< La tempesta (Shakespeare-Maffei)
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William Shakespeare - La tempesta (1611)
Traduzione dall'inglese di Andrea Maffei (1869)
Atto quarto
Atto terzo Atto quinto

ATTO QUARTO




SCENA I

Alla grotta di Prospero.


PROSPERO, FERDINANDO, MIRANDA.


                      prospero.
Se rigido con te mi comportai,
Spero di riparar con larga emenda
Questa offesa. Uno stame io t’ho donato
Della stessa mia vita, o meglio il solo
Mio vitale elemento; e qui di novo
L’affido alle tue mani. Ogni tortura,
Cui ti volli soppor, fu solo a prova
Dell’amor tuo. Risposto in modo egregio
Tu v’hai. Del cielo in faccia or ti raffermo
Questo mio dono prezïoso. Il labbro
No, non torcere al riso, o buon Fernando,
Se di lei con tal vanto io ti favello;
Però che t’avvedrai come d’immenso
Tratto lo avanzi e sminuisca il vero.

                 ferdinando.
Se dovesse un osacolo smentirmi,
Fede, o Signor, non ti torrei.

                  prospero.
                                        Ricevi
Dunque la figlia mia come un presente
Delle mie mani, e come un degno acquisto
Del tuo proprio valor. Ma ben ti guarda
Di corne il fiore virginal, se prima
Tu compiuto non hai ciò che la legge
Del santo rito ti comanda. Il cielo
Non vorrebbe altrimenti i suoi favori
Sul tuo nodo versar, ma l’infecondo
Astio, ma l’ira dai lividi sguardi,
Ma la discordia spargerian di bronchi
Così pungenti il nuzïal tuo letto,
Che grave ed odïoso all’uno e all’altro
Di voi due si farìa. Però da saggio
Modera i sensi tuoi, finchè ti splenda
La face d’Imeneo.

                      ferdinando.
                            Come di giorni
Lieti, di bella prole e d’anni lunghi
Questo dolce amor mio mi dà speranza,
Così l’antro più scuro, il più deserto
Loco, e quanto sapesse il mio maligno
Genio spirarmi ed istigar, giammai
Mi faran l’onor mio nella mollezza
Tanto obbliar, che i puri e sospirati
Gaudj io pregusti di quel di solenne,

Nel quale io temerò che pigri il Sole
Abbia i destrieri, e sia la notte avvinta
Nel mondo inferïor.

                       prospero.
                               Sensati, o figlio,
Sono i tuoi detti. ― Or siedi, e ti ristringi
Con lei. Tua cosa ell'è. ― Dove t’ascondi
Mio sagace Arïel?

                        ariele.
                             Son qui! che brami,
Venerato Signor?

                       prospero.
                           Tu degnamente
Coi minori compagni il mio supremo
Voler compiesti, ed or per altra impresa
Giovarmene io disegno. Il folto stuolo
Di quegli Spirti, che suggetti io feci
Al cenno tuo, raccoglimi all’istante.
Vanne, e spira in coloro anima e zelo
A dar prova di sè. Dell’arte mia
Voglio dar qualche saggio a questi amanti,
Tal che la vista ne ricrei. Promessa
Ne feci, e ch’io v’adempia impazïenti
Son essi.

                        ariele.
                  E quando?

                       prospero.
                              In un girar di ciglio.

                        ariele.
«Pria che tu dica: ― Va tosto e riedi ―

Pria che respiri due volte sole,
Qui sulla punta verran de’ piedi
A farti giochi, lazzi, carole.
Non è già questo, Signor, che vuoi?
Or che non m’ami di’ se lo puoi.»

                       prospero.
T’amo, Arïele mio! teneramente
T’amo. ― Va, nè venir fin ch’io t’appelli.
M’intendi?

