< La sorella
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Atto III Atto V

ATTO IV.

SCENA I.

Constanza vecchia, sola.

Constanza. Io non posso se non infinitamente ringraziare Idio, poiché egli infinitamente m’ha favorito. Chi credesse mai che, stata vent’anni schiava in man de turchi, mi fusse donata la libertá dal mio padrone, per esser omai decrepita, e postami, con alcuni cristiani riscattati in compagnia, in una nave, venisse a Vineggia e indi a Nola mia patria? O terreno desiderato del paese! o aria, quanto mi sei piú cara di tutte l’arie del mondo! Se la fortuna mi favorisse in farmi trovar Pardo, il mio marito, e Attilio, il mio figlio, vivi, le perdonarci la servitú di vent’anni e la perdita di Cleria mia figlia; mi faria dimenticar de tutti i passati disaggi; né io arei che piú desiderar in questa vita. Ma veggio un giovane venir costá; dimanderò di lui.

SCENA II.

Trinca, Attilio, Constanza.

Trinca. Veramente, quel vento che minacciava tempesta, s’è dileguato in semplice ruggiada. Quel maladetto nolano, venuto da Constantinopoli, ci avea posto in evidente pericolo di perder quello che avevamo fin qui oprato felicemente.

Attilio. Mi era confuso e alienato di sorte, che era posto giá in disperazione; ma tu, con quella pronta bugia del parlar turchesco, la rimediasti assai bene.

Trinca. Una bugia a tempo val tant’oro.

Constanza. Gentiluomini, mi sapreste voi dir se Pardo Mastrillo fusse vivo?

Attilio. È vivo e in buona sanitade ancora.

Trinca. (Cosí fusse egli morto e sotterra!).

Constanza. Ed Attilio suo figliuolo?

Attilio. E Attilio parimente.

Constanza. Idio, per colmarmi d’ogni contentezza, m’ha voluto racconsolar con la vita di l’uno e di l’altro.

Attilio. Chi sète voi, che tanto vi rallegrate della lor vita?

Constanza. Son una donna che, quando Pardo e Attilio sapessero ch’io son viva e qui venuta, ne arebbono quella allegrezza che ne ho io.

Attilio. Ditelo, di grazia.

Constanza. A voi non appertiene saperlo.

Attilio. E forse me s’appertiene piú che ad altri, perché io son Attilio suo figliuolo.

Constanza. Ed io son Constanza tua madre, che or giunge da Constantinopoli, con assai piú desiderio di vedervi che della propria mia acquistata libertade.

Trinca. (Ecco l’altra perturbatrice d’ogni nostro bel disegno).

Attilio. (O Idio, che non si può nel mondo godere un bene, che non sia mischiato di alcun male: ecco, acquistando la madre, perdo il mio bene).

Trinca. (Avemo resistito al primo impeto della fortuna; or non si può piú, alla gran tempesta che ne ondeggia intorno).

Attilio. (O mal, come vieni presto! o ben, come vieni tardo!).

Trinca. (La sua venuta scompiglia quanto abbiam tessuto della nostra tela; e se l’altre se han potuto rimediare, a questa non ci ha rimedio alcuno).

Attilio. (Ho pregato Idio, che mi facesse veder mia madre, per non esser cosa, che piú desiderasse di vedere; or che la veggio, desidererei esser morto per non vederla, ché perdo Cleria, e io non vedrò mai piú cosa che mi piaccia). Voi dunque sète Constanza?

Constanza. Io son quella infelice donna che venti anni son stata schiava di genti barbare.

Attilio. O madre, quanto mi sarebbe stata cara la tua venuta, se a piú opportuno tempo venuta fosse.

Constanza. Figlio, non intendo che vogliate dire.

Attilio. Dico che in ogni tempo che voi foste venuta, fuor che in questo, la vostra venuta mi sarebbe stata oltre modo gratissima.

Constanza. (Mi pensava che benigna fortuna m’avesse condotta in porto, alla mia patria conducendomi; ma or da contraria tempesta mi veggio risospinta fuori: la mia venuta, che stimava che fosse desiosamente desiderata, la veggio esser scacciata con fastidio). Figlio, se il mio venir ti apporta qualche noia, di grazia fammene consapevole.

Attilio. Madre, la cagion di ciò non può raccontarsi senza fastidio; entrate in casa, ché è ben di ragione che avendo sofferta tanti anni la servitú di quei cani e tanti travagli nel viaggio, che vi riposiate; ma togliete a me ogni riposo, perché, entrando voi, ne cacciate me: sète voi fatta libera, per pormi in servitú: voi acquistate la patria, io perdo la patria e quanto possedeva. Né arei pensato mai che la vostra venuta fosse stata accompagnata da tanta amaritudine.

Constanza. Figlio, non mi trafissero mai tanto i morsi della servitú, quanto or mi trafiggono i vostri dispiaceri. Onde vi prego per quello amor, che è ragionevol che mi portiate, che mi manifestiate la cagione del disturbo; ch’io, cosí povera feminella come sono, sarò da tanto di tornarmene in Napoli e viver mendicando disconosciuta, per non darvi vergogna: ché, se ben la nobiltá nelle miserie fa risvegliar i spiriti generosi e signorili, con l’esser stata tanti anni schiava son spenti in tutto.

Attilio. Conosco, carissima madre, avervi offeso, e però mi vergogno manifestarlovi.

