< La tempesta (Shakespeare-Maffei)
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William Shakespeare - La tempesta (1611)
Traduzione dall'inglese di Andrea Maffei (1869)
Atto terzo
Atto secondo Atto quarto

ATTO TERZO




SCENA I

Di contro alla grotta di Prospero.


                     ferdinando.
        (porta sul dorso un tronco d’albero).
Vi son diporti faticosi e care
Fatiche, abbiette cure, a cui sopporci
Possiam con nostro onore; e raro il caso
Non è che ad alto fin la più vulgare
Di lor ne guidi. Se colei ch’io servo,
L’alito della vita a quanto è morto
Non infondesse, intollerabil cosa
Questo ignobile officio a me saria.
Ma dieci volte amabile è la figlia
Più che villano il padre suo, non d’altro
Che di fele pasciuto. Il suo comando
Crudel vuol che nel bosco un buon migliajo
Di tai ceppi io raccolga e li accatasti.
Quando al duro lavor quella soave
Creatura mi vede, umidi ha gli occhi,
E sospira così: «Non fu commessa

A più nobile man più vergognosa
Opra di quella.» ― Ma l’incarco mio
Tardando io vo. Questi cari pensieri
M’infondono vigore, e lieve il grave
Peso mi fanno.

(Entrano MIRANDA, e PROSPERO invisibile

e un po’ discosto.)




                         miranda.
                         Oimè! non v’affannate
Tanto, ve ne scongiuro. Inceneriti
Qualche fulmini avesse i maladetti
Tronchi che d’ammucchiar vi si condanna!
Giù, giù quel peso, e respirate. Al foco
Che sieno i ceppi gemeran d’avervi
Faticato così. Mio padre in questo
Negli studi è sommerso, e vi potete
Riposar: non verrà pria della terza
Ora, ve lo assicuro.

                        ferdinando.
                                 Oh no, Signora!
Pria che si compia il mio lavor la luce
Morrà.

                         miranda.
                Qui, qui sedete! Io stessa il ceppo
Per voi, fra tanto, porterò. Vi prego,
Datelo a me. Sul cumolo degli altri
Lo porrò.

                      ferdinando.
                   Nol consento, affettuosa
Anima! I nervi mi vorrei più tosto
Spezzar, rompermi il dorso anzi che starmi
Freddo, ozïoso osservator di tanta
Vergogna.

                       miranda.
                   A me quest’umile fatica
Quanto a voi si confà, ma tollerarla
Facilmente poss’io, giacchè vi metto
Quell’ottimo voler che manca in voi.

                       prospero.
Già comincia l’amore ad inveschiarti,
Mia povera augelletta! A me lo dice
Il vederti con lui.

                       miranda.
                              Voi siete oppresso.

                      ferdinando.
No, gentil mia Signora! Al vostro fianco
Mi parrebbe la notte un luminoso
Mattin. Ma voi chi siete? il vostro nome
Qual’è? Fate ch’io l’oda, acciò lo possa
Mormorar nelle mie sante preghiere.

                       miranda.
Miranda. ― O Ciel! che dissi? Ho trasgredito
Al tuo precetto, padre mio. ―

                      ferdinando.
                                           Miranda!
Ammirabile in vero! Il fior di tutte
Le maraviglie, nè tesoro il mondo

Più bello e prezïoso in sè racchiude.
Con un senso di gioja io contemplai
Molte care fanciulle, e l’armonia
De’ loro accenti il mio facile orecchio
Spesse volte allacciò! Virtù diverse
M’invaghiro di lor, però nessuna
Coll’anima ne amai, perchè mi parve
Ne oscurasse le grazie alcun difetto.
Ma voi così perfetta, unica voi,
Siete di quante creature han vita
Mirabile compendio.

                       miranda.
                           Io non conosco
Del mio sesso che me. Fin or non vidi
Sembianza femminil fuor che la mia
Dallo specchio riflessa; e similmente
Forma non m’apparì che dir potessi
«Ecco un uom» se non voi, mio buon amico,
Se non l’amato padre mio. M’è scuro
Come siano i viventi in altro loco.
V’assicuro però sulla innocenza
Mia, la sola ricchezza, il sol giojello
Della mia dote, che compagno in terra
Fuor di voi non desio. No! figurarmi
Volto umano io non so che più del vostro
Potessi amar. Ma garrula ed incauta
Troppo io mi faccio, e intanto i saggi avvisi
Del padre obblio.

