra, mi incontrò un amico, mi portò a casa sua, e mi diè a ber vini tanto grandi e fumosi, che m’empirono lo stomaco e il capo di fumi, che non vedeva la via per tornare, e fu bisogno dormir a casa sua.
Trasimaco. Affogaggine! Mancar della promessa non è ufficio d’infame?
Gulone. Veramente, sí; che, se non fussi stato in fame, non sarei andato a casa sua, ma sarei venuto alla vostra.
Trasimaco. Dico che non è ufficio d’uomo da bene.
Gulone. Io non fui mai uomo da bene, né ci voglio essere: se ci fussi, mi morrei di fame. Io son ladro, buggiardo, furfante e ruffiano, e cosí sguazzo il mondo.
Trasimaco. Cosí tratti gli amici?
Gulone. Io non ho amici altro che il principe della Trippalda, che è il maggior amico che abbi: la trippa vacua è il maggior nemico.
Trasimaco. Ed è possibil che tu non vogli ragionar se non di mangiare?
Gulone. E tu di donne e di amori? Non ci è differenza tra l’amor mio e il tuo: io fo l’amor con vitelle mongane, tu con vacche: carne ami tu, carne anco io: tu cruda e io cotta; e tanto è miglior l’amor mio del tuo, quanto è miglior la carne cotta della cruda. La carne cotta è saporita e odorata, la cruda puzza, è schiva e s’abborrisce; e come tu or fai l’amor con questa e or con quella, e sfoghi quei tuoi sfrenati desidèri: e io, contra una tavola ben abondante, come un sfrenato innamorato, or mordo poppe di vitelle fredde, or inghiotto i tordi grassi — che stringendoli con i denti, mi cola di qua e di lá il grasso, — or bacio becchieri e bottiglie, piene di vini brillanti e saltellanti, con saporitissimi baci, e sfogo l’ingordo desiderio del mio ventre. E mentre mi trastullo con questi, fo l’amor con le porchette, che si stanno arrostendo, pascendomi intanto di quei soavi odori.
Trasimaco. Io stimo che con quella gloria e animoso ardire con cui io entrerei in un steccato, tu in una tavola ben acconcia.
Gulone. La tavola ben acconcia è il mio steccato, dove, con uno glorioso appetito e animosissimo ventre, mi riduco assai volentieri a scaramucciare e menar le mani.
Trasimaco. Non piú, ché ragionando di mangiare non finiresti tutto oggi. Hai conchiuse queste benedette nozze?
Gulone. Ed è possibile che, come si tratta di ammogliarsi, vorrebbe ciascuno che le cose si trattassero a staffetta, e che volassero? Poveretti! non vedete che quanto piú presto la togliete, piú presto vi viene a fastidio, e vi pentirete?
Trasimaco. Sei molto pigro a trattare i negozi.
Gulone. Son pigro, secondo il tuo desiderio; ma presto, secondo il mio: a chi desia non si fa cosa con tanta prestezza, che non paia tarda. Dice che, volendola senza dote, venghi a sposarla.
Trasimaco. Ti ringrazio della nuova.
Gulone. Che pensi col ringraziamento avermi pagato, come se m’entrasse in corpo e me cavasse la fame e la sete? Troppa ingiuria fai tu al mio ventre.
Trasimaco. Troppa ingiuria fai tu alla mia liberalitá, ché sai che non tengo le mani chiuse, quando bisogna. Portami la risposta e vieni a mangiar meco, ch’io fra tanto farò porre in ordine e arò protezion del tuo ventre.
Gulone. E io fra tanto porrò in ordine l’appetito.
Trasimaco. Vuoi che ci sia della lacrima?
Gulone. Della lacrimissima.
Trasimaco. Del greco?
Gulone. Del grechissimo.
Trasimaco. Ti aspetto con la buona nuova.
Gulone. Novissima buonissima. Or batto: toc, toc.
SCENA III.
Trinca, Gulone.
Trinca. Volpino, sali su quelle legna.
Gulone. (Legna per far fuoco per lo banchetto, che Pardo ha promesso invitarmi a pranso. Ma queste legne non mi fan buono augurio, canchero!).
Trinca. Ti venghi a mente recar le corde.
Gulone. (Di cembali e di leuti, che mi fará una musica. Ma appresso al «canchero», quel «ti venga» pur mi fa malo augurio).
Trinca. Non ti smenticar di cinquanta nespole acerbe.
