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ATTO III.
SCENA I.
Pedolitro vecchio.
Pedolitro. Ringraziato sia Idio, che pur son gionto al fin del mio viaggio, che son a Nola, patria mia. O Dio, che pericoli, che strazi, che fatiche, che spese! mangiar male, ber peggio, dormir in terra, assassinato dagli osti, da ladri, da fuorusciti e da vettorini. Oh, quanto si patisce fuor di casa sua! non lo può credere, se non chi lo soffre. Veramente, gran bisogno me ne trasse fuori, riscattar un figlio unico di man di turchi. Ma niuna altra cagione me ne caverá fuori, né figli né padri né anco per me stesso. Mai parea che finisse il viaggio, sempre ne restava a far piú del fatto. Le gambe ne han patito la penitenza. Mi vedo gionto a casa — e nol posso credere, né men che sia vivo, ma che qui sia gionto lo spirito mio. Ma chi è costui che vien in qua? certo è Pardo, mio antico amico. O, ben, ché ho da trattar con lui. Signor Pardo, siate il ben trovato, non mi conoscete? Son Pedolitro vostro amico.
SCENA II.
Pardo, Pedolitro.
Pardo. Chi si potrebbe conoscere cosí vecchio? e poi vestito alla turchesca? che sète stato prigione o ammalato, che avete cosí vigliacca ciera? perdonatemi, cioè macra e scolorita.
Pedolitro. Il mal mangiare, il peggior bere e il molto patire.
Pardo. Le tue vesti?
Pedolitro. Me l’ho mangiate in Turchia.
Pardo. In Turchia se mangiano vesti?
Pedolitro. L’ho vendute e impegnate all’osterie per mangiare. Ma io mi rallegro che vi vedo piú allegro e giovane che non vi lasciai.
Pardo. Donde si viene?
Pedolitro. Da Costantinopoli, per riscattar questo mio figlio che da bambino mi fu rapito da’ turchi.
Pardo. E voi ancor ben venuto, caro figlio.
Pedolitro. Io rispondo in sua vece, che non sa parlar italiano: Che siate il ben trovato.
Pardo. Ho grande allegrezza che siate tornato salvo.
Pedolitro. L’allegrezza vi si raddoppiare, ch’io vi porto una buona nuova di lá.
Pardo. Che forse il turco non arma alla primavera, e non infesterá le nostre marine?
Pedolitro. Dico, buona per voi.
Pardo. Voi siate il ben tornato, portandomi alcuna buona novella.
Pedolitro. Costanza vostra moglie vi saluta.
Pardo. Che forse dall’altro mondo?
Pedolitro. Che altro mondo? io non so altro mondo che questo, né mai mi son partito di qua.
Pardo. A che innovellarmi la memoria e darmi questo dolore? ché mai mi ricordo della sua morte, ch’io non volessi esser morto mille volte. Costanza cara, io che fui cagion della tua rapina, son libero, e tu, per venir al mio comando, sei schiava. Oh, quanto la meritarci io la servitú che per me tu hai patito!
Pedolitro. Voi piangete la viva, come fusse morta.
Pardo. Come viva?
Pedolitro. Come la stimate voi morta? se non è morta fra duo mesi, che son di lá partito, ella è piú viva e piú gagliarda che mai.
Pardo. Ti fai beffe di me.
Pedolitro. Anzi, mi par che voi vi facciate beffe di me. Ma chi v’ha detto che sia morta?
Pardo. Attilio mio figlio e Trinca servo, i quali ho inviati col riscatto in Constantinopoli per lei e per Cleria mia figlia; e son alcuni mesi che son tornati di lá, e ha menato seco Cleria sua sorella, e mi ha riferito che Costanza era morta quattro anni sono; che se fusse stata viva, l’arebbe riscattata e condotta a Nola.
Pedolitro. Anzi, ella è viva e sana; e di vostra figlia non si sa nova se sia morta o viva piú di dieci anni sono, ma si tien per fermo che sia morta; ch’un sangiacco, cui ella serviva, l’avea menata fuori; e si dubita, per la gelosia della moglie, che l’abbia avvelenata, che vostra moglie n’ebbe a morir di dolore.
Pardo. Strane cose mi dite. Cleria è in mia casa; e il mio figlio e servo me l’han referito, quanto io vi referisco.
Pedolitro. Ed io vi dico che tutto vi è stato falsamente referito, perché conosco vostra moglie, a Nola, prima che vi fusse rapita, e la conosco pur quattro anni in Constantinopoli, dove mi son fermato per riscattar il mio figlio. Anzi, né di vostro figlio né del servo ho inteso cosa alcuna in Constantinopoli.
Pardo. Quasi che Constantinopoli fusse Nola, che si può saper chi vi cápiti.