Constanza. L’offese de’ figli alle madri non passano la pelle: non sará mai tanto grande, che non sia vinta dall’affetto materno. Voi tacete? Manifestatela, figlio, che troverete quel che vi dico.

Attilio. Madre, se promettete di perdonarmi e di rimediarvi, ché di un male non se ne faccino molti, vi spiegherò il fatto come passi.

Constanza. Ti giuro, figlio, per quella grande affezion che ti porto, che spenderei questo avanzo di vita in tuo serviggio. Che se non m’adoperassi per un figlio, per chi debbo adoprarmi io?

Attilio. Poiché cosí volete, vi scoprirò il tutto. Mi mandò mio padre con trecento scudi in Constantinopoli, per lo vostro riscatto. Venni in Vineggia per imbarcarmi per colá, e m’innamorai di una giovane bellissima, spesi i trecento ducati nel suo riscatto, la sposai, tornai a Nola, e diedi ad intendere a mio padre che voi eravate morta, e che avea riscattata Cleria, la mia sorella. E sotto nome di Cleria è stata ricevuta, per non dargli tal disgusto in quel poco tempo che potrá sopravivere. Or voi, entrando in casa e dicendo che quella non è Cleria vostra figlia, lo farete morir di dolore, né si terrebbe sodisfatto se non mi diseredasse e mi cacciassi fuor di casa.

Constanza. E s’io dicessi che quella fusse Cleria mia figlia, ti saria di contento?

Attilio. Grandissimo.

Constanza. Vi prometto dirlo; e l’accetterò per figliuola e per mia dilettissima nuora, mentre vivo, per amor vostro. Non sapete voi che le madri condescendono agevolmente a i desidèri de’ figliuoli, e li sono aiutrici verso i padri?

Attilio. Madre, ciò facendo vi arò piú obligo che della vita che donato mi avete, quando mi partoriste; ché, amando costei piú dell’istessa vita, donandomi costei, mi donate la vera vita.

Trinca. Ma bisogna, padrona, quando v’incontrate, usar quelle accoglienze come si fosse la propria Cleria vostra figlia; e dimandandovi di alcune cose, le sappiate rispondere e, di quelle che non sapete, tacere.

Constanza. Non son tanto goffa, che non sapesse fingere questo poco; e quando mai far non lo sapessi, l’amor che vi porto, mi sará miglior maestro che costui: so quello che si debba dire e tacere, e non me lo farò dir piú d’una volta.

Attilio. Trinca, sali su, fa’ calar mio padre, ché venghi a ricever la sua moglie tanto desiderata; e avisa la mia Cleria del trattato.

Trinca. Volentieri.

Attilio. Or l’accoglienze, madre cara, che non vi ho fatte al primo incontro, datemi licenza che le facci ora, che possa abbracciarvi e baciarvi a modo mio. Madre, cara sopra tutte le madri, madre che mi sei per natura e per obligo, madre che due volte dái la vita al tuo figliuolo, che farò, mentre sarò vivo, per disubligarmi da tanto beneficio?

Constanza. Poco è, figliuolo, quello che domandi che faccia per amor tuo; e prima che qui giungessi, ho desiata occasione di servirvi tutti.

Attilio. Ecco mio padre.

SCENA III.

Pardo, Constanza, Attilio.

Pardo. O Constanza, carne mia, sei tu dessa over io non son io? o è forse questo un sogno? o fingo imagini a me stesso del desiderato bene? Tu sei ben dessa, e me ne sono assicurato, ché con piú d’una guardatura ho confrontato l’imagine tua con quella che nel cuor impressa mi lasciasti.

Constanza. O marito, marito caro, che, avendo perduta la speranza di non averti mai piú a rivedere, or veggendoti e abbracciandoti, non lo credo.

Pardo. O moglie cara, o quanto ho pianto il mio peccato di averti mandato a chiamar da casa tua per condurti in Polonia, preponendo la mia comoditá al tuo discomodo.

Constanza. Posso dir che, tenendovi cosí abbracciato, tengo la cosa piú desiderata che abbia al mondo.

Pardo. Ed io l’anima mia; ché, rimasto senza te, rimasi un cadavero. Oh quanto mi sei or cara viva, poiché tanto t’ho pianta morta? ché, avendo mandato il mio figlio in Turchia col riscatto, mi riferí ch’eravate morta. Piaccia a Dio s’allonghi tanto la vita mia, che faccia a te quella servitú che per mia cagione hai fatta a quei cani.

Constanza. Bastami che m’amiate per l’avvenire, quanto m’amavate prima, o che m’amiate a par di quello, che v’amo io: che mi fará subito dismenticare de’ disaggi della passata servitude.

Pardo. Moglie, mi sento venire meno per l’allegrezza.

Constanza. Ed io non posso tener le lacrime.

Pardo. Vo’ che abbiate un’altra allegrezza, che veggiate Cleria vostra figlia.

Constanza. O Dio, che sommamente desio vederla.

Pardo. Attilio, va’ su e fa’ calar la tua sorella.

Attilio. Vado.

Pardo. Come sète venuta cosí sola.

Constanza. Lungo tempo bisogna, consorte mio, a narrar sí lunga istoria della servitú sofferta fra quei cani, de’ lunghissimi travagli del viaggio, che non son stati minori.