                        ariele.
                  Sì.
                        (Parte.)

                       prospero.
                          Fernando! uscir di mente,
Bada, non ti lasciar la data fede.
Pon freno alle carezze. È paglia al foco
Delle giovani vene anche il più forte
Giuramento. Sii parco, o certo in fumo
N’andranno i voti tuoi.

                      ferdinando.
                                 Vel riprometto,
Signor! La neve che sul cor mi posa
Candida, fredda, virginale, ammorza
L’ardor de’ sensi miei.

                       prospero.
                                Ti afferma in questo.
Vieni, vieni, Ariele, e d’uno spirto
Sia più tosto accresciuto anzi che scemo

L’aereo stuol. ― Mostratevi! apparite!
             (a Ferdinando e Miranda)
E voi siate tutt’occhi e senza voce.
                  (Musica soave)

              UNA MASCHERATA.1

                 Entra IRIDE.
Cerere, universal benefattrice,
Qui vieni, e lascia il piano
Di ségale, di grano,
D’avena opimo.
La fertile pendice
Lascia, ove bruca l’agnelletta il timo.
Lascia i pascoli erbosi, a te si cari,
Sparsi di casolari;
Lascia le piagge tue che il bacio infiora
Di Zeffiro e di Flora;
Ove germina april, se tu lo imperi,
Poenie e gelsomini,
Di cui la fredda ninfa una pudica
Ghirlanda intreccia ai crini.
I taciti sentieri
Lascia che l’ombra di selvette imbruna,
A cui, tradito dall’infida amica,
Va l’amante a celarsi, e tra le foglie

Gremite alla importuna
Turba si toglie.
Lascia i cinti vigneti e le infeconde
Marine sponde
Coronata di scogli, e, per la mite
Aura che vi respiri, a te gradite.
La reina del ciel, la dia Giunone,
Per me, che l’areo messagger ne sono,
Di porre in abbandono
Queste liete tue sedi oggi t’impone;
E qui su questa riva
Venir de’ ludi a parte
Che prepara e consacra alla gran diva
Poter di magic’ arte.
Ma pei sereni
Campi del ciel già l’ale
Battono i suoi pavoni; alla regale
Giuno incontro moviam. Cerere, vieni!

              Entra CERERE

Salve, o nunzia del cielo,
Che screzïato il velo
Hai di tanti colori!
Tu che di Giuno ognora
Al comando obbedisci, e versi un’onda
Fresca, feconda
Su’ miei languenti fiori,
Piova che li ravviva e li ristora,

Tu che incoroni
Col tuo bell’arco i canpi e le foreste
Del regno mio, che doni
Così vaga alla terra e ricca veste;
Dimmi, gentil messaggia,
A che sulla fiorita
Erba di questa piaggia
Giunon per te m’invita?

                        iride.
A legar di tua man due casti cuori
Che l’amor vero accese,
Ed a versar cortese
Su loro i tuoi favori.

                        cerere.
Iride, dimmi ancor, se pur t’è noto,
Venere e il figlio suo colla regina
Del ciel qui ne verranno?
Da quel dì che m’ordir l’iniquo inganno,
E la mia Proserpina
Diero in braccio a Plutone, un sacro voto
Fec’io che l’impudente
Compagnia di tal madre e di tal figlio
Contaminato il ciglio
Più non avria.

                        iride.
                         Presente
Nè l’un, nè l’altra vi sarà. Timore,
Cerere, non ne aver. Testè la dea
Scontrai che con Amore
Le nugole fendea

Tratta dalle colombe; e se ne giva
Verso Pafo. Speraro aver trasfusa
(Speranza illusa!)
Nella coppia gentile una lasciva
Febbre, per vïolar quel sacro giuro
Di non compir de’ riti
Nuzïali verun, pria che la face
Non accenda Imeneo. Ben rinnovati
La druda audace
Di Marte ha gli scaltriti
Tranelli suoi; ma furo
Tutti sprecati.
L’arco l’incorreggibile fanciullo
Spezzò, giurando che ferir di strale
Cor più non vuole, e sol, per suo trastullo,
Far ne divisa i passeri segnale,
Nè più d’un bamboletto
Mostrarsi in avvenir.

                        cerere.
                              La mäestosa
Giunon, l’altra sposa
Di Giove ecco s’avanza; al grave aspetto
La riconosco.