Pedolitro. Se ben Constantinopoli è una cittá grandissima, e piú di Napoli, le domeniche noi tutti cristiani ci veggiamo nel tempio di santa Sofia, dove ci ragguagliamo e consigliamo delle nostre fortune e ci aiutamo l’un l’altro.
Pardo. Quanto piú dite, men vi credo.
Pedolitro. Ma a che proposito volervi dir queste bugie? Ma io non vo’ che mi crediate. Eccovi una lettera che vi manda: conoscete la sua mano?
Pardo. Questa è la sua mano. O Dio, che stretta mi sento all’anima, che mi restò scolpita in mezo al cuore. Volesse Iddio che tu fussi viva, che verrei io in persona a riscuoterti; e quando non potessi, soffrirei in tua compagnia i tuoi dolori. Da che ti perdei, posso dir che non ho avuto un piacer in questa vita; e non meno l’ho amata morta, che l’amai viva.
Pedolitro. Leggetela, e vedete quanto vi scrive; e conoscete, quanto vi ha referito vostro figlio e il servo, tutto è bugia, e quanto vero sia quel che vi dico.
Pardo. Mi avisa avermi scritto molte lettere, e di niuna mai averne ricevuta risposta, né per lei esser mandato il riscatto; che spera esserle donata la libertá, e voler venirsene sola, come meglio potrá.
Pedolitro. Credetemi ora?
Pardo. Ed accioché voi crediate esser vero quanto vi ho detto, vo’ che ragionate con mia figlia. Olá, fate venir qua Cleria per cosa che molto importa.
Pedolitro. Fatela calar, ché mi piace che non troverete altro di quel che vi dico: che Costanza vostra moglie è viva, e di Cleria non si sa novella.
SCENA III.
Cleria, Pardo, Pedolitro.
Cleria. Padre, che comandate?
Pardo. Costui è venuto da Turchia...
Cleria. (Infelice me! costui sará venuto a far riscontro s’è vero che sia Cleria, e quanto falsamente l’abbiamo dato ad intendere).
Pardo. ... e dice che Costanza sia viva.
Cleria. (Che affermarò? che negherò? io non so che debba affermar, né negare, né che mi fare. Oh, fosse qui Trinca!).
Pardo. Dimandatela voi.
Cleria. (Bisogna star in cervello). Volesse Dio che Costanza mia madre fusse viva! Ma voi come lo sapete?
Pedolitro. L’ho vista con questi occhi in Constantinopoli; e si duol del suo marito che in tanto tempo non abbi mandato a riscuoterla, e che Cleria sua figlia non sa se sia morta o viva, ma stima che piú tosto sia morta.
Cleria. Voi dite cose impossibili, e sète cosí bugiardo nell’uno come nell’altro. Mia madre, che so che è morta, dici che sia viva; e io, che viva sono, dici che morta sia.
Pedolitro. Io non ci ho, in questo, interesse alcuno, né per conto d’interesse direi la bugia: e non essendo di natura bugiardo, godo nel dir la veritá.
Cleria. Dice che Cleria sia morta, e io viva sono: il testimonio t’è presente.
Pedolitro. Ed io ti dico che tu Cleria non sei. Ma tu conosci chi son io?
Cleria. Certo, no.
Pedolitro. Tu non sai chi sia io? riconoscimi bene.
Cleria. Quanto piú penso, men ti riconosco.
Pedolitro. Perché schivi che gli occhi tuoi s’incontrino con i miei? ti vergogni, ti arrossisci e impallidisci.
Cleria. Perché odo cose di meraviglia.
Pedolitro. Ed io ti conosco molto bene in casa di Pandolfo napolitano, che tiene alloggiamento in Veneggia, dove sogliono alloggiare tutti i peregrini napolitani.
Cleria. Che Pandolfo? che alloggiamenti? Quanto piú segni mi dái, men t’intendo.
Pedolitro. Che parlo arabico o tartaresco? Fai della stordita, per non accettar la veritá.
Cleria. Fai tu del cattivo, per farmi accettare il falso.
Pedolitro. Non m’hai servito duo mesi in casa di Pandolfo in Vineggia, quando cadei infermo duo anni sono?
Cleria. O Dio, che ascolto!
Pedolitro. Dico che tu sei Sofia, intendi? a chi dico io?
Cleria. Non dici a me, che Sofia non sono, però non rispondo.
Pedolitro. Mi piace piú tosto dispiacer a te e dir il vero, che piacer a molti e dir il falso: dico che tu sei Sofia sua serva.
Pardo. Non è meraviglia se t’inganni, ché nieghi il nome di Cleria e le dái quel di Sofia: nieghi quel che vedi, e non conosci quel che ti sta innanzi.
Pedolitro. Anzi, ella dice esser quella che non è, e niega quella che sia; e ancora persevera nella bugia.
Cleria. Anzi, tu pur ardisci d’infamarmi, che sia serva d’un alloggiatore.
Pedolitro. Non sei dunque Sofia? poveretta, perché inganni te stessa?