Pardo. Ecco la tua figlia Cleria. Oh come, nel vedersi l’un l’altra, son tramortite ambedue! Oh, quanto è l’amor grande tra la madre e i figli! O Dio, che sará questo? o Cleria, o Cleria, o Constanza mia, risvegliatevi!

SCENA IV.

Cleria, Constanza, Pardo, Trinca.

Cleria. O cara madre, o madre!

Constanza. O figlia, o figlia!

Pardo. Mira, figlio, che affezione, che non puon saziarsi d’abbracciarsi e di stringersi. Mira che lacrime mescolate di dolore e di dolcezza. Orsú, non piú abbracciare e piangere; e non conturbate col pianto cosí desiderato contento.

Attilio. Padre, mira che non ponno parlare.

Constanza. Ed è pur vero, o figlia, che da poi sí lungo tempo ti riveggia?

Cleria. O madre, come insperatamente vi veggio!

Costanza. Mentre eri tu, figlia, meco, la servitú mi era leggiera e assai dolci i travagli, e per te mi smenticava di quella fortuna; ma, dopo che da me fosti separata, me si raddoppiane gli affanni e ogni piacere m’era dispiacevole e noioso.

Cleria. Imaginatevi, cara madre, che non conoscendo al mondo altra che voi, e poi essendomi tolta, che disperazione era la mia.

Constanza. Figlia cara, come ti trovo in casa di tuo padre?

Cleria. Separata da voi, fui comprata da un sangiacco, e avanzando io in etá, s’invaghí di me quel cane; la moglie ne divenne gelosa, e, quando ei si partí per affari del Gran Signore, mi consegnò ad un servo, che mi vendesse. Cosí capitando mio fratello in Constantinopoli, mi riscattò da quello e mi condusse qui a casa seco.

Constanza. Sia lode a Dio del tutto.

Pardo. Troppo sarete lunghe, se volete qui raguagliarvi delle passate fortune. Entrate, moglie, a riposarvi; che non mancherá tempo a questo. Attilio, aiuta tua madre; io, tua sorella.

Attilio. Cosí faremo.

SCENA V.

Trinca, Constanza, Attilio.

Trinca. Padrona, non siamo stati defraudati della speranza nostra, perché avete oprato piú di quel che ne prometteste: veramente l’amor della madre avanza tutti gli altri. Che lacrime ardenti ho visto sparger da gli occhi vostri! che affettuosi abbracciamenti! che vivi motivi di materni affetti! Sto per inchinarmi e baciarvi i piedi, per tanto obligo che v’ho per rispetto del mio padrone, e del mio; ché, scoprendosi l’inganno, era spacciato il fatto mio.

Attilio. Il fingere è stato tanto naturale, che confesso l’arte aver superato la natura. E chi sarebbe stato che, veggendovi, non avesse giurato che quella fusse la tua vera Cleria? e voi la sua madre? O cara madre sovra tutte le madri, lasciate che vi baci le mani: e quando mai potrò ricompensarvi cotanta affezione?

Constanza. Figlio, non bisogna che m’abbiate obligo alcuno per ciò, perch’io non ho finto cosa alcuna. La giovane, che innanzi condotta mi avete, è la vera Cleria tua sorella, ché insiememente fummo rapite da’ turchi.

Attilio. Ohimè, che dici?

Constanza. Quel che la conscienza mi sforza a dire.

Attilio. Cleria è mia sorella?

Constanza. Cosí tua sorella, come io tua madre: conceputi d’un istesso seme, portati nove mesi e partoriti dal medesimo ventre mio.

Attilio. O crudeli effetti di fortuna, o essempi di somma infelicitá, o infelice versaglio di compassione! e qual penitenza emenderá il mio fallo? Dunque, sarò marito e fratello di mia sorella, padre de miei nipoti e zio de miei figliuoli? sarò genero vostro e di mio padre?

Constanza. Figlio, l’ignoranza fa men colpevole l’errore del tuo non fallo. Guardati per l’avvenire non abusar la conversazione e l’amor di tua sorella, amala di puro e sincero amore: se la tocchi, toccala come sorella; se l’abbracci, abbracciala come sorella, ché, abbracciandola altrimenti, abbracciaresti la tua infamia e vitupèro.

Attilio. O madre, come può esser questo? che ricordandomi de quei primi fiori colti della sua bellezza, de’ passati piaceri che ho gustati nella sua conversazione, delle godute bellezze e de’ posseduti tesori delle sue grazie, che non cerchi spenger quelli ardenti e infocati effetti di amore nel godimento della sua persona?

Constanza. Avézzati a poco a poco a non mirarla, perché dalla vista dell’amata persona cresce la fiamma nell’intime midolle; avézzati a non parlarle, perché le parole son via alla concupiscenza; fuggi, quanto puoi, di trovarti da solo a solo con ella, accioché l’occasione non susciti l’uso, e ti conduca a qualche reo e biasmevol fine; allontanati da lei per qualche tempo, perché la lontananza degli occhi genera la lontananza dal cuore, e con generosa pazienza sopporta lo sforzo della tua inclinazione.

Attilio. Ahi, che non per cangiar loco si cangia il core; e se il luogo disunisce, amore unisce i cuori. E queste cose son facili a persuadere, ma impossibili ad essequirsi.