                   Entra GIUNONE

                        O cara
Sorella! Ai fidanzati
Benedici con me, con me prepara

Giorni al talamo loro avventurati.
Che sia di egregi figli
Fecondo, ed ogni figlio a lor somigli.
                        (Canto.)

                       giunone.
Onori, ricchezze,
Durabili, intere; crescenti dolcezze
Faran ciascun’ora
Del vostro connubio serena, felice.
A voi lo predice
Del nume supremo la moglie, la suora.

                       cerere.
Su voi la terra con larga mano
Versi la piena de’ suoi tesori.
V’allegri l’orto d’eterni fiori;
L’aja di grano,
D’uva i vigneti
Vi faccia lieti;
E sotto il carco
Di ricche frutta
Arbusti e rami vi pieghi in arco.
La primavera vi sia compagna
Pur quando i cari mesi dell’anno
Da voi sen vanno;
Pur quando tutta
Langue, si spoglia, muor la campagna.
E sempre ignoto
Nome vi sia
L’inopia trista, la carestia.
Cerere manda per voi tal voto.

                      ferdinando.
Portentose apparenze accompagnate
Da divina armonia. Crederli Spirti
Oserò?

                       prospero.
                 Tali son. Dai loro alberghi
Qui testè gli evocai per dar la vita
Alla immagine mia.

                      ferdinando.
                            Condur qui tutti
I miei giorni potessi! Un tal prodigio
Di padre, un tal miracolo di sposa
Fan di questo soggiorno un paradiso.
(Cerere e Giunone parlano fra loro a bassa voce, e mandano Iride
                  per un messaggio.)

                       prospero.
Taci! Giunone e Cerere si vanno
Bisbigliando agli orecchi, e, s’io m’appongo,
Di gravi cose. Ci rimane ancora
Altro a veder. Taci, o l’incanto è sciolto.

                        iride.
«Caste ninfe de’ rivi correnti
   Che recate di Najadi il nome,
   Verginette dagli occhi innocenti,
   Coronate di giunco le chiome,
Dalle molli argentine dimore
   Qui venite. Giunon vi comanda
   Di far bella una coppia d’amore
   Colla vostra più cara ghirlanda.

               (Entrano le Ninfe.)
E voi pur, falciatori abbronzati
   Sotto i raggi del fervido agosto,
   Da maggesi, da campi, da prati,
   Vispi, allegri venite qui tosto.
Con cappelli di paglie tessuti
   Oggi il capo, garzoni, coprite;
   Ed al suono de’ pifferi arguti
   Delle ninfe alla ridda v’unite.»

Arrivano parecchi mietitori decentemente vestiti, e
   si mescolano in graziosa danza colle Ninfe.
   Prospero d’un tratto si mostra commosso. Parla
   agli Spiriti, e questi con uno strano, sordo e
   confuso rumore spariscono.

                        prospero.
Mi fuggì dal pensier la iniqua trama
Del brutal Calibano e de’ malvagi
Suoi congiurati contro me. Già l’ora
Destinata a incarnar quel sanguinoso
Lor disegno è vicina. ― Io sono, o Spirti,
Pago di voi. Vi basti. Ora sparite.

                      ferdinando.
Guardate al padre vostro! Oh non vi pare
Da fiera, interna emozïon turbato?
Strana è la cosa!

                       miranda.
                         Ah, mai da tanto sdegno
Infiammato nol vidi!

                       prospero.
                              Il volto tuo,
Figlio, mi svela il tuo terror. Finiti
Ecco i nostri diporti; e le apparenze
Che li eseguìr non son, come ti dissi,
Altro che Spirti, e dileguàr d’un tratto. ―
Come il vuoto edificio e senza base
Di questa visïon nell’aer lieve
Sparì, così le torri, a cui la cima
Talor velan le nubi, i mäestosi
Palagi, i templi venerandi e tutto
L’orbe terreno e ciò che in lui s’accoglie,
Quando che sia dileguerà, nè traccia
Lascierà dietro a sè più che non v’abbia
Quest’aereo spettacolo lasciata.
Della vacua sustanza, o buon Fernando,
Onde i sogni son fatti, è l’uom composto,
Ed involta nel sonno è la fugace
Nostra esistenza. ― Afflitto io son. Perdona!
La fralezza mi vince, ed è l’antica
Mia mente oppressa; tuttavia di questo
Non ti accorar: durevole malore
Non è. Va’ nella grotta, e ti riposa.
Muterò per l’aperto alcuni passi,
E spero ridonar la consueta
Calma al mio core.

        ferdinando e miranda.
                        Il Ciel te la consenta!
                    (Partono.)

                       prospero.
Mercè! ― Vieni Arïel così veloce
Come il pensiero.