Cleria. Non piaccia a Dio che fussi Sofia, che tu dici, che seria serva d’altri e non figlia d’un gentil uomo.
Pedolitro. Ancor credete a costei?
Pardo. Le stracredo.
Pedolitro. Qual cagion vi muove, che crediate piú a costei che a me?
Pardo. Io credo al mio figlio e al mio servo.
Pedolitro. Fate male a credere a questi: guardatevi che non v’ingannino.
Pardo. Chi è dunque costei?
Pedolitro. Colei che vi dissi da principio.
Pardo. Costei non è Cleria?
Cleria. (Cosí ti avesse rotto il collo per la strada!).
Pedolitro. Non so perché mi cenni e mi fai cert’atti: che mi vuoi significare?
Cleria. Io cenni? io atti? veramente sei fuor di cervello.
Pardo. Orsú, non moltiplichiamo in parole: figlia, sali su. Tu, Pedolitro, poiché sei forastiero, vieni a desinar meco.
Pedolitro. Ho desinato. Andrò per saper alcuna novella de’ miei.
Pardo. Potrete voi e vostro figlio fermarvi in casa mia e riposarvi, e poi a bell’aggio andar cercando de’ vostri parenti.
Pedolitro. Non mi trattenete piú, di grazia.
Pardo. Almeno lasciate vostro figlio in casa mia, e voi andate cercando. Se li trovate vivi, verrete per vostro figlio; se non, restarete ad alloggiar meco.
Pedolitro. Questa cortesia accetto, che mio figlio resti con voi, mentre andrò cercando.
Pardo. Veramente, la venuta di costui m’ha posto in grandissima confusione; la mano di mia moglie è vera: perché costoro m’han detto, che sia morta? Dice che conosce costei in casa di un alloggiatore, e chiamata Sofia. A che proposito affermarlo cosí costantemente, se non fusse vero? E mi son ben accorto che arrossiva, impallediva, respondendo s’intricava, e non sapea quello che dicessi, e m’accorsi che l’accennava. Ma quello, che m’accresce il sospetto, è che in questo intrigo se ci trova intrigato il Trinca, che è il maggior trincato, furbo, allievo di forche, maestro di furberie. L’astuzia sua m’è di vergogna e di danno: e quando della vergogna poco conto ne facessi, ci è il danno di piú di cinquecento ducati. Ma ecco che vengono molto allegri. Vedrò come si risolveranno in questo fatto.
SCENA IV.
Trinca, Attilio, Pardo, Turco.
Trinca. Padron, il vostro figlio sta in punto per le nozze, e vi priega che l’affrettiate.
Attilio. Sta medesimamente Erotico ad ogni nostro comando.
Pardo. Ben, chi vi disse che Costanza mia moglie era morta, e che Cleria fusse viva? Quando voi foste a Constantinopoli? perché non rispondi? (Chi non risponde subbito, sta pensando alla scusa).
Trinca. Come, non son stato io a Constantinopoli?
Pardo. Né tu né mio figlio.
Trinca. Io non so come voi dite.
Attilio. (Ohimè, siamo rovinati!).
Pardo. Che rispondi?
Trinca. Chi v’ha informato del contrario?
Attilio. (Come ti risolverai, Trinca?).
Pardo. Pedolitro, nostro cittadino, venuto ora di Constantinopoli, che ci andò quattro anni sono per riscuoter cotesto suo figlio; e mi ha recato lettera di mano di mia moglie che desia venire, e che di Cleria non si sa novella, molti anni sono. ...
Attilio. (Mira la fortuna, a che ponto ha condotto costui di Turchia).
Pardo. ... Dice che quella è Sofia, serva d’un allogiator in Vineggia: l’ho fatto affrontar insieme, e ce l’ha mantenuto in faccia.
Attilio. (Siamo spediti, non v’è piú rimedio. Trinca è perduto d’animo).
Trinca. Padron, è cosí vero quanto v’ho detto, quanto l’amor che vi porto; e se trovarete il contrario, vo’ che mi ponghiate in galera.
Pardo. Senza il tuo volere, ti ci porrò.
Trinca. Vien qua tu: come tuo padre ha detto una buggiarda buggia? rispondimi. Vedete che tace.
Pardo. A che ti affatichi parlargli? non risponde, perché non intende l’italiano.
Trinca. Gli parlerò in turchesco. Tu non mi scapperai. Cabrasciam ogniboraf, enbusaim Constantinopla?
Attilio. (O buon Trinca, o illustrissimo Trinca).
Turco. Ben belmen ne sensulers.
Pardo. Che dice?
Trinca. Che suo padre non fu mai in Constantinopoli.
Pardo. Dove dunque fu per riscuoterlo?
Trinca. Carigar camboco maio ossasando?
Turco. Ben sem belmen.
Trinca. Dice che sono stati in Negroponte.