                      ferdinando.
                          Miranda! un prence io sono,

Ed or (che Dio nol voglia!) un re mi credo.
Dirvi intendo con ciò che non vorrei
Patir questo vilissimo servaggio
Più d’un insetto che la guancia o il labbro
Mi venisse a ferir. Miranda! io v’apro
L’animo mio. D’allor che vi mirai,
Come schiavo a sovrana, a voi s’è volto
Tutto il mio cor; chè ceppi al pie’ mi diede
Sol la vostra virtù. Se mi vedete
Boscaiol pazïente è sol per lei.

                       miranda.
Mi amate?

                      ferdinando.
                   O terra, o ciel! Voi testimonj
Siatemi; e i voti miei, se il vero io dico,
D’un evento felice incoronate.
Ma volgetemi in danno il ben che spero
Se menzogna è la mia. Miranda, io v’amo
Si, v’esalto, v’onoro oltre le cose
Tutte dell’universo.

                       miranda.
                              Io son pure folle!
Piango della mia gioja!

                       prospero.
                                  O bello incontro
Di due teneri cuori! A piene mani
Piovi le grazie tue su questo amore
Nascente, o ciel!

                      ferdinando.
                            Miranda, a che piangete!

                       miranda.
Piango perchè d’offrirvi io non son degna
Quanto darvi vorrei perchè non oso
Ricevere da voi, ciò che la vita,
Quando priva io ne fossi, a me torrìa.
Ma qual bimba son io? più che m’ingegno
Nascondere il mio cor, più vel paleso.
Lungi dunque da me questi artifici
Miseri, peritosi, e tu, tu sola,
Pura innocenza, mi consiglia. Sposa
Vi sarò, se il bramate; e se per tale
Non mi volete, ne morrò, ma sempre
Umil soggetta vostra. Ah! ben potete
Rifiutarmi a compagna, io non per tanto
Voglio, benchè respinta, esservi ancella.

                      ferdinando.
Dite la donna mia, la mia regina,
Ed io fino alla tomba a’ piedi vostri
Come in quest’ora.

                       miranda.
                              Sposo mio?

                      ferdinando.
                                           Tuo sposo
Si, cara, e col desio del prigioniero
Per la sua libertà. ― Qui la tua mano!

                       miranda.
Eccola e col mio core!... Addio! Fra poco
Rivederci potrem.

                      ferdinando.
                               Mille e poi mille
Volte addio.
           (Ferdinando e Miranda partono.)
                       prospero.
                      Pieno il core aver non posso
Di quella gioja che v’inebria: nulla
Mi sapria nondimen render più lieto.
Corro ad aprire il libro mio, chè molto
Pria della cena da stricar mi resta.



Altra parte dell’isola.


STEFANO e TRINCULO.
CALIBANO li segue col fiasco.


                       stefano.
Non cianciarmene più. Quando la botte
Sarà vuota del tutto, acqua beremo.
Ma pria non una goccia. In aria il fiasco,
Spicciati! e mesci alla salute mia.
Bevi, mostro, mio servo.

                       trinculo.
                                      Il mostro servo
Suo? Ben è questa l’isola de’ matti.
Vuolsi che più di cinque abitatori
Non abbia, e tre siam noi; se gli altri due

Son del nostro cervello, affè lo Stato
Vacilla.

                       stefano.
                   Mostro, servo mio, tracanna
Quand’io te lo comando. Entrati gli occhi
Ti son quasi nel capo.

                       trinculo.
                                  E dove, in grazia,
Tu li vorresti? Un mostro assai bizzarro
Saria, se gli occhi nella coda avesse.

                       stefano.
Annegata nel vino è la favella
Del mostro mio. Che me lo stesso mare
Possa annegar, non credo. Io, ve lo giuro
Per la luce del di, varcai nuotando,
Pria di giungere a proda, un trentacinque
Leghe. Tu mi sarai locotenente
E signifero, o mostro.

                       trinculo.
                                     Un tentennino
Qual è mal porterebbe il gonfalone.
Meglio locotenente.

                       stefano.
                              Andar di trotto,
Ser mostro, non possiam.

                       trinculo.
                                        Neppur di passo,
Ma chiotti sulla terra a mo’ di cani
Sdrajatevi e tacete.

                       stefano.
                             Animalaccio!
Rispondimi una volta. Un mostro buono
Sei tu?

                       calibano.
               Come ti va, mio grazïoso
Signor? Lascia che i sandali io ti lecchi.
                 (accennando Trinculo)
Costui non vo’ servir; non ha valore
Costui.