Constanza. Lascia pensieri cosí sensuali e desidèri cosí brutti, e lasciatevi governare dal freno della ragione.

Attilio. Pazzo è chi stima ch’uno innamorato possa reggersi da freno di ragione, perché l’animo è in tutto offuscato dall’amorose passioni.

Constanza. Trovatevi un’altra sposa od innamorata piú bella.

Attilio. Amor non vuol cambio. O Cleria, in un medesimo tempo ti racquisto e ti perdo. Ritenerti non lece, ricusarti non posso: racquisto una sorella, perdo una sposa; e tu medesimamente acquisti un fratello, ma perdi un amante. O gran mutazione de’ nostri desidèri! O padre, non puoi dolerti piú di me, che t’abbia ingannato e non dettoti il vero: mi desti danari per riscattar la sorella e la madre, ecco v’ho riscattata la sorella e condottala a casa tua: e hai avuto da me quanto hai desiderato. Né io posso dolermi se non di me stesso, perché solo ho ingannato me stesso.

Constanza. Figlio, del male almen n’è uscito un tal bene.

Attilio. Ahi, che tanto movimento di sangue, che mi occupò il core nella prima vista, stimava che fosse dalla tua bellezza; ma era dalla forza del sangue, perché eravamo nati di un medesimo sangue; e io sciocco non me ne accorgeva. O madre, quanto m’è cara la tua venuta, tanto m’è acerba: questo giorno me ti dá e me ti toglie: nel giorno, che hai conosciuto tuo figlio, lo perderai: questo è il primo giorno che mi vedi, e l’ultimo che mi vedrai, ché è forza che mi parta dalla casa, dalla vita e dal mondo tutto.

Constanza. Chi ti vieta, o figlio, che non vivi e stia in casa tua?

Attilio. O che crudel ricordo, ch’io viva! vuoi che resti vivo, per vedermi vivere d’un perpetuo morire? a chi non può scampar in modo alcuno, gli è assai men grave il morire. La morte è un dolce porto de’ miseri, a niuno è chiuso, raccoglie tutti; e vuoi che resti in casa mia? La casa mia m’era cara per colei che ci abitava meco; ma, poiché con quella non lece piú, torrò da me stesso un perpetuo essiglio per non tornarci piú mai. Mi sarebbe la casa un vivo inferno, un perpetuo incendio ardente. O Idio, che insopportabil dolore è quel ch’io sento, o qual miseria è che pareggi la mia? o che gran meraviglia è ch’io viva! O Cleria, io ti perdo, senza ch’altri me ti toglia; e sendo in casa mia, onde niuno mi caccia, è forza che ti lasci e abbandoni. Per esser tu troppo congionta meco, è forza che da te mi disgiunga. O leggi, o costumi umani a me contrari! S’armano contro me le leggi e i costumi de gli uomini. O madre, che amara novella m’hai tu data! o quanto piú grata mi saresti, se conceputo non m’avessi o generato in questa vita, overo uccisomi nella cuna. Che obligo debbo averti della vita, che m’hai data, se con una amara nuova mi togli la vita e l’anima insiememente? Goditi, madre, la tua figliuola nuovamente acquistata, e lascia che il tuo figlio vada tapinando per il mondo, senza suspetto che tratti piú mai con la sorella.

Constanza. O che disgrazia è la mia! pensava dar allegrezza alla mia casa, e sono stata istrumento e ministra di crudel ufficio. Mi pensava che scampata dalla servitú di genti barbare e ricovratami nella mia casa, avesse vissuto il restante della mia vita, felicissima. Ma sarebbe stato per me meglio, che fusse restata in man de’ turchi, povera vecchia e disgraziata, e non fosse qui venuta spettatrice d’una miserabil tragedia. Ahi, che non è cosa stabile o felice sotto le stelle! Figlio, era mia intenzione darvi piacere e non disgusto.

Trinca. Padrona, andate su e non fate penar vostro marito in aspettarvi. Ecco il compagno dell’allegrezze e de gli affanni vostri.

SCENA VI.

Erotico, Attilio, Trinca.

Erotico. Attilio mio, che rammarichi son i tuoi? Qual sí grave accidente ti tien l’animo cosí occupato, che t’ha trafigurato il sembiante? Voi tacete? forse non è cosí grave il dolor vostro?

Attilio. Tal, che men grave non può trovarsi. La fortuna opra cose impossibili, ma possibili per farmi misero.

Erotico. Deh, narratemi la cagione.

Attilio. Deh, lasciami accompagnato dalla mia miseria, ché viva in quella, poiché cosí comanda la mia disgrazia; e non vogliate saperla.

Erotico. Ditela, che non è mal senza rimedio.

Attilio. Solo al mio male non può trovarsi rimedio. O voi, che con medicine cercate fuggir la morte, venete a scambiarla con la mia vita; ché, quanto piú chiamo la morte per rimedio de’ miei mali, ella da me piú s’allontana. Che sia maladetta l’ora che nacqui, maladetto chi mi pose nella cuna, e maladetto chi mi diede il latte che bevei!

Erotico. Siate, o amico, conforme a voi stesso nella passata vita: che animo debole è il vostro? ingannato piú tosto dal dolore che dalla ragione? Che? s’è scoverto forse, che avete ingannato vostro padre e l’avete tolto i danari?

Attilio. Anzi s’è confirmato che non è stato ingannato, e son stati spesi i danari in quello che proprio desiderava.