Pardo. Da Negroponte in Constantinopoli ci sono molte miglia. Dimandagli che camino han fatto per venire in Italia.
Trinca. Ossasando nequet, nequet poter levar cosir Italia?
Turco. Sachina busumbasce agrirse.
Trinca. Dice che son venuti per mare, e non passati per Vineggia.
Pardo. O Dio, che umori stravaganti sono negli uomini! Che cosa ha spinto colui a dirmi cosí gran bugia, che sia stato a Vineggia, e portarmi una lettera di mano di mia moglie? Che mondo è questo?
Trinca. Bisognarebbe far un mondo a vostro modo, o riformarlo. Han falsificato la mano di vostra moglie, per farvi qualche burla.
Pardo. Certo che dovea star ubbriaco; e giá lo tengo per tale, che stava rosso nel volto.
Trinca. L’avete indovinata: e or gli lo vo’ dimandare. Siati marfus naincon catalai nulai?
Turco. Vare hecc.
Trinca. Ho detto marfus che vuol dire ubbriaco; ha detto che poco inanzi è intrato in una osteria nel viaggio, appresso Nola, e che ha bevuto molto bene, e che andava cadendo per la strada, e che appena or si potea reggere in piedi.
Attilio. (O Trinca divino, e come l’hai ben saldata!).
Pardo. Come in quelle due parole ha potuto dir tanto?
Trinca. La lingua turchesca in poche parole dice cose assai.
Pardo. Orsú, ha voluto burlar Pedolitro. Quando ritorna, li vo’ far un scorno da vergognarsene, e l’arò da oggi innanzi in quella opinione che si conviene. Andate a trovar Erotico; cercate Orgio, zio di Sulpizia, e diteli che stia apparecchiato per questa sera.
SCENA V.
Pedolitro, Pardo, Turco.
Pedolitro. Ho ritrovato vivo un mio fratello cugino; or vo’ andar con mio figlio a casa sua. Della amorevole offerta, signor Pardo, ve ne resto obligatissimo.
Pardo. Pedolitro, la giusta cagion, che me ne dái, mi fa prorompere in tanta rusticitá. Ditemi si avete imparato in Turchia a beffeggiar gli amici.
Pedolitro. Né qui né in Turchia è convenevole.
Pardo. Perché darmi ad intendere che sète stato in Constantinopoli e visto mia moglie Costanza, e Cleria mia figlia chiamata Sofia e conosciutala serva d’un alloggiamento in Vaneggia?
Pedolitro. Tal è, qual vi ho detto.
Pardo. Come l’avete vista in Vineggia, se voi non vi sète mai stato?
Pedolitro. Ci son stato a mio dispetto duo mesi infermo.
Pardo. Se sète stato in Negroponte e venuto in Napoli per mare, come sète stato in Vineggia?
Pedolitro. In Negroponte? e quando? chi v’ha detto queste bugie peggior delle prime?
Pardo. Tuo figlio.
Pedolitro. Come mio figlio ha potuto dirvele, se non sa parlar italiano?
Pardo. Trinca, il mio servo, l’ha parlato in turchesco, ché l’ha imparato a parlar in Constantinopoli.
Pedolitro. Questo ha detto mio figlio?
Pardo. Anzi, di piú, che avete bevuto nell’osterie e state imbriaco, e non sapete dove abbiate il cervello.
Pedolitro. Mi fo la croce. Ierusalas adhuc moluc acoce ras marisco, viscelei havvi havute carbulah?
Turco. Ercercheter biradam suledi, ben belmen ne sulodii.
Pedolitro. Dice che è vero che un uomo l’ha parlato, ma che non intendeva che dicesse. Comis puree sulemes.
Pardo. Perché dunque li rispondeva?
Pedolitro. Accian sembilir belmes mie sulemes?
Turco. Accian ben cioch soler ben sen belmen sen cioch soler.
Pedolitro. Dice che, quantunque gli rispondesse e li dicesse che non intendeva quello che se li dicesse, pur gli parlava. Aman hierl cheret marfus soler, ben men comam me sulemes?
Turco. Aman hierl cheret marfus soler ben men comam me sulemes.
Pedolitro. Dice che sempre dicea marfus; ma non possea imaginarsi che cercava da lui. Io stimo che il vostro Trinca sia un gran trincato e buggiardo e volpe vecchia.
Pardo. Dite voi che sia sí bugiardo?
Pedolitro. Ho errato in dir bugiardo, ma bugiardone.
Pardo. Voi accrescete l’ingiuria.
Pedolitro. Anzi dico bugiardissimo; anzi tengo per certo che vi abbi beffato.
Pardo. Non so che mi fa ostinato in saper la veritá di questo fatto. Di grazia, se mi amate, ditemi chiaramente se mi avete detto la veritá.
Pedolitro. V’ho detto la veritá, e ne torrei ogni pena per confirmarla, se ne fusse bisogno. Restate sano, che vo’ andar a quel mio cugino.