                       trinculo.
                Mostro ignorante e menzognero!
Saprò farti veder come azzuffarmi
Poss’io con uno sgherro. Orsù favella,
Sozzo pesce! dar titolo di vile
Oseresti ad un uom che tanto vino
Beva, quant’io ne bevvi in questa mane?
Bugia marcia è la tua, schifoso impasto
Di pesce e d’uomo.

                       calibano.
                                Signor mio, tu senti
Quali ingiurie mi scaglia, e lo comporti?

                       trinculo.
«Signor mio» lo chiamò? Può darsi un mostro
Di sì poco cervel che un tal beone
Dica Signor?

                       calibano.
                       Lo intendi? egli ripiglia.
Mordilo fin che muoja.

                       stefano.
                                     Alla tua lingua

Poni freno, Trinculo; e se la parte
Vuoi far d’attaccabrighe, al più vicino
Ramo t’appenderò. La è mia vassalla
Questa povera bestia, e non sopporto
Che un pelo a lei si torca.

                       calibano.
                                    Oh, gran mercede,
Mio nobile Signore! Ed or vorresti
La preghiera ascoltar che pria ti volsi?

                       stefano.
Ripetila in ginocchio. In pie’ fra tanto
Starem Trinculo ed io.
              (Entra Ariele invisibile.)

                       calibano.
                                 Son, come dissi,
Schiavo d’insopportabile tiranno,
E per giunta stregon, che con incanti
Di questa terra mi spogliò.

                        ariele.
                                        Tu menti!

                       calibano.
Menti tu, brutta scimia. Io pur vorrei
Che per sempre lo spaccio il mio Signore
Ti desse alfine. Mentitor non sono.

                       stefano.
Se di novo interrompi il suo racconto,
Trinculo, io nella gola a te conficco
Un bel pajo di denti.

                       trinculo.
                                A me? che dissi
Mai?

                       stefano.
            Non fiatar!
                      (A Calibano.)
                           Tu segui!

                       calibano.
                                           Io vi dicea
Che per arte infernal di questa terra,
Già mia, prese il dominio. Or se vendetta
Farne l’Altezza tua... perchè coraggio
Hai tu, ma non costui.

                       stefano.
                                  Vero, stravero.

                       calibano.
Tu Signor di quest’isola saresti,
Io servo tuo.

                       stefano.
                      Ma come far? La guisa
Mostrarmene sai tu?

                       calibano.
                                Si! Nelle branche
Tel porrò mentre dorme, e tu potrai
Piantargli un chiodo nella fronte.

                        ariele.
                                           Menti!
Nol potrà.

                       calibano.
                  Ma qual tanghero dipinto,
Ma qual lordo palton? Lo picchia, Altezza,
Ti prego, e il fiasco dalla man gli strappa.
Quando più non lo tegna, acqua di mare

Bersi dovrà, chè le dolci sorgenti
Non vorrò già mostrargli.

                       stefano.
                      (a Trinculo).
                                    Orsù! ti guarda
D’aprir più bocca: se t’arrischi ancora
D’interrompere il mostro, io, vedi! all’uscio
Metto la pazïenza, e ti trasformo
In mummia di merluzzo.

                       trinculo.
                                  E che t’ho fatto?
Or ben, da voi mi scosto.

                       stefano.
                                  E ch’egli mente
Detto or ora non hai?

                        ariele.
                             Tu menti!

                       stefano.
                                            Io mento?
                        (Lo batte.)
Prendi! e se ciò ti garba, una mentita
Nova mi da’.

                       trinculo.
                    Nessuna io te n’ho data.
O che? senno ed orecchio hai tu perduto?
Maladetto quel fiasco! Ecco bei frutti
Del trincar senza modo! Che la peste
Colga il tuo mostro, e il diavolo ti storpi
Le dita.

                       calibano.
                          (ride).
                Ah! ah!

                       stefano.
                      (a Calibano).
                           Tu segui il tuo racconto!
                      (A Trinculo.)
E tu stanne discosto; è per tuo meglio.

                       calibano.
Dagliene un’altra dose, ed una terza
L’avrà da me.

                       stefano.
                      (a Trinculo).
                      Via, dico!
                      (A Calibano.)
                                     E tu racconta.