Erotico. Forse la vostra Cleria v’è stata tolta da casa, e avete carestia della sua vista?

Attilio. Sta in casa, né se ne partirá piú mai, e morrò per la troppa copia.

Erotico. V’è stato forse interdetto il poter trattare e il ragionar con lei?

Attilio. Anzi, piú trattar e conversar con lei senza sospetto; e sarò un nuovo Tantalo, star affamato in mezo i frutti che li pendono intorno, e assetato in mezo l’acqua.

Erotico. S’è forse scoverto che non sia vostra sorella?

Attilio. Anzi, perché s’è scoverta mia sorella.

Erotico. Di che dunque vi dolete, s’è creduto quello che con tanta diligenza avete finto?

Attilio. L’esser scoverta mia sorella ha rotto tutti i miei e vostri disegni.

Erotico. Parlate troppo confuso, distinguete, troppo gran cose dite in brevi parole.

Attilio. Il mio male è di sí perversa sorte, che l’animo s’inorridisce di spavento e la lingua non basta manifestarlo.

Erotico. Dillomi tu, Trinca.

Trinca. È gionta Costanza sua madre poco fa da Turchia, e ha detto che Cleria è sua vera sorella carnale.

Erotico. Cleria sua sorella? o mostruoso accidente, o caso inaudito!

Attilio. O amor iniquo, e qual peccato commisi io mai, che avessi ad innamorarmi di mia sorella? O Cleria, che mai t’avessi vista, o avendoti vista non mi fossi piaciuta tanto, né ti avessi amata con sí fervido amore! Oimè, che son fuor di cervello; non so chi sia stato, chi sia, né chi debba essere. Son dispettoso, colerico e disperato: dubito che non s’apra la terra e m’inghiottisca, né so come mi sostegna. Son odioso agli uomini e a Dio, né so se viva al mondo uomo di me piú disgraziato.

Erotico. Il vostro miserabilissimo caso è degno di compassione e mi ha commosso l’animo; e il buon amico deve esser officioso in dar consiglio e aiuto al suo amico nella cattiva fortuna, e noi facendo ne ha da render conti alle leggi dell’amicizia. Ma io confesso che non so né che aiuto né che consiglio possa darvi. Ma che pensate di fare?

Attilio. Morire per far meco morire la morte mia: ogni cosa mi dispiace, eccetto la morte: però piangerò tanto, sospirerò tanto, finché essalerò lo spirito per la bocca e stillerò per gli occhi l’avanzo della mia vita.

Erotico. Deprimete tanto caldo e tanta furia di amore.

Attilio. Amor quanto piú si cerca deprimere, piú si rinforza.

Erotico. Il tempo alleggiará il dolore.

Attilio. Ahi, che il tempo non scancellará dal cor mio sí bella imagine, che con tanta fermezza ci fu impressa, né scancellare la memoria delle gioie passate. E che son altro quei ricordi che seminari inesausti di dolori?

Erotico. Mirando altre bellezze di donne, ti smenticherai delle sue.

Attilio. Ed in qual troverò io quell’aria celeste che si vede in quel suo volto divino? in qual quelle suavi parole che parean uscire da la bocca de gli oracoli? dove quelli atti pieni di maestá? dove i tesori della sua bellezza?

Erotico. La pacienza fa il tutto.

Attilio. O che debol rimedio è la pacienza!

Erotico. Fate della necessitá volontá, e passarete bene. Ma a voi, che vi detta il pensiero?

Attilio. Molte cose mi vanno per la fantasia, ma una sola riuscibile: partirmi e andar disperso per il mondo.

Erotico. Dove anderete?

Attilio. Dove non è via, dove non sono genti, al sole, alla neve, alle tempeste.

Erotico. Chi vi fará compagnia?

Attilio. Sdegni, confusioni, spaventi, dolori, gemiti, suspiri e disperati pensieri.

Erotico. Che commoditá portarete per i disaggi de’ camini?

Attilio. Angoscie, amaritudini, la morte istessa.

Erotico. Di che viverete?

Attilio. Della propria morte.

Erotico. Deh, caro amico, non lasciarti cosí trasportar dal dolore! E quel legame d’amicizia, che insieme ne stringe, mi astringe che non ti lasci partire.

Attilio. A dio, caro amico. Quando ti ricorderai del mio pietoso caso, vengati pietá di me; non ho mancato dalla mia parte a far che Sulpizia fusse la tua. Trinca, resta felice, e Dio ti facci servir piú fortunato padrone di me: mi dispiace non poterti dar condegno premio de’ tuoi fideli serviggi, ché mai nacque piú degno servo di te sotto le stelle: abbi compassion di me, che non posso sodisfarti, ché, se gli oblighi restassero nell’anima dopo la morte, ti resterei obligato in eterno.

Erotico. Dimmi, caro fratello, come Cleria saprá il principio della tua partita, non sará il fin della sua vita? che sai che deliberazione ará ella fatta, e desia fartene consapevole? Onde, se non bastano i miei prieghi, per quel nome di Cleria, che ti fu sí caro un tempo, che vi fermiate per questa notte sola in casa mia. Consigliamoci fra noi, che dobbiam fare. Non è gran tempo questo che vi domando. Inviamo Trinca, intanto, in casa vostra, e sappiamo che dica o faccia Cleria, perché io ti vo’ far compagnia.