Pardo. E voi andate salvo, poiché sète fatto libero.
Pedolitro. Ghidelum auglancic.
Turco. Ghidelum baba.
Pardo. Io credo che si se cercasse per tutto il mondo fra vecchi canuti il piú balordo, stordito, goffo e scimunito, che sarebbe da me di gran lunga avanzato di balordaggine e di sciocchezza, perché m’accorgo che sono stato beffato, aggirato da quel furfante di Trinca e da mio figlio. L’esser stato credulo n’è stato cagione; e con aver sempre creduto che le bugie accompagnano ordinariamente le sue parole, e che mi voleva ingannare, non m’ha giovato crederlo. Ma s’io non me vendico, creda egli certissimo che sia goffo da vero, come mi stima. M’ha fatto sborsar trecento scudi e fattomi re de danari; ma io lo farò diventar re di bastoni. Mi vergogno di me stesso, ardo d’ira e di sdegno, ma suspico che trama d’amore ne sia cagione. Ma ecco mi sovragionge quest’altra seccaggine del capitano. Non so che voglia questa bestia da me; fuggirò per quella strada.
SCENA VI.
Trasimaco, Pardo.
Trasimaco. Fermatevi, gentiluomo, nella cui figlia è fondato il trionfo della illustre mia generazione.
Pardo. Ho da far altro, perdonatemi.
Trasimaco. Sappiati che gli occhi balenanti e altitonanti di vostra figlia han fatto piú effetto nel mio cuore, che le bombarde e artigliarie ne’ fianchi de’ baluardi: onde io, che prendo le cittá, castelli e campi, son preso e ligato dalle sue bellezze. Sí che, deposta l’orribilitá del mio rigore e ammollita la feritá, vengo a chiederlavi per moglie, per non far mancar al mondo la razza de pari miei, e far una dozina di Marti, un’altra di Bellone, di Orlandi e di Rodomonti, e arricchirne il mondo: onde può tenersi la piú fortunata e felice donna che viva, e cosí voi a cui non poca autoritá vi recará la qualitá della mia persona.
Pardo. Non ho tempo da spendere in chiacchiere.
Trasimaco. Fermatevi, dispetto di Marte. Si trattengono a ragionar meco la maestá di quel di Spagna e del Gran Turco, e voi non vi degnate ascoltarmi.
Pardo. Spedetela in brevi parole.
Trasimaco. Quanto v’ha detto di me quel furfante di Gulone, tutto è mentita.
Pardo. M’ha detto che sète un gran capitano e ricco e veritiero.
Trasimaco. E se fosse un par mio, lo disfidarei, nudo, con meza cappa, ad uccidersi meco in un steccato, che per manco d’un pelo ci son entrato cinquanta volte.
Pardo. Poco me se dá.
Trasimaco. E son cavaliero da tutti i quarti: cerchesi nel mio parentado, tutte son croci di Malta, di S. Stefano, di S. Giacomo e di Calatrava.
Pardo. Forse dubitavano che non li fusse pisciato adosso.
Trasimaco. E quando veniva a mangiar meco, ho fatto come son solito di far a’ miei squadroni: il pan a monti, i buoi a quarti, i capretti a squadre, il vino a botti: e se butta piú in casa mia, che non se ne vede in quelle de’ gran signori.
Pardo. Ben bene.
Trasimaco. E vo’ che veggiate che conto tengono di me i príncipi del mondo: ho pieno il petto, i calzoni e le valiggie di lettere che mi mandano. Ecco quella a punto del Gran Turco: All’illustrissimo e strenuissimo cavaliero, il capitan Trasimaco de Sconquassi, mio carissimo amico e generalissimo delle mie genti. Ecco quella del re Filippo: Al venerabilissimo e stupendissimo capitan Sconquasso de Sconquassi de Squassamenti, mio lugar teniente e general de’ miei esserciti. Ecco quella del re di Francia: Al mio amatissimo Colonello e Maestro, sotto il quale ho imparato la milizia. Ecco quella de’ veneziani e di altre republiche, ch’io non ne tengo conto; e io non son uomo di bugie, ma m’è cara la veritá.
Pardo. È tanto cara, che la serbate per voi; né ve ne cavarebbe una di bocca quante tanaglie ha il mondo.
Trasimaco. Però non bisogna dar credito a furfanti; e volendo informarvi chi sia, andate in Persia e dimandate di me, che feci nella guerra fra turchi e persiani; andate in Tartaria e dimandate al Gran Can; andate al Giappone e dimandatene il re Quabacondono; gite nell’Indie, nel Messico, in Temistitan, e dimandate alli caccichi Abenemuchei, Anacancon, Aguelbana, Comogro, Ciapoton, Totonoga e Caracura, e altri e altri: cosí saprete chi sono.