Gulone. (Son frutti dopo pasto; ma pur le nespole acerbe solemo chiamar le bòtte. Ma vien fuor Trinca).
Trinca. Gulone, che si fa?
Gulone. Bene.
Trinca. Non è tua usanza.
Gulone. Ti viene a visitar un tuo amico carissimo.
Trinca. Io non vo’ amici carissimi, ma di buon prezzo, che ho pochi dinari. Che sei venuto a far a quest’ora?
Gulone. E tu non sai l’usanza mia?
Trinca. Non mi ricordo.
Gulone. M’è venuta una disgrazia, la maggior che mi possa venire.
Trinca. Dimmela, se non è cosa di stato.
Gulone. Mi muoio della maladetta fame: io son venuto a sguazzare col tuo padrone.
Trinca. Sguazzarai come un cavallo per un pantano: il mio padrone sta irato teco.
Gulone. Scusa di mal pagatore: perché l’ho maritata la figlia, per non darmi la mancia, finge il colerico. Questo è il frutto dell’obligo? Va’ e stenta tu. Io vo’ che mi faccia il beveraggio bonissimo.
Trinca. Ha promesso farti buttar in un fiume, ché beva benissimo.
Gulone. Che ha egli meco?
Trinca. Essendosi informato del capitano, ha ritrovato tutto il contrario di quanto gli hai detto; e se avesse fatto il matrimonio sotto la tua parola, arebbe annegata la figlia. Hai torto ingannarlo cosí.
Gulone. Come egli ha ingannato me, cosí ho ingannato lui.
Trinca. Non sai tu ch’egli sostiene quelle sue grandezze con l’ombra delle bugie e con falsa fama? E il peggio è, che hai detto mal di lui al capitano...
Gulone. Possa digiunar un mese, se è vero.
Trinca. Giurane su questa orecchia d’asino!
Gulone. Ho sempre dubitato che fussi un asino; ma or che me ne mostri l’orecchio, ti stimerò tale da oggi avanti.
Trinca. ... Con dir che ti fa seder in un tavolino, e ti pone inanzi certe minestrine, certe insalate ricamate e gelatine figurate, e certe torte e bistorte, la carne minuzzata, le cose mal ordinate e cotte.
Gulone. Trinca, è vero che ho detto che non posso aver peggio, quando le cose non son bene apparecchiate, ché il buon apparecchio è il quinto elemento della tavola; e che le robbe sieno assassinate dal cuoco, quando non vedo pasticcioni, quarti di vitelli intieri, teste di cinghiali, e posto a tavola ogni cosa intiera; non star sempre il salame a tavola morbido e succoso. Che maggior torto si può far alle torte, quando vengono fredde, e le midolle e i grassi gelati sopra? il brodo senza lardo e senza specie? gli arrosti secchi e mal impillottati? e il peggio di tutto, che il vin non sia eccellente, dolce, gagliardo e piccante? che ci bisognarebbe la fame arcigulonica per divorarle. Di questo mi son doluto alcune volte, e non del mancamento.
Trinca. Tu sai che sempre sei stato in capo alla tavola; e ogni cosa è venuto innanzi a te, e tu fai la parte e dái quel che ti piace a gli altri; e ti sei alzato da tavola con la faccia piú rossa di un gambaro boglito.
Gulone. È vero.
Trinca. Perché dici il contrario, quando mangi con altri? e quando mangi con noi, dici mal di loro?
Gulone. E perciò vuol entrar in colera meco?
Trinca. Il capitano ha detto tant’altre cose di te al padrone, che non si direbbero di un boia.
Gulone. Che può dolersi di me il capitano? Che sia maledetta quella puttana che lo cacò!
Trinca. Che, andando tu in casa sua, ti fará dar cinquanta bastonate.
Gulone. Vada in bordello egli e la sua razza! (Queste son quelle legne che dicea poco innanzi, e cinquanta nespole acerbe).
Trinca. Il padrone ha giurato farti dar altre cinquanta bastonate.
Gulone. Cinquanta bastonate piú o meno poco importa.
Trinca. Farti romper la testa e sfreggiarti il volto.
Gulone. Facciami quel che vuole, gli sarò sempre amico e non mi allontanare dalla sua tavola.
Trinca. Farti ligar in una camera terrena:...
Gulone. (Queste son corde ch’io stimava di cembalo).
Trinca. ... e farti dieci crestieri il giorno, accioché evacui bene; poi attaccarti con i piedi in su, finché vomiti quanto hai mangiato in casa sua; poi darti due fette di pane il giorno e un becchiero d’acqua...