Attilio. Quel nome di Cleria, che fu prima lo spirito della mia vita, or è morte della mia vita; però, se m’amate, non me la nominate piú. Amor prima ci giunse, or crudel fortuna ci disgiunge; né ho altra speranza, che sol morte ne congionga. Io vo’ andarmene solo; ché come il mio dolore è solo e senza pari, cosí solo e senza compagno vo’ andar tapinando; e non m’uccidete piú con l’aver pietá di me. Ahi, che mi voglio partire, e non posso, ché tutti i spiriti miei son occupati da un mortale dolore! Trinca, or che vai in sua casa, dille che il suo fratello va a morire, che pianga la mia morte, che non mi potrá avvenir cosa piú cara, che veder le mie essequie onorate dalle sue lacrime.

Trinca. (Erotico caro, or che sta cosí addolorato, forsennato e inesorabile, tiriamolo in casa vostra, ché gli innamorati si assordano a’ consigli che li son dati; ch’io andrò in casa fra tanto).

Erotico. Attilio fratello, perdonami, si t’uso violenza in strascinarti in casa mia.

Attilio. Oimè, chi mi tira? dove sono? deh, perché, amico, non m’aiuti?

SCENA VII.

Pardo, Gulone.

Pardo. (E pur mi capita innanzi questo ghiottonaccio).

Gulone. (Ecco questo vecchio di Caronte, spavento di cimiteri: non posso fuggirlo). Signor Pardo, Idio vi dia il buon giorno.

Pardo. E a te dia Dio il malanno e la mala pasqua.

Gulone. Par che siate adirato meco.

Pardo. Toglimiti dinanzi, ché mi vien voglia farti cader da bocca cotesti tuoi denti.

Gulone. Poca offesa t’han fatto sempre i denti miei.

Pardo. Me l’ha fatta la tua lingua.

Gulone. La mia lingua v’ha sempre lodato.

Pardo. Le lodi ch’escono dalla lingua di un par tuo, son vergogne degli uomini da bene.

Gulone. La mia lingua mai offese alcuno.

Pardo. Hai la lingua doppia come quella delle serpi, che punge e avvelena; però sparisci via, assassin, furfante.

Gulone. Avete potestá dirmi quel che volete, perché vi son schiavo. Morrei piú tosto che restar di non mangiar teco, e ci mangiarò oggi a vostro dispetto.

Pardo. T’ho detto che sei un furfante.

Gulone. Ed io vi dico che sète uomo da bene. Avemo detto una bugia per uno.

Pardo. Fa’ che tu non accosti piú alla tavola mia.

Gulone. Che diavolo stimi, che se non ho la tavola con mesal bianco, ornato di frondi e di fiori, e di salvietti fatti a torrioni, che non sappia mangiare? buon vino e buona carne fa l’effetto.

Pardo. Non te n’è mancato in casa mia.

Gulone. Sí, carne di asino, di quelli che portano le pietre per le fabriche, tutti pieni di cancheri e di guidaleschi: e se pur qualche pollo, senza testa, senza piedi e senza ali, e senza fegadelli e ventricelli, ché te ne servivi per l’insalate, ti veniva tronco a tavola, che parea che fosse stato alla rotta di Ravenna. Bisognan pollastroni e galli d’India intieri intieri, ogni cosa a tavola alla tedesca, i catini pieni, e ogni un piglia quel che vuole.

Pardo. Creanza de pari tuoi! dopo aver diluviato e tracannato a tuo modo, vai dicendo il contrario.

Gulone. Minestre fredde e vin caldo, che bisognava tormi da tavola piú morto di fame, che quando ci venni.

Pardo. Mi dispiace l’onor che ti ho fatto; ma tu non pratticherai piú meco.

Gulone. Ed a che mi può servir la tua vecchiezza? a darmi consiglio? Io non ho bisogno di consiglio, né fo mai cosa con consiglio.

Pardo. Se non vai via, chiamerò alcun di casa, che ti spezzi l’ossa.

Gulone. Chiama Mazzafrusto o Sgraffagnino che mi prendano.

Pardo. Vo’ entrarmene in casa, per tormi questa bestia dinanzi.

Gulone. A tuo dispetto, or vo ad un banchetto in casa d’un amico.

SCENA VIII.

Sulpizia, Erotico.

Sulpizia. (Ecco il turbator della mia pace; e pur ardisce alzar gli occhi su le mie fenestre!).

Erotico. (Se l’imaginazione non mi rappresenta il falso, mi par che un chiaro splendore del mio sole venghi a ferirmi gli occhi: ella è pur dessa. Vo’ salutarla). Io vi saluterei, signora, se non facessi il contrario, perché ogni salute e ben ch’io spero, non può venirmi altronde, se non da lei. Ma faccivi Idio cosí lieta e contenta, come v’ha fatto la piú bella e graziosa dell’universo.

Sulpizia. Rendati Idio cosí infelice e disgraziato, come tu hai me reso infelice e disgraziata.

Erotico. Oimè, che è quel che sento? sète voi dessa, over io son un altro? e che parole son quelle che odo?

Sulpizia. Quelle che mi detta il dolore, partorite da giusto sdegno, e quelle di che la tua infedeltá me ne dá cagione.