Pardo. Mi vo’ partir or ora per cotesti luoghi, e come mi sarò informato, tratteremo del matrimonio. A dio.
Trasimaco. Almeno vi parteste con piú creanza; ma t’escusa la vecchiaia, che tutto il mondo non ti scapparebbe dalle mie mani. Assai mi curo io di tua figlia! Ho le regine che mi pregano: mi dava una sua figlia il Turco, s’accettava il bellerbeiato della Grecia; una sorella il Principe di Transilvania, se voleva esser suo vaivoda; la regina Lisabetta d’Inghilterra mi volea per marito, se volea pigliar la sua protezion contro Filippo secondo. Ma buon per te, che ti sei partito; ché or, che mi bolle il sangue, non mi terrebbe il rispetto ch’eri un vecchio rimbambito, barboggio. Non dovevi invecchiare, se non volevi diventar cosí ignorante.
SCENA VII.
Trinca, Trasimaco.
Trinca. (Ecco il capitano. O che maladetta sia la bestia, che ha piú dell’asino che del cavallo: non ho visto maggior poltrone che mangi pane: vorrei farlo venire alle strette col parasito: gonfiarò il ballon del suo capo con mantaci di vantamenti).
Trasimaco. Férmati, o tu, di grazia; ch’or che ferve l’ardor dell’ira, e son tutto rabbia e furore, e la colera mi soverchia — che l’induggio, che si frapone alle vendette, allarga le ferite del cuore, — vo’ che sii spettatore del castigo, che vo’ dar a quel poltron di Gulone, perché sei stato relator delle mie ingiurie.
Trinca. Io non vorrei che ti attaccassi adosso inimicizia cosí grande; e bisognerá grand’animo a torsela con esso.
Trasimaco. Puttanaccia, che me la faresti attaccare. Ho tanto animo che non lo cape il mondo tutto, e, standovi dentro, mi par di star in forno; desiderarci che fussero mille mondi, per stanziarvi piú a largo. Povero Alessandro Magno, che lo capiva un solo!
Trinca. Parlate basso, di grazia, che non fusse qui da presso, e vi sentisse.
Trasimaco. Sia maladetta quella maladettaccia sgualdrinaccia della fortuna, che mi fa udir questo. Ch’io parli basso? qual barba d’uomo mi basta a far paura? Vo’ gridar che mi oda: vo’ chiamarlo. O Gulone, Gulone, o furfantissimo Gulone!
Trinca. Egli ha poca voglia di far bene: verrá gonfio d’ira a far questioni.
Trasimaco. Lo farò scoppiare a calci. Va’, chiamalo da parte mia.
Trinca. Andrò a far l’ambasciata a vostro rischio: avertite che capitarete male: bilanciate prima e contrapesate le vostre forze.
Trasimaco. Io, quando avampo di furia e di sdegno, son piú furibondo e ho piú furie adosso che le furie dell’inferno; e voltando gli occhi furiosi sopra alcuno, i lampi che n’escono fuori, lo brusciano vivo vivo. Lo farei fuggire, ancor che fusse Marte: sappi che son nato dentro le miniere di ferro, nodrito fra gli acciai; né il mio cuor ebbe mai altro oggetto che infringere, ingoiare e smaltir gli uomini e i cavalli, armati di metalli e di bronzo.
Trinca. Quando Gulone ha fame, è bravo, è un mezo Orlando.
Trasimaco. Egli bravo? o Marte, e chi è al mondo di me piú bravo, che fo venir la quartana all’istessa bravura? Se fusse altro che tu, che ardissi dirmi questo, li schiacciarci la testa com’una caldarrosta. Come egli si vedrá intorno questa statuaccia del mio corpo, queste spallaccie di Atlante, con questi torreggianti gamboni, con queste nerborute braccia fulminar la mia taglianasi, troncabraccia e mietigambe, tu vedrai i motivi che fará. Considera se son bravo, vedi che viso sfreggiato.
Trinca. Piú bravo fu quello che te lo sfreggiò!
Trasimaco. Voglio dir che non fuggo né volto le spalle.
Trinca. Né quello fuggi o ti voltò le spalle, quando sfreggiotti il viso.
Trasimaco. Ma bisogna allontanarsi da me, che, quando ho prese l’armi e sto in furia di menar le mani, l’ira ministra fuoco e fiamme: cosí m’incarno e m’insanguino, la vista mi s’accieca di sorte, che non conosco né amici né parenti, tutti gli guasto egualmente; e le tintinnate della mia spada s’odono un miglio.
Trinca. Eccolo che viene: o che portamento bizarro!
Trasimaco. O che portamento da bestia.
Trinca. (Stimo che oggi arò a crepar delle risa: sapendo quanto l’uno e l’altro sia poltronissimo, sarò spettatore di un mirabil duello). Sará ben che m’allontani io.
Trasimaco. Fai da savio pórti al sicuro. Ben venuto il poltrone.
