< La testa della vipera
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XV XVII

XVI.

Quando Alberto ebbe udito i particolari del tentato delitto di Emilio, fu assalito da tanto sdegno, che si pentì di non averlo addirittura strozzato, quel mostro; protestò che ogni maggior vendetta sarebbe stata poca a tanta scelleraggine, e giurò che il domani l’avrebbe ammazzato come un cane.

Allora fu un altro strazio, un altro sgomento per Matilde. Alberto contro Emilio camminava ad una morte sicura: era la felicità, era la vita di tutta la famiglia che venivano tronche. Supplicò essa, scongiurò con lagrime, convulsa, impazzita, perdendo i sensi. Che un essere come Emilio era indegno di avere a fronte un uomo d’onore; che si doveva disprezzarlo, che ben altri doveri più sacri comandavano ad Alberto di astenersi da quel duello; ad Alberto marito e padre. Non pensasse pure a lei... Essa sarebbe morta di dolore senza fallo, nulla le avrebbe impedito di seguirlo nella fossa; ma pensasse ai figli, bambini tutti, che sarebbero rimasti al mondo senz’altro sostegno che uno zio troppo giovane e il nonno vecchio e malaticcio. E ancora, questi avrebbe egli resistito a una sì fiera catastrofe? alla perdita del genero e della figliuola?... Tutte queste ragioni torturavano il cuore d’Alberto; ma il suo giusto furore era troppo perchè egli potesse accogliere l’idea di lasciare impunita la iniquità di quel traditore.

— E poi, egli soggiunse, credendo con ciò convincere Matilde dell’assoluta necessità d’uno scontro. Tu l’hai udito! Se non vado io da lui, sarà egli che mi chiamerà sul terreno; e vorresti tu ch’io commettessi la viltà di rifiutarmivi?

— No, non è viltà! esclamò la donna. Sarà anzi forza di carattere...

— Egli è capace di provocarmi in modo da farmi spregevole in faccia alla gente...

— Quando la gente sappia...

— Oh no, per Dio!... La gente non ha da saper nulla. Tutto questo deve rimaner sepolto fra di noi. Lo voglio ad ogni modo... E di resistere alle sue provocazioni no, non me ne sento la virtù. Per quanto ti promettessi, sotto un suo insulto, giuro al cielo! il sangue mi bollirebbe nelle vene... e... e forse mi perderesti tu stessa la stima, se così non fosse.

Matilde si attaccò ad una lieve speranza che le parve si presentasse...

— Or bene, sia... Provocato ancora... capisco... ma se egli non facesse più un passo, se invece si allontanasse...

— È impossibile...

— Chi sa!... Io pregherò tanto il buon Dio... Se ciò fosse, promettimi che tu non cercherai altrimenti di lui... Oh, promettimelo, per l’amore che ti porto, pel nostro tanto amore... per l’amore de’ tuoi figli...

Alberto, commosso, spaventato sopratutto dagli accessi di convulsioni e dagli svenimenti che seguivano gli scongiuri respinti della povera donna, finì per cedere e promettere.

Era giunta l’alba: il vecchio Danzàno, trasportato sul suo letto dal figliuolo e dal genero, continuava nel suo letargo; tutte quelle ore passate di spasimo avevano affaticato all’estremo Matilde; la promessa strappata finalmente al marito era riuscita da ultimo a quietarne alquanto l’animo.

Ella non sapeva come; la sua mente confusa e il cervello stanco non potevano per allora suggerirgliene un modo, ma in nube aveva l’intima speranza che essa avrebbe potuto ottenere l’intento: Emilio s’allontanasse, e tutto fra lui ed Alberto fosse finito. Ai primi raggi del giorno, ella s’addormentò.

Il marito la guardava con profondo intenerimento nell’anima e le lagrime negli occhî.

— Povera donna! egli pensava. Potesse almeno dormire finchè io le ritorni sano e salvo!... Ma ritornerò io?... più facilmente no!

Un grande scoraggiamento lo invase, una gran debolezza gli occupò il cuore. Solo con sè stesso, in presenza di quell’amata donna che dormiva, presso a’ suoi figli, che dormivano ignari del pericolo che incombeva sulla famiglia, tutto il suo solito coraggio svanì; egli ebbe paura.

Poi tosto un nuovo e maggiore sdegno venne a risollevarne l’animo.