                    Entra ARIELE

                         Il tuo m’impenna l’ali.
Che vuoi?

                       prospero.
                     N’è d’uopo sostener l’incontro
Di Calibano.

                        ariele.
                     È ver. Quand’io qui trassi
Cerere, dirti di colui volea,
Se non che risvegliar la tua sopita
Ira temei.

                       prospero.
                    Ripeti! Ove lasciasti
Quegli abbietti?

                        ariele.
                            Ti dissi, o mio Signore,
Come briachi dal soverchio bere,
Ed enfiati il cervel da forsennata
Spavalderia menassero fendenti
All’aria vana che feriane i volti,
E quel suol che baciava i loro piedi
Battessero. In obblio l’infame intento
Non metteano però. D’un tratto io posi
Sul cembalo la mano, e quelli, a guisa
Di puledri selvaggi, alzàr gli orecchi,
Le narici allargaro, e i sopraccigli
Levàr, come volessero le dolci

Note fiutarne. Ho stretto i sensi loro
D’un nodo tal che dietro all’armonia,
Quasi vitelli desiosi al mugghio
Della madre, correan traverso rovi,
Macchie, veprai che ne’ tremuli stinchi
Figgean le acute spine. Alfin gl’immersi
In quel sozzo padul che giace a tergo
Della tua grotta; ed or nella belletta
Fino al mento ingolfati, in vane prove
Sciupano il poco di vigor per trarne
Dal fondo i piedi nel limo impacciati.

                       prospero.
A meraviglia, augello mio! Brev’ora
Serba ancor l’invisibile tua forma.
Vanne, e recami qui gli arredi tutti
Della mia stanza, lusinghevol esca
A pigliar quei predoni....

                        ariele.
                                       In un baleno.
                         (Parte.)

                       prospero.
Un demonio è colui; da’ suoi natali
Un demòn! nè coltura ingentilirne
Può l’indole feroce; io v’ho sprecate
Per sola umanità fatiche e cure;
Tutte, tutte sprecate; e come orrenda
Sempre più colla età la sua figura
Divien, così la trista anima sua
Più sempre incancherisce. ― A tal tormento

Coloro io sopporrò, che ne dovranno
Mandar lamenti disperati.
(Ariele ritorna carico di ricchi abbigliamenti e d’altre cose.)
                                        A questa
Funicella or gli appendi.
         (Prospero ed Ariele si fanno invisibili.)

Entrano CALIBANO, STEFANO e TRINCULO
           (tuttti bagnati dal capo ai piedi).

                       calibano.
                              A pie’ sospeso
Cammina! Udirne quella vecchia talpa
Potria lo scalpiccìo mentre lo posi
Sul terren. Siamo all’antro.

                       stefano.
                                   Il tuo Coboldo
Mostro, che millantavi inoffensivo,
Meglio non ci guidò della fiammella
D’un foco fatuo.

                       trinculo.
                       Annuso un puzzo tale
Di piscio cavallin, che le narici,
Mostro, mi ammorba.

                       stefano.
                          Anch’io. Se tu m’irriti,
Mostro, pensaci ben....

                       trinculo.
                             Tu se’ perduto,
Mostro!

                       calibano.
               La grazia tua, mio buon Signore,
Rendimi, ed abbi pazïenza. Il ricco
Bottino ch’io porrò nelle tue mani
Obbliar ti farà quella infelice
Ventura. Parla a bassa voce! Un suono
Non odo io qui; silenzïoso è tutto
Come a notte profonda.

                       trinculo.
                                E giù nel fosso
Perdere i fiaschi!

                       stefano.
                         Disonor, vergogna,
Mostro, non pur, ma grave enorme danno.

                       trinculo.
Duro questo m’è più che del vedermi
Reso in frádicio cencio; e con ciò tutto
Quel tuo Coboldo non offende.