SCENA VIII.
Gulone, Trasimaco, Trinca.
Gulone. Ben trovato il poltronissimo.
Trasimaco. La mala ventura ti ci ha condotto, ché ti ammazzi.
Gulone. Sí, pidocchi, come sei uso.
Trinca. Capitano, ti vuoi uccider con Gulone?
Trasimaco. Sí, bene.
Trinca. E tu, Gulone, ti vuoi uccider col capitano?
Gulone. Volentieri.
Trinca. Orsú, fatela da valent’uomini, uccidetevi insieme.
Trasimaco. A me non conviene por la mia autoritá in bilancia con un par suo. O molto indegno della grandezza dell’animo mio! E poi a questo duello ci manca una degna corona di signori e di cavalieri spettatori, che mi dessero poi quello applauso che merito, e rendessero la mia vittoria piú famosa. Poi, per non esser la sua profession d’armi, vo’ che ceda l’impeto dell’ira alla ragione e alla nobiltá della mia creanza: gli vo’ far conoscere che son vero nobile, e cosí vo’ vivere e morire, però non voglio competere altamente con lui.
Trinca. Ah, capitan valoroso, cosí vi fate fuggire di mano un’occasion di farvi illustre? non saresti un pusillanimo, se schivaste un cosí onorato pericolo?
Trasimaco. Vien qua tu; è vero che hai detto mal di me? ché vo’ farti in mille pezzi, ti guasterò tutto.
Gulone. Sí, che è vero.
Trasimaco. Or, poiché hai confessato il vero, ti vo’ perdonare. Tristo te, se me dicevi la bugia, tanto m’è nemica.
Gulone. Io voglio dir di nuovo mal di te.
Trasimaco. Fatti in lá che non lo senta, ché non me ne curo.
Gulone. Io vo’ che tu lo senta.
Trasimaco. Tu mi vai punzecchiando e mi offendi troppo indiscretamente: non lo comporterò, cancaro!
Gulone. Ti venga a mente come m’hai disfidato: e son rissoluto uccidermi teco.
Trasimaco. Arcitonante Giove, che audacia è la tua? Tu mi fai inserpentire, inantropofagare, improcustire, inneronire: con un sgraffio ti sconquasserò tutto, ti sganghererò le mascelle e i denti, che non potrai piú mangiare.
Gulone. Ed io quella lingua, che non potrai dir bugie.
Trasimaco. Ti sminuzzerò le braccia, che non ti potrai piú imboccare.
Gulone. Ti romperò quella testa busa, priva di cervello, che non vi nascano tanti grilli.
Trasimaco. Ti torcerò quel collo, che non dará tanta briga al manigoldo, quando ti ará a strozzare: cosí non divorerai tante panelle, ché hai fatto carestia alle botteghe.
Gulone. O che manigoldo amorevole, o che franca lancia.
Trasimaco. O che franca pancia. Ti farò dir altamente, quando ti vedrai intorno questo fianco di balovardo...
Gulone. Bel balordo che sei.
Trasimaco. ... con questa spada in mano...
Gulone. Con un spedo piú tosto, ché saresti meglio guattero di tinelli.
Trasimaco. ... frapparti il viso.
Gulone. Tu non hai altro che frappe.
Trasimaco. Non sei uso, com’io, alle batterie.
Gulone. Alle baratterie sei uso tu.
Trasimaco. Alle bòtte di bombarde e di artegliarie.
Gulone. Di correggie, stimo io.
Trasimaco. Mira il furfante che, burlandosi di me, scherza con la morte. Fatti indietro, poltrone.
Gulone. Ti sei fatto indietro tu, prima che lo dicessi. Tu sei come il gallo d’India: gonfia la gola, arrossisce la cresta, apre l’ali e le batte intorno, e sbuffa come si volesse far qualche gran cosa, poi si ritira. Férmati, schiuma de forfanti.
Trasimaco. A tradimento, ah? cosí se tratta con i pari miei, trattenermi su le parole e poi attraversarmi le braccia? Fálla da gentiluomo.
Gulone. Non fui mai gentiluomo: la farò da quel che sono. Ingenòcchiati, raccomanda l’anima a Dio.
Trasimaco. E che, mi vuoi ammazzare?
Gulone. Tu sei indovino.
Trasimaco. Se fussi indovino, non sarei venuto a questo termine: almeno fammi una grazia, fammi viver due ore sole.
Gulone. Perché due ore?
Trasimaco. Che mi mangi quello apparecchio che avea fatto in casa per te; e, dopo mangiato, fammi morire, che morrò contento.
Gulone. Che apparecchio era il tuo?