Gulone. Cacasangue! Se mi ci coglie, mi facci il peggio che sa. Rompermi la testa, darmi cinquanta bastonate, cavarmi un occhio e sfreggiarmi la faccia, son cose ch’all’ultimo si ponno sopportare. Ma quel star a trippa vacua e senza mangiare, son cose insopportabili.
Trinca. ... Ha ordinato a Mazzafrusto e a Sgraffagnino che stieno alla posta, che subito entrato in casa ti attacchino bene.
Gulone. Se mi lascio prendere da Mazzafrusto che mi frusti e ammazzi, e da Sgraffagnino che mi sgraffigni! a dio, a dio.
Trinca. Ascolta una parola...
Gulone. Non ascolto parole.
Trinca. ...che importa molto.
Gulone. Che cosa?
Trinca. Vieni, che il padrone ti aspetta a tavola con un piatto di maccheroni straordinariamente grossi, che appena ti capiranno nella bocca.
Gulone. Le tue parole m’hanno sconcio lo stomaco di sorte, che, se non vado a ristorarmelo altrove, non sará ben di me oggi.
Trinca. Oh, come scampa il poltrone! giá li par aver Mazzafrusto e Sgraffagnino alle spalle, che lo menino alla dieta. Il medesimo farò col capitano: porrò tanta zizania fra costoro, che li condurrò che venghino alle mani e si rompino le teste. Andrò al padron giovane a dirli quanto si è oprato in suo serviggio.
SCENA IV.
Balia, Erotico, Pardo.
Balia. Sulpizia smania e non trova luogo per la gelosia di Cleria; mi manda se può saper da Erotico alcuna cosa di nuovo.
Erotico. O balia, di’ a Sulpizia mia, che trattiamo or cosa onde spero che sarem nostri.
Balia. Parlatemi, di grazia, piú particolarmente, e liberatela da tal passione.
Erotico. Basta, saprá ogni cosa, e verrò io a dirglielo. Ma parteti da me: presto, presto, scòstati.
Balia. Perché mi scacciate cosí da voi?
Erotico. Per cosa che importa, lo saprai poi: scòstati, allontánati da me.
Balia. Che fretta! orsú, mi parto.
Erotico. Vorrei l’avessi fatto prima che detto. (Veggio Pardo venir alla volta mia, e stimo che venghi a ragionarmi delle nozze: non vorrei che, veggendomi ragionar con una vecchia, entrasse in sospetto che stessi innamorato).
Balia. (Il cacciarmi che fa Erotico con tanta fretta da sé, mi fa sospettar qualche male. Veggio Pardo andar verso lui: qualche trama v’è).
Pardo. (Veggio Erotico; e mi par certo un gentil giovane: vien a me, vo’ riceverlo come figlio). Ben venghi il mio caro Erotico, il mio carissimo figliuolo.
Erotico. Dio vi accresca salute e vita, mio carissimo padre e padrone: padre in amore, padrone in riverenza. Vo’ baciarvi le mani.
Pardo. Non mi fate questo torto, ché non lo comporterò: volete vincerla pure?
Erotico. Perché è mio debito di farlo.
Pardo. Poiché dite che mi sète figlio, potrete trattarmi come vi pare.
Erotico. E voi usando questi termini di cerimonie con me, è un quasi non tenermi per quell’amorevol figlio, che dite che io vi sia.
Pardo. Copritivi.
Erotico. Desiderava in atto di riverenza star cosí; ma, poi che volete che mi cuopra, mi coprirò, essendo l’ubbidire un termine di creanza.
Pardo. Cosí merita un par vostro, nobile, ben creato e virtuosissimo.
Erotico. Troppo gran cose stringete in breve fascio. Ma io vi resto con tanto maggior obligo, quanto meno conosco di meritarlo.
Pardo. Giá stimo che Trinca mio servo e Attilio mio figliuolo v’abbino detto quanto desiderio io abbia di apparentar con voi...
Erotico. Ed il desiderio, che ho di servirvi, è cosí vivo e ardente, che non so che fare che da voi fossi creduto.
Balia. (Fanno fra lor molte belle parole: vediamo dove riusciranno).
Pardo. ... e però darvi Cleria, la mia figlia, per moglie. ...
Erotico. Conosco non meritarla per le sue rare qualitá; ma l’accetto per l’affezion che le porto, e per desiderio che ho di servirla.