                       calibano.
Usa, dopo il meriggio, io già tel dissi,
Sdrajarsi e riposar. Tu puoi nel sonno
Spaccargli il capo, ma pria de’ suoi libri
Privalo, bada ben! Con un troncone
Allor, se credi, infrangigli la tempia,
Sparagli il ventre con un palo, o meglio
Con un coltel gli sega il gorgozzule.
Ma di torgli que’ libri innanzi tratto
Non obblïar, però che in barbagianni,
Qual son io, se n’è privo, egli si muta,
Nè spirito verun più l’obbedisce.
Tutti al pari di me dal cor profondo
L’abborrono. Alle fiamme, io tel ripeto,

Getta i suoi libri. Ha pur di begli arredi
(Così li appella) ed azzimar la casa,
Pur che l’abbia, ne vuol. Ma ciò che gli occhi
Più rapisce, innamora, è la stragrande
Beltà della sua figlia. Il padre istesso
Senza pari la dice. Io mai non vidi
Del sesso femminil fuor che mia madre,
Sicorace, e costei; ma quanto al basso
L’alto sovrasta, la fanciulla avanza
La mia madre in beltà.

                       stefano.
                              Da ver? Quella fanciulla
Bella è così?

                       calibano.
                    Così; te lo assecuro.
Del tuo talamo è degna, e vaga prole
Ti porterà.

                       stefano.
                  Torrò quell’uom di vita,
Me poi re di quest’isola, e reina
Farò la figlia sua (che Dio protegga
Le nostre Maestà!); voi finalmente,
Voi due, miei vicerè. ― Come ritrovi,
Trinculo, il mio pensier?

                       trinculo.
                                   Miracoloso.

                       stefano.
Porgimi la tua mano. Assai mi duole
D’averti offeso, ma tener la lingua
Stùdiati in avvenir.

                       calibano.
                             Sarà tra poco
Prospero addormentato: hai risoluto
Di spacciarlo dal mondo?

                       stefano.
                                    Io te lo giuro
Sull’onor mio.

                        ariele.
                        (da sé).
                       Novella al mio Signore
Ne porterò.

                       calibano.
                    Qual gioja! In visibilio
Mi sento andar! Baldoria, olà baldoria!
Insegnami, o Signor, la canzonetta
Che or or canterellavi.

                       stefano.
                               A senno tuo,
Bel mostro! a senno tuo. Vien qui, Trinculo,
Accordianne le voci e insiem cantiamo.
                       (Cantano)
«Si giochi, si canti, si rida di lor;
Però che il pensiero v’è libero ognor.»

                       calibano.
Così l’aria non va.
  (Ariele suona l’aria col tamburello e col flauto.)

                       stefano.
                             Che suono è questo?

                       trinculo.
Gli è maestro Nessun che vien sonando
La nostra cantilena.

                       stefano.
                            Un uom tu sei?
Nella vera tua forma a noi ti svela.
Un demonio sei tu? quella ti piglia
Che più t’aggrada.

                       trinculo.
                             I debiti m’assolvi,
Buon Dio!

                       stefano.
                   Paga ogni debito la morte.
Io non temo, e ti sfido!... Il Ciel m’assista!

                       calibano.
Paura hai tu?

                       stefano.
                       No, mostro.

                       calibano.
                                         E se l’avessi,
Cacciala, Signor mio. L’isola è piena
Di romori, di suoni, e d’amorose
Melodie che rallegrano, e non danno
Noia ad alcun. Talvolta un fragoroso
Tuon di mille stromenti odo rombarmi
Negli orecchi: talvolta una indistinta
Consonanza di voci, a tal che desto
Da lungo sonno allor allor, mi fanno
Di novo addormentar. Ne’ sogni miei
Veggo, o veder mi pare, aprirsi il grembo
Delle nubi, e mostrarmi una gran copia
Di tesori imminenti a riversarsi
Dal ciel sul capo mio, sì che, riscosso

Da quella dolce visïon, mi sento
Gli occhi pieni di lagrime per voglia
Di risognar.

                       stefano.
                   Sarà come un Bengodi
Questo regno per me; voci e stromenti
Sempre a macca.

                       calibano.
                         Ma pria levar di mezzo
Prospero t’è mestier.

                       stefano.
                               Cura, pensiero
Non te ne dar.

                       trinculo.
                          La musica si scosta.
Seguiamla, e poscia al nostro affar. Precedi,
Mostro, e noi verrem dietro. Una gran voglia
Ben avrei di veder quel pifferista!
Lo ascolto ancora pifferar. ― Non vieni,
Stefano? Io m’incammino.
                        (Partono)


Altra parte dell’isola.