Trasimaco. Una porchetta con una crustina sopra, che, masticandola, ti stride sotto i denti, poi si dilegua in latte in bocca; un pasticciotto di ostreghe boglite nel lor medesimo umore, che fanno a lor stesse un intingolo suavissimo, con certi aromati che ti fanno trasecolar la gola; un tegame di beccafighi con lardo e presciutto e cime tenere di zucche, di cui l’odore farebbe risuscitar i morti; una torta alla lombarda; con un vin prezioso di amarene che bacia, morde e dá calci.
Gulone. Ahi, traditore, mi cavi l’anima col tuo apparecchio: e’ par che mi tocchino la cima del fegado. Se con l’imaginazione ne godo, che sarebbe quando fussimo su l’atto prattico? e lo dici a tempo, che ho lo stomaco piú vòto d’una vessica sgonfiata, e il pulmone brusciato per la sete. Ma tu mi vuoi tirar dietro questo tuo cibo, come i mastri di caccia tirano gli astori e li falconi; però a te non mancherá di mangiare: ti darò alcune nespole, ché te le mangi per amor mio; e comincia ad assaggiarle, ché, per esserno un poco acerbe, non so come le manderai giú.
Trasimaco. Ah, furfante! genti a piè, genti a cavallo, soldati, centurioni, dove sète? Olá, para, piglia! paggi, staffieri: e quando sarai stracco?
Gulone. Ecco, son stracco e ti lascio.
SCENA IX.
Trasimaco, Trinca.
Trasimaco. Amico, son partiti?
Trinca. Sí, bene.
Trasimaco. E non ci è rimasto alcuno?
Trinca. Niuno.
Trasimaco. Mirate, di grazia, con diligenza.
Trinca. Niuno: ché tante parole?
Trasimaco. E vi paion parole queste? son tutte bòtte e gagliardissime e di gran carico.
Trinca. Veramente, carico delle vostre atlantiche spalle. Ma dove è la vostra bravura? come nebbia, il vento l’ha portata via, e s’è sparita.
Trasimaco. Fortuna cagnaccia! Orlando non volea combatter se non con un solo; e io aver cento assassini sopra!
Trinca. Non fu piú di un solo.
Trasimaco. Fur piú di cento con l’arme in asta.
Trinca. Non vi fur arme, solo l’asta.
Trasimaco. Fur piú di cento, ti dico.
Trinca. Non piú di uno, canchero! ti dico.
Trasimaco. Cento cancheri, ti dico io.
Trinca. Chi lo può saper meglio di me, che vi fui presente, e l’ho visto con questi occhi?
Trasimaco. Chi lo può saper meglio di me, che ho patito le maladette bòtte su le braccia, sul collo e su le spalle, che andavano tutte a pieno, e parea che cadessero dal cielo?
Trinca. Non fu piú di un solo.
Trasimaco. Come? se mi sentiva piú legni addosso che non ha un bosco; e dove mi voltava, non vedeva altro che bastoni e cielo, e mi pareva che tutte le legne del mondo si fussero congiurate contro le mie spalle.
Trinca. Non fu piú di un solo, ti dico.
Trasimaco. Se avesse avuto cento braccia come Briareo, non potea far tanto macello: mi scoppettizava, mi bombardeggiava su le spalle, a guisa di batteria.
Trinca. Un solo fu.
Trasimaco. Perché non avisarmi? sei uomo di poca discrezione.
Trinca. Mi pensava che volessi usar qualche stratagemma di guerra, qualche astuzia di gran capitano.
Trasimaco. Io non consumo tempo in astuzie e stratagemme militari, mi risolvo alla prima.
Trinca. Stimava che volessi straccarlo; e come fusse stracco delle braccia, saltargli adosso e strangolarlo.
Trasimaco. Io mi terrei a vergogna uccider genti stracche, non son cose da pari miei vincer con astuzie; ma poiché era un solo, perché non entrar in mezo e avisarmi?
Trinca. Dio me ne guardi, che mi fusse posto in mezo: mi avisasti prima, che, quando stavi infuriato, ammazzavi gli amici e gli nemici.
Trasimaco. È vero quanto dici; ma, essendo un solo, dovevi avisarmi.
Trinca. Vi sète portato, con le spalle, da un Orlando, e avete fatto un gran resistere; non l’arebbon sofferte dieci asini e dieci muli: e con poco decoro avete difeso il gran decoro della vostra capitania.
Trasimaco. Ci ho fatto il callo a simil battaglie, non è questa la prima volta: eccomi qui sano e salvo, in carne e in ossa; mi è passato il dolore, e sento piú dolore che sia stato un solo, che delle bòtte.
Trinca. Lo potete andare a trovare, se volete far la vendetta.
Trasimaco. Bisogna tempo e commodo per le vendette, e non correre a furia. E poiché s’è fuggito, mi si rimollisce lo sdegno. Vo’ perdonargli; e come soglio vincer tutti, cosí vo’ vincere me stesso. Viva, viva! e io insieme con lui. A dio.
Trinca. A dio. Non ho visto poltron simile a costui, a giorni miei.