Erotico. E da quella bocca di perle e di oro posson uscir parole tanto odiose? Di grazia, se lo fate da scherzo, non le dite da vero. E che altro è dirmi questo, che scannarmi con le man vostre?

Sulpizia. Toglitime dinanzi, brutto cane.

Erotico. O anima mia, se da te mi scacci, a chi devo ricorrer io? dove mi scacci, se le tue bellezze mi tengono legato con troppo saldi legami, e la luce de tuoi begli occhi m’è sí cara, che come nuova farfalla corro ad accendermi e morire in sí bel foco?

Sulpizia. Le tante cortesie, ricevute da me, non meritavano tal guiderdone.

Erotico. Ho conosciuto veramente tanta gran cortesia non meritarla; ma la vostra gentilezza me ne ha fatto degno.

Sulpizia. Queste paroline melate usi tu per ingannar le povere semplicelle, per giongere a quel termine che desiate, e poi lasciarle. Ingannevoli volpi, che non desiate di noi se non la pelle. Sei forse ritornato per farmi alcuna nuova offesa?

Erotico. E che offesa vi feci mai, o mia generosa signora? E se pur vi sentite offesa da me, fate che lo sappia, ché la confessarò e mi sottoporrò ad ogni penitenza; e da quella sarete forzata confessare che non vi ho offeso.

Sulpizia. Dimmi, traditore, ch’offesa ti feci io mai, se non l’averti amato piú del dovere? quanto tempo son stata nemica di me stessa per amar te? ché ti diedi l’imperio d’ogni mia volontá e comprai il tuo amore a costo dell’onor mio. All’ultimo, per guiderdone, spenta la vergogna, la giustizia e l’onestá, tradesti l’amore, la sposa e la fede; e mi lasci beffeggiata, schernita e rifiutata.

Erotico. Io schernir voi? e quando fu altro desiderio in me, che di servirvi e onorarvi e spender la vita per l’onor vostro? se non come voi meritevole, almeno come le deboli forze mie. Ed è possibile — o amarissimo nodrimento della mia vita! — che da miei suspiri, e dalle lacrime ardenti che spargono gli occhi miei, non sia scaldato quell’agghiacciato gelo del vostro cuore, e non vi faccino piena fede della mia innocenza? E le tante esperienze fatte dell’amor mio non v’hanno giá fatta chiara quanto io v’ami? Qual iniquo destino ha turbata la serenitá de’ nostri cuori, quella suavitá, quella dolcezza di due anime congionte insieme, come son state si gran tempo le nostre? dove è quella fede che fu si sincera fra noi?

Sulpizia. Toltoti sia quel cuore fallace e disleale da quel petto, nido dove non si covano mai se non inganni e tradimenti; e quella lingua traditrice e bugiarda, la qual usi se non per ingannar coloro che si fidano in quelle tue parole. E come io sperava fede da un cuore, ove non ce ne fu mai?

Erotico. Io non posso altro rispondervi che, come signora e reina che mi sète, v’è lecito fare e dirmi ogni ingiuria che volete. Ma non son questi i frutti, che sperava dalla vostra gentilezza e dalla nobiltá dell’animo suo, che per ragion di mondo e per giustizia sète obligata di rendermi.

Sulpizia. Or che lo sdegno m’ha tolto quel velo dagli occhi, che cieca mi rendeva, e conosciuti i tuoi tradimenti, ti vo’ fare ammazzare, e poi ammazzarmi io ancora; e mi consolarò nella mia morte con la tua morte. Ti publicarò per quello assassin che sei, che ancor dopo la morte resti l’infamia tua; farò che non goderai di questo tuo nuovo amore, ché, scoverte le tue furfantarie, ti abbi il mondo per quel che sei. Spu, spu!

Erotico. Ahi, che la tigre non è cosí fiera, e non è fera tanto efferata come la donna bella; e una bella si dee fuggir come una fera. Voi volete farmi ammazzare? fermatevi, signora, e vi priego, se pur v’è rimasta qualche reliquia viva del primo amore, che vi degnate di esser spettatrice di questo ultimo segno, che posso darvi dell’infinito amor che v’ho portato e che vi porto, perché dinanzi a gli occhi vostri, come a mio idolo terreno, vo’ trafiggermi con questa spada, e consegrarmi vittima vostra. Misero me, che sdegno è questo? che donna sdegnata è peggio che tigre. Dubito che alcuno non l’abbi dato qualche falsa informazione di me, e me le abbi figurato per disleale e discortese. O forse che le donne sono volubili: e come la luna fa una volta il mese, elle si voltano cinquanta volte il giorno; o forse quando la luna è scema di lume, a lor le si scema il cervello. Sono come fanciulli, che vogliono e non vogliono, e non san star in un proposito, o sono mobili come il vento — e chi s’impregna di vento, partorisce aria; — o perché sono vogliose e desiderano sempre cose nuove; o forse è lor costume peculiare di dar sempre dispiaceri e tormenti a coloro da’ quali si conoscono essere amate e riverite. Né si contentano della signoria de nostri corpi, se non sono tiranne dell’anima ancora; e vogliono che commettiamo idolatria in amar loro, come si fussero dèe. E quando il diavolo per lor mezo fece peccar l’uomo, ci lasciò quella maladetta diabolica ambizione d’esser adorate come lui; né lasciano di tormentarci mai, se non vedono che sono adorate. O maladetti piaceri, che si gustano in amore; ché, se pur alcun se ne gusta, vien sempre mescolato con la paura di aver a finir fra poco tempo; anzi, quanto piú ti vedi amar fuor di misura, piú dá certo presaggio d’aver piú tosto a finire. E la fortuna, per esser femina, è sempre instabile e inconstante. Sperava questa sera sposarla: ecco la nostra favola ha mutato faccia. Ella è cosí meco sdegnata, che non sia per rappacificarsi piú giamai. Almen incontrasse la balia, che m’informasse da lei, che ingiuria è quella che dice aver da me ricevuta. Ma eccola che vien. — Balia, tu sia la ben trovata.