                       stefano.
                                           Il fiasco
Vo’ ripescar, dovessi entrar nel fango
Sino agli orecchi.

                       calibano.
                            Oh smetti il tuo corruccio,
Mio re! Vedi tu qui? La bocca è questa
Dell’antro. Entravi chiotto, e compi in fretta
La santa uccision che dar ti debbe
Quest’isola per sempre e Calibano,
Tuo servo, a leccapiè.

                       stefano.
                            Qui la tua destra!
Già mi grillano in capo idee di sangue.

                       trinculo.
                         (canta).
O re Stefano! o Pari! o glorïoso
Stefano! osserva che stupende cose
Stan qui per te!

                       calibano.
                    Vilissimo ciarpame!
Lasciale, pazzo.

                       trinculo.
                   Oh che! Noi pure, o mostro,
La roba usata conosciam.... Re nostro,
Re Stefano!

                       stefano.
                  Giù giù quella zimarra,
Trinculo! È cosa mia.

                       trinculo.
                           Se l’abbia pure
La Grazia Sua.

                       calibano.
                  Ti faccia, o scimunito,
Scoppiar l’idropisia. ― Ma voi perdete
In questa miserabile robiglia
Gli occhi e il tempo opportuno. Entriam, vi dico,
E facciamla finita. Ove dal sonno
Si riscuota colui, dal capo al piede
Ne coprirà di tai lividi segni
Da movere a pietà.

                       stefano.
                          Silenzio, mostro!
                       (Alla fune.)
2Monna Linea, di grazia! È roba mia
Questa giubba, o non è? Sta pur la giubba
Sotto la Linea; or ben t’è forza il pelo
Perdere, giubba mia, farti una giubba
Calva.

                       trinculo.
                 Sua Mäestà, se n’ha talento,
L’abbia. Sia colla Linea o col Livello
Noi d’un modo rubiam.

                       stefano.
                                 Del frizzo tuo
Grato ti son. Quest’abito in mercede
Ti do. Fin che dell’isola lo scettro
Tengono le mie mani, i begl’ingegni
Non andran senza premio. Affè che il tratto
Di rubar colla Linea o col Livello
È tratto magistrale! Eccoti un’altra
Veste.

                       trinculo.
               Qua, mostro, invischiati gli unghioni,
E razzola gli avanzi.

                       calibano.
                              Io non vo’ nulla.
Noi qui gettiamo il tempo, e ci vedremo,

Senza punto avvedercene, cangiati
In oche o in scimie dai ceffi camusi
E sconci.

                       stefano.
                 Apri le branche, animalaccio,
E danne ajuto a trasportar le robe
Ove sta la mia botte, o ti bandisco
Dal regno. Or su! quegli abiti t’incarca.

                       trinculo.
E questi.

                       stefano.
                E questi pur.
                   (Rumore di caccia.)

Sopravvengono parecchi Spiriti in forma di cani,
e gl’inseguono. PROSPERO ed ARIELE li aizzano.

                       prospero.
                               Là, là! Montano!

                        ariele.
Silvan, Silvano, qua!

                       prospero.
                              Lì, Furia! Furia!
Tiranno, qui! Va, vola!
   (Stefano e Trinculo sono cacciati dalla scena.)
                                   I miei Coboldi
Sprona su lor, ne affannino i convulsi
Lombi così, che il lungo acuto spasmo
Del granchio i nervi ne rattrappi; e l’orme

Che il flagel lascerà su quelle membra
Fa’ che siano più larghe e più gremite
Che le macchie del pardo.

                        ariele.
                                        Urlar li senti?

                       prospero.
Cacciali senza posa. ― I miei nemici
Son tutti alfine in mano mia. S’accosta
Il termine, Arïel, de’ tuoi travagli.
L’aria non circoscritta avrai per campo
Della tua libertà. Per poco ancora
Prestami, o caro Spirto, i tuoi servigi.

  1. [Vuolsi dai commentatori, e con ragione, che questo dramma fantastico-allegorico sia stato composto in occasione di nozze illustri.]
  2. Strano e oscuro bisticcio a cui danno i commentatori diverse interpretazioni. La traduzione è fedelissima, e lascio al lettore darvi il senso che crede.
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