ALONSO, SEBASTIANO, ANTONIO, GONZALO,
ADRIANO, FRANCESCO ed altri.


                       gonzalo.
                                   Ah, per la santa
Vergine, io più non reggo! Ho le mie vecchie
Ossa rotte, o Signore. È pien di stento
L’andar per questo intricato deserto;
E, con vostra licenza, alcun respiro
Prendere mi vorrei.

                       alonso.
                            Nè so biasmarti,
Mio vecchio amico. Oppresso ed accasciato,
Fino a perderne i sensi, anch’io mi sento.
Siedi e lena ripiglia. ― Alla speranza
Come a vil cortigiana, io dissi addio.
Chiudon l’onde colui che qui d’errore
In error noi cerchiamo, e ridon esse
Di questa che facciam sul fermo suolo
Lunga e vana ricerca. Eterna pace
Sia con lui!

                       antonio.
              (a Sebastiano in disparte).
                    Ch’egli smetta ogni speranza,
Spiacevole non m’è. Sol non vogliate

Lasciar, per un ostacolo, l’impresa
Che testè risolvemmo.

                      sebastiano.
                             Ove il momento
Opportuno n’appaja, un pronto effetto
Noi vi darem.

                       antonio.
                      Sia dunque in questa notte.
Stanchi son essi, nè pensiero alcuno
Danno alla propria sicurtà; ma certo
Vel daran riposati.

                      sebastiano.
                             In questa notte
Dunque: e basti così.
           (Una musica strana e solenne.)

PROSPERO invisibile in alto. Varie figure di forma
    bizzarra portano sulla scena un banchetto, e
    facendovi una danza in giro, con atteggiamenti
    e saluti cortesi invitano il re e gli altri a cibarsi;
    poi si scostano.

                       alonso.
                             Quale armonia!
La udite, amici miei?

                       gonzalo.
                               Maravigliosa
Musica!

                       alonso.
              O Ciel, ne manda Angeli buoni!

Chi mai sono costor?

                      sebastiano.
                              Viventi automi!
Crederò, Signor mio, da questo giorno
Che vi sieno unicorni, e che germogli
Nell’Arabia una pianta ove l’augello
Che rinasce e rimuor s’assida in trono,
E vi regni tutt’ora.

                       antonio.
                             E piena fede
Anch’io vi presterò; chè se qualcuno
Credermi ricusasse, a me si accosti,
E sacramento gli farò che vera,
Verissima è la cosa. Una menzogna
Non fu scritta giammai da chi viaggia,
Sebben certi baccelli accovacciati
Dentro il loro stambugio altro concetto
N’abbiano.

                       gonzalo.
                   Se tal caso al mio ritorno
Narrassi, in tutta Napoli, nessuno
Mel crederebbe; e se dicessi: Io vidi
Tali isolani (e certo abitatori
Dell’isola son questi) urbani assai,
E benchè di deforme e strano aspetto,
Pure e negli atti e nei costumi ammodo
Più che molti de’ nostri.

                       prospero.
                          (da sè).
                                     È ver, buon vecchio;

Giacchè pur qui fra voi talun si trova
Peggior d’ogni demonio.

                       alonso.
                                     Io non so dirvi
Lo stupor che mi prese a quelle forme,
A que’ gesti, a quel suono. Ancor che privo
Di parola, stupenda è la chiarezza
Del lor muto linguaggio.

                       prospero.
                       (fra sè e sè).
                                      Al fine, amico,
La tua lode riserba.

                      francesco.
                              Affè bizzarro
Fu quel loro sparir.

                      sebastiano.
                               Chi se ne imbriga?
Ne lasciar le vivande, al nostro lungo
Digiun bene opportune. A voi non piace
Farne saggio, o mio re?

                       alonso.
                                    No.

                       gonzalo.
                                         Qui non veggo
Cosa che ci sgomenti. E qual di noi,
Quando bimbi eravam, creduto avrebbe
Che vi fosse nei boschi una genìa
D’uomini, a cui pendesse una giogaja
Similissima in tutto all’adiposa
Che fascia il collo ai tori? o che vi fosse

D’umane crëature un tal germoglio
Col capo uscente dal torace? Eppure
L’un su cinque oggidì dei pellegrini
Fassi mallevador di somiglianti
Meraviglie.

                       alonso.
                   Sia pur! m’assido a mensa,
E le vivande gusterò. Non fosse
Che per l’ultima volta, a me che monta?
I miei begli anni già passar.... Fratello!
Duca! fate altrettanto.
                     (Lampi, tuoni.)