Balia. (Ohimè, parlano di dargli Cleria per moglie!).
Pardo. ... E stimo ancor che v’abbino riferito, che non son per darle dote altamente.
Erotico. Mi basta la dote delli suoi meriti, la qual è piú tosto soverchia che bastevole; e io mi terrò ricchissimo, se mi vedrò possessore di sí infinito tesoro di grazie: onde mi parrebbe farle gran torto se non la rifiutasse.
Pardo. Io parlo chiaramente; ma contrastiamo dopo fatto il matrimonio.
Erotico. Io non posso trovar modo in ricompensar tanto beneficio, che mi si fa, in darmisi Cleria; e per mostrar quanto mi sia grata la parentela, io rifiuto ogni dote.
Balia. (Ragionano delle nozze di Cleria; e dice non voler dote. Giá si confrontano i contrasegni).
Pardo. Stimo che abbiate visto Cleria, per saper se vi piace la sua bellezza.
Erotico. L’ho vista, e mi piace tanto, che non mi piacque altra giamai altro tanto. Cosí avesse auto ella maggior fortuna di aver conseguito sposo di maggior merito ch’io non sono, come ella è stata favoritissima dalla natura cosí delle bellezze del corpo come di quelle dell’animo.
Pardo. Ve l’ho dimandato, perché so che avete gran tempo seguita Sulpizia, la nostra vicina; e non vorrei, dopo aver sposata la mia figliuola, tornaste a lei, ché mal agevolmente si scordano i primi amori.
Erotico. Se ben molte volte m’avete visto passar per costá, l’ho fatto piú per passatempo che per amor che portassi a Sulpizia; e vi giuro che mai mi piacque.
Balia. (O Dio, che parole son quelle che sento? or chi crederebbe che fussero uscite da quella bocca, dalla quale poco innanzi ne son uscite l’altre di sí contrario tenore?).
Pardo. Io non vorrei che la lingua fusse differente dal core.
Erotico. Cavata mi sia la lingua insieme col core, se non è vero quanto io vi dico.
Balia. (Aiútati, lingua, avviluppa bugie e giuramenti, per ingannar qualche altra poverella).
Pardo. Perdonatemi, se ne dimando con tanta instanza, perché dubito che, per qualche sdegno o martello passato tra voi, vogliate tor mia figlia. Io non ho altra che costei; e dandole un marito che sia stato innamorato di un’altra, non saria fra loro un contento giamai, però vi prego a dirmelo liberamente.
Erotico. Voi che mi sète padrone, potete comandarmi, non pregarmi.
Pardo. Li vostri pari si pregano, non si comandano.
Erotico. Piú grazia ne ricevo quando mi comandate, che non è il servigio che vi servo. Ma s’io amai giamai Sulpizia, faccia Idio che non conseguisca alcun desiderio; né son per amarla per l’avvenire, ché sempre piú tosto l’ho odiata che amata, e m’ho fatto beffe di lei. Ho ben amata la vostra Cleria dal primo giorno che la viddi; ma il rispetto dell’amicizia fra me e Attilio me ha vietato che non lo scoprisse, per non offenderlo con la mia indegnitá. Ma, poiché da voi mi vien offerta, apro il cuore e ve lo paleso.
Balia. (Ahi, lingua traditrice e bugiarda, che ti sia cavata insin dalle radici! non bastava affermarcelo cosí semplicemente, se non confirmarcelo con giuramento?).
Pardo. Talché posso assicurarmi che non amate Sulpizia?
Erotico. Di grazia, caro padre, non me la nominate piú, se non volete che la biestemme.
Balia. (O povera Sulpizia, disamata, beffata e bestemmiata).
Pardo. Veramente, io non vi facea altra difficultá in queste nozze: non l’ho voluta conchiuder con mio figlio, fin che da voi non me ne fussi certificato, ch’io temea sempre di Sulpizia.
Erotico. O maladetta sia Sulpizia! ...
Balia. (Tu solo, e chi generotti!).
Erotico. ... che fosse morta...
Balia. (Tu ucciso, e morto!).
Erotico. ... e squartata!
Balia. (E tu fatto in mille pezzi!).
Pardo. Or che me ne sono assicurato, datemi la mano in segno del matrimonio.
Erotico. Ecco, volentieri ve la porgo.
Pardo. Ed io la stringo e bacio, in segno di parentela. Non manca altro che al tardo vengati col prete, e la sposiate. Mangiaremo cosí alla domestica, e non facciamo come certi ignoranti, che nel banchetto spendono la metá della dote.