— Ma è possibile, è permesso che uno scellerato riesca a turbare la quiete, a minacciare l’esistenza d’un’onesta famiglia, e che la vita d’un marito, d’un padre, la sorte e l’avvenire di innocenti creature abbiano ad essere in balìa d’un mascalzone qualunque? Dove sarebbe la giustizia di Dio?

L’occhio suo si posò più intensamente affettuoso sul dolce viso della moglie addormentata. Ogni traccia d’inquietudine era passata da quei leggiadri lineamenti, e un lieve sorriso aleggiava sulle labbra semiaperte.

— Sarà meglio, disse Alberto a sè stesso, che io m’allontani mentre essa dorme. Al suo risveglio nuove lagrime, nuove preghiere a trattenermi, commuovermi, indebolirmi. Andiamo.

In quella, Cesare cautamente mise il capo dentro dell’uscio. Alberto gli fe’ cenno di non inoltrarsi, e s’affrettò a raggiungere il cognato nell’altra stanza.

— Che cosa c’è? gli domandò.

E Cesare gli porse un bigliettino, che disse essergli stato rimesso allor allora dal servo del Lograve.

Alberto lo prese e lo lesse.

«A Cesare Danzàno,

«Le brighe, come quella che ora passa fra me e il signor Nori, mi piace finirle presto. Aspetto senza ritardo Cesare Danzàno colle istruzioni del signor Nori, così che tra un’ora tutto sia finito.»

— Ebbene? domandò Cesare, quando Alberto ebbe letto.

— Ebbene, rispose Alberto, vacci subito, e accetta tutte le condizioni che egli proporrà, quando, s’intende, non sieno più vantaggiose per lui. Io esco subito di casa, e t’aspetterò colla risposta presso al pilone di San Giacomo. Fa di stabilire là vicino, che è luogo isolato, dove a quest’ora non passa anima viva, il terreno dello scontro.

Cesare, di gran malavoglia e con molta agitazione nell’anima, si recò presso Emilio.

Alberto rientrò pian piano nella camera, andò a dare uno sguardo ancora ai figli addormentati, di cui lievemente, ma con crudele strazio del cuore, baciò la fronte, e diede poscia anche a Matilde un bacio leggiero leggiero, in cui però c’era tutta l’intensità del suo affetto; passò nel suo studiolo, dove s’armò d’una rivoltella a sei colpi, carica, e si avviò lentamente verso il pilone, dove aveva dato convegno a Cesare.

Emilio neppure non aveva passato sopra un letto di rose le ore che avevano tramezzato fra la sua uscita dalla villetta e l’invio del suo biglietto a Cesare. L’ira e la umiliazione della sua sconfitta, la vergogna delle ricevute percosse ne avevano ancora accresciuto l’odio e la smania della vendetta. Non aveva chiuso occhio, non aveva neppure provato a gettarsi sul letto, nemmeno seduto non aveva potuto stare; un’agitazione febbrile gli concitava muscoli e nervi, cuore e cervello. Aveva passeggiato su e giù, bestemmiando, imprecando, minacciando, si era compiaciuto di passare in rivista una per una tutte le sue rivoltelle, delle migliori fabbriche inglesi, eccellenti, infallibili tutte nella sua mano esercitata. Quante volte aveva spianato or l’una or l’altra a mira, imaginandosi d’aver a giusta distanza l’odiatissimo avversario, ed aveva fatto un sogghigno di trionfo nella certezza di gettarlo a terra col cranio fracassato!

Il tempo gli tornava lungo e pesante, maledisse gli indici dell’orologio che camminavano così lentamente; mandò un’esclamazione di gioja, quando vide alla fine una striscia bianca all’orizzonte annunziare la venuta del giorno. Scrisse sopra un foglio di carta una dichiarazione (e vedremo presto quale), poi il biglietto che mandò subito a Cesare, e stette aspettando impaziente.

La faccia di Emilio, di color verzigno, corsa dalle righe sanguigne delle graffiature, era così contratta, che a Cesare fece quasi ribrezzo e poco meno che paura.

— Che cosa avete da dirmi? domandò asciuttamente Emilio ritto presso la tavola su cui erano il foglio scritto poc’anzi e le armi.

— Che Alberto accetta qualunque condizione, rispose Cesare, per quanto grave essa sia, purchè non a svantaggio d’uno degli avversarî.

— Va bene. Ci batteremo subito.