Entra ARIELE in figura d’Arpia, sbatte le ali
    sulla mensa, e in singolar modo sparisce il
    banchetto.


                        ariele.
                                         Una ribalda
Triade voi siete, e quel destin che regge
Questa umil terra e quanto in sè raguna
Fece voi ributtar su questa piaggia,
Deserta dalla ingorda onda del mare,
Che mai sazio non è, come non degni
Dell’umano consorzio. ― Io v’ho confusi!
(vedendo Alonso, Sebastiano e gli altri metter mano alle spade)
Una temerità pari alla vostra
Mena l’uomo al capestro o in mar lo affoga.

Noi del Destino (i miei compagni ed io)
Ministri siamo. O stolti! il brando vostro,
Di terrene sustanze, un’orma forse
Stampar nella sonante aria potria?
Ferir forse la voce? Impiagar l’onda
Che per propria virtù, divisa a pena,
Si ricongiunge? Or ben, così potreste
Spiccar dall’ali mie solo una piuma.
E manco invulnerabili non sono
Gli Spirti a me compagni. E dato ancora
Che giugneste a ferirci, enorme peso
Vi sarieno le spade, e vi morrebbe
Nell’alzarle il vigor. ― Vi risovvenga
(Questo è il messaggio mio) che da Milano
Voi tre, con arti scellerate, il buono
Prospero allontanaste, ed in balìa
Lo metteste del mar colla innocente
Sua pargoletta; e il mar con pena eguale
Di quel misfatto vi punì. Le arcane
Posse del ciel che indugiano talvolta,
Ma non obbliano la vendetta, han mari
Contro voi sollevato, han rive, han tutto
L’animato universo. Il figlio, Alonso,
Già te l’hanno rapito, ed annunciando
Ti van or col mio labbro una ruina
Lenta, incessante, e peggior d’ogni morte,
Che te di passo in passo e quanto è tuo
Distruggerà. Voi tre dall’ira eterna,
A scoppiar già vicina in questo ignoto
Lido sui capi vostri, altro non salva

Che pentimento del misfatto e pura
Vita nell’avvenir.

Allo scoppio del tuono Ariele dispare. Ritornano,
    accompagnati da soave musica, i fantasimi e
    danzando, come sopra, con bizzarri e scherzevoli
    atteggiamenti portano via la mensa.

                       prospero.
                         (da sè).
                           Rappresentasti,
Mio gentile Arïel, mirabilmente
La tua parte d’Arpia. Con grazia molta
Tu sapesti imitar l’augel vorace,
Nè cosa alcuna ti sfuggì di quanto
Presagir t’accennai. Con pari acume
Ogni Spirto minore il vario incarco
Che gli detti adempì. Ben singolare
La destrezza ne fu, la maestrìa!
Della possente incantagion mi sono
Manifesti gli effetti. I miei nemici
Tutti il laccio avvinghiò della follia,
Tutti son essi in mio poter. Lasciamli
Nel delirio febbrile; e di Fernando,
Che credono sepolto in fondo al mare,
E di lei mia non pur che sua dolcezza,
Or si vada a cercar.
        (Prospero scende dall’altura e parte.)

                       gonzalo.
                              Signore! in nome

Di tutti i Santi, che stupor vi prende?
Perchè quegli occhi stralunati?

                       alonso.
                                              O caso
Mostruoso, terribile! Parea
Che lingua avesse il flutto, e mi parlasse
Di Prospero! Parea che la minaccia
Mi soffiassero i venti, e il tuon, sonoro
Organo, con distinta e cupa nota
Mormorasse quel nome e il mio delitto.
L’origlier di mio figlio è dunque il basso
Limo del mar? Laggiù, laggiù cercarlo,
Ove scandaglio non arriva, io bramo.
Sì, corcarmegli a fianco, ed in eterno
Rimanermi con lui.

                      sebastiano.
                             La ciurma intera
Vincerò dell’inferno, ove m’assalga
Un demonio alla volta.

                       antonio.
                               E me compagno,
Principe, avrai.
          (Sebastiano ed Antonio partono.)

                       gonzalo.
                          Son preda ad un profondo
Disperar tutti e tre. La colpa loro,
Pari a lento veleno, ora incomincia
A roderne lo spirto. ― O voi che piedi
Agili avete più di me, la traccia
Seguitene, vi prego, e le funeste

Cose che cagionar quello scompiglio
De’ lor sensi potria, con amorosa
Opra sviate.

                       adriano.
                    Andianne, amici miei.
                       (Partono.)






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