Erotico. Maggior grazia riceverei, s’andassimo a sposarla ora.
Pardo. Andiamo fra tanto al sarto per le vesti.
Erotico. Andiamo dove comandate.
SCENA V.
Balia sola.
Balia. O mondo immondo, o mondo tutto pieno di fallacie e d’inganni, or chi può vivere in te, che sia sicuro dalle tue insidie? O etá maladetta, o crudeltá, o barbarie, che a pena può adeguarsi col pensiero! O Erotico infidele e disleale! O Sulpizia troppo sincera e amorevole, per non dir troppo semplice e troppo sciocca! Dove è la fede che con tanti giuramenti fu data, e che tu osservata l’hai con tanta costanza dell’amor tuo? Taccino, come indegni di conversar fra gli uomini, coloro che incolpano le donne di volubilitá e d’inconstanza. Ite voi, donne, fidatevi de’ giovani del tempo d’oggi, e massime di costoro di prima barba, larghi di promesse e ricchi di giuramenti, che in un punto amano e disamano, come li va il cervello: sono come i sparvieri, avidi sempre di nuove prede, che, se bene han un uccello preso nell’unghie, se ne veggono un altro, lasciano quello che hanno, per acquistar quello che va volando. Ecco perché Erotico mi scacciava da sé: e che trattava cosa buona per lei, e che molto l’importava. Misera Sulpizia! come restarai, poveretta, rinchiusa in una camera, mentre durerá la tua vita, a pianger la colpa della tua sciocchezza, d’aver creduto ad un uomo, con freggio d’infamia da non risanarsi piú mai. E come duo occhi suoi soli potranno piangere tanta sciagura? Ma ella volgerá la colpa sovra di me, come che del tutto sia stata cagione: si dolerá di me, mi biestemmará, come consigliera e adiutrice. Ma chi non arebbono ingannata tante lacrime, tanti suspiri e tanta ostinazione di star i mesi e gli anni intieri, di giorno al sol dell’estate, e le notti intiere al freddo, alle pioggie e a’ tuoni dell’inverno? Non ho cuore di darle tal nuova: so che gridará, tramortirá, spiritará, diverrá forsennata. O Iddio, aiutaci tu, che puoi.
SCENA VI.
Trasimaco, Trinca.
Trasimaco. Quanto piú desidero Gulone, men lo posso incontrare...
Trinca. (Per trovar il padron, vo cercando per le strade, ed egli deve star rinchiuso in camera. Ma veggio il capitano con le sue solite e accessorie stravaganze. Oh, come viene a tempo! credo che succederá il negozio, poiché ogni cosa mi cade a proposito).
Trasimaco. ... per dimandargli se son concluse le nozze. ...
Trinca. (Senza che gli ne dimandi, son sconchiusissime).
Trasimaco. ... Ché, accapandosi per sua cagione, s’acquisterá l’amicizia mia e quella di Pardo. ...
Trinca. (Io porrò tra voi tanta discordia, ch’in eterno sarete inimici).
Trasimaco. ... E sarò possessore d’una donzella bellissima....
Trinca. (La donzella la deve aversi in corpo, e non è boccon da tuoi denti).
Trasimaco. ... So ch’a lei sará caro, quando saprá ch’io la ricerco.
Trinca. (Non bisogna sperarci, ch’altri la possiede prima di te).
Trasimaco. Veggio il servo della sua casa, ne dimandarò costui.
Trinca. (Fingerò non conoscerlo, per fargli piú creder quanto dico).
Trasimaco. Dimmi, galante uomo, Gulone è in casa vostra?
Trinca. Potrebbe ben essere, ché il mio padrone ha gran piacere quando dice mal d’altri.
Trasimaco. Mi sapresti dir se ragiona mai dell’eroiche virtú d’un capitano?
Trinca. Chi capitano?
Trasimaco. D’un detto il Fracasso che ritrovandosi l’altro giorno in mezo un squadron di scavezzacolli e di tagliacantoni, che lo volevano assassinare, egli scagliandosi in mezo a tutti, s’incanò talmente, che a furia di crudeli fendenti, di orrendi mandritti e di orribili stoccate, cacciandosegli innanzi, li ruppe, li fracassò e pose tutti in scompiglio. ...
Trinca. Sí, sí, d’un certo capitano che certi mascalzoni vennero per assaltarlo, ma ch’egli si salvò con una bella ritirata.