SCENA IX.

Balia, Erotico.

Balia. Io non vo’ dirti il mal trovato. Ma mi meraviglio come non ti vergogni di comparirmi dinanzi.

Erotico. A me questo?

Balia. A te questo.

Erotico. E dici da vero?

Balia. E ti par che in un tale accidente non si parli da vero?

Erotico. Tutte due se sono accordate contro me. Ed è possibile che non possa conoscere donde proceda questo sdegno? che non apro la bocca per dimandare, che mi saltano adosso infuriate, che non mi lasciano dir le mie ragioni?

Balia. Pensava che i piaceri, che ti fussero stati fatti, ti avessero posto in obligo da non sciortene giamai; ma tutto è stato fatto al vento, malvaggio, ingrataccio, che tu sei.

Erotico. È possibile che le donne abbino a pigliar tutte le cose per la punta, né vogliono ascoltar cosa, se non quelle che si confanno alla natura loro?

Balia. Cosa da gentiluomo! dopo cavate le voglie, van le povere donne per le lingue del volgo e per le bocche degli uominacci, e raccontate per essempio d’infelici.

Erotico. Ascoltami due parole, per amor de Dio.

Balia. Non bisognan piú belle parole né lacrime, instrumenti da ingannar le povere donnecciuole. L’amore è converso in odio, e il piangere accresce lo sdegno.

Erotico. Ed è possibile che non vogli lasciar l’ira per un poco e ascoltar le mie ragioni?

Balia. M’incolerisco di sorte, che se mai mi dispiacque d’esser donna, mi dispiace ora; ché si fussi uomo come te, ti caverei quelle intestine dal corpo. Ma, se non me ti togli dinanzi, cosí donna come sono, ti caverò cotesti occhi con i diti, e ti strapparò il naso dalla faccia con i denti; e me ne insanguinarei insino all’unghie, cane ingrato e disconoscente.

Erotico. O che tu sei fuora di te o che ti sogni? che diavol t’ho fatto io, che non puoi temprar la lingua dall’ingiurie e narrarmi il fatto come passi?

Balia. Non posso piú patire l’importunitá e la mala creanza di costui.

Erotico. Meglio sará entrarmene ad Attilio e tormi dinanzi l’occasione di qualche nuovo errore.

Balia. Veggio Orgio, e m’ha vista ragionar con Erotico, disgraziata me!

SCENA X.

Orgio, Balia.

Orgio. A dio, buona donna.

Balia. Sí, che son buona donna, e se noi credi, te ne giurerò!

Orgio. Ti ho colta sul fatto, non puoi piú negarlo. Giá m’hai chiarito di quanto ne stava suspetto.

Balia. Che gran cosa che m’abbiate visto parlar con un giovane?

Orgio. Che parlavi di cose di stato, di astrologia o di filosofia?

Balia. Non si può dunque parlar d’altre cose?

Orgio. Le baliaccie, che han figliane da marito, parlando con i giovani, non puon dar buon odor di loro. Né fu mai figlia puttana, che la madre o la balia non le sia stata ruffiana.

Balia. Non vi potete doler di me, padron mio.

Orgio. Se tu m’avesti stimato padrone, e non una bestia, non mi aresti trattato nel modo che m’hai trattato.

Balia. Di che vi dolete di me?

Orgio. Chi ha portate e riportate l’ambasciate fra quel giovane e Sulpizia? o ridotti i loro amori nel termine dove or sono?

Balia. Volete dunque dir che vostra nipote sia una puttana, e io una ruffiana?

Orgio. Sotto sí onorata maestra non potea imparar altre opre di quelle ch’ave imparate.

Balia. Questo guadagno dopo la servitú di trent’anni in casa vostra?

Orgio. Questo guadagno io con te, dopo averti amata e onorata trent’anni in casa mia, che al fin avesti a svergognarmi la nipote?

Balia. Mai la casa vostra è stata cosí onorata e riverita, come mentre ci son stata io.

Orgio. Mi doglio ritrovarmi qui nella strada publica, che non vorrei far i vicini consapevoli de fatti miei, ché per risposta ti vorrei far cader questi pochi denti che ti sono restati in bocca, e trarti quei pochi capelli che ti ha lasciati il mal francese; ma faremo i nostri conti in casa, quando manco ci pensarai.

Balia. In casa vostra non entrerò piú mai, poiché in tal stima ci son tenuta.

Orgio. Tu ci entrerai per tuo dispetto, se non di buona voglia.

Balia. Io per forza?

Orgio. Tu sí, e ti strascinerò per li capelli.

Balia. Oimè, oimè, vicini, aiuto, aiuto!

Orgio. Ci bisognano uomini e non asini, a governar queste bestie.

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