Trasimaco. ... Ed una notte, incontrandosi con birri che gli voleano tor l’armi, minuzzò il capitano con tutta la birraria.
Trinca. Mi ricordo che disse, che s’incontrò una notte con un bastone, che gli assettò molto bene il giubbone adosso.
Trasimaco. Dico di certe sue virtú illustri.
Trinca. Sí, sí, ch’era un gran musico...
Trasimaco. Come musico?
Trinca. ... che cantaria molto ben la Girormetta su la striglia, che l’avea cantata tutto il tempo della sua vita.
Trasimaco. Non sará quel capitano che dico io.
Trinca. Un certo capitan Sconquasso o Fracasso o Babuasso, che s’avea posto questi nomi per spaventar le genti; che porta certi mustacci ingrifati e i peli della barba rabbuffati, con una ciera torta; e che parla con certi paroloni.
Trasimaco. Non me ne sazio, se non darò essempio a’ pari suoi, se non sarò un specchio a gli occhi di ciascuno. Non basterá il cielo a scamparlo dalle mie mani, ancor che fiammeggi di lampi, ancor che rimbombi de tuoni. Non so se fra tanto potrò sospender lo sdegno.
Trinca. Sará forse vostro amico?
Trasimaco. Non lo conosco. Passate innanzi.
Trinca. Non vorrei che v’adiraste meco.
Trasimaco. Dio te ne guardi, che caderesti morto.
Trinca. Ve l’ho dimandato, perché m’avete cera di capitano.
Trasimaco. Son cosí in fatti, come vi paio in ciera.
Trinca. E bisogno che rida, per non andar in pericolo di crepare.
Trasimaco. Di che ridete?
Trinca. Di nulla.
Trasimaco. So che non sète matto, che di nulla ridete; ditelo, di grazia, se pur qualche obligo non contende questa mia curiositá!
Trinca. Non è obligo di secretezza che possa impedirmi che non vi compiacessi; ma desidererei che non lo ridiceste ad altri, ché m’impediresti di non udir piú da lui delle sue castronerie.
Trasimaco. Che Marte sia irato con me, né mi dia forza di spopolar cittá, di sconfigere e disfar eserciti, se lo ridico; e perdonate alla mia curiositá.
Trinca. Egli l’onora di molti illustri titoli: d’un venerabil asino, e tanto grande, che basta per sei asini; di buggiardo, e che le veritá le tiene tanto secrete in corpo, che ci han fatto la ruggine; che non soffiò mai vento d’ambizione che non soffiasse in quel ballon del suo capo; e che nel tribunal della poltroneria, se si avesse a determinare chi fusse il magior poltron del mondo, senza dubio arebbe la sentenza in favore, perché basterebbe la sua poltroneria ad impoltronire tutti i poltroni del mondo; e che combatte piú con la lingua che con la spada...
Trasimaco. Benissimo.
Trinca. ... e che la sopraveste della sua nobiltá è un ragazzame. Dice che suo padre fu giudeo, sua madre lavandaia, sua ava puttana, suo zio boia ed egli ruffiano; che si tinge la barba per parer giovane; che li pende tra le gambe una borsa quanto una zucca; che ha mal francese di sette cotte; e che si vanta che il re di Francia lo vuol per suo compagno, stipendiato dal re Filippo, presentato dal Gran Turco, ma che si crepa della maladetta fame...
Trasimaco. Perché sparlar tanto di questo poveretto? che li venghi la peste alla lingua!
Trinca. ... Dice che l’invita a mangiar seco, e non mangia altro che vessiche sgonfiate; e che è tanta la sua spilorceria e spedaleria, che si parte morto di fame.
Trasimaco. Come può cicalar tanto?
Trinca. Ha lingua per sei cicaloni.
Trasimaco. Non devrebbe pratticar con lui.
Trinca. Dice che ci prattica per udir quelle sue millanterie, e se prende spasso de fatti suoi. Onde il padrone in modo se trafisse queste cose nel capo, che non sarebbe possibile cavarnele piú.
Trasimaco. Mi avete detto a bastanza, perché la materia abonda troppo.
Trinca. È piú di quello che mi avete dimandato.
Trasimaco. Se posso ricompensar la fatica che avete durata per me, comandate e sarete servito.
Trinca. È stato poco per sodisfar al debito mio con un par vostro.
Trasimaco. Restate in pace, buon rivelante.
Trinca. Andate in buon’ora, buon ascoltante, ser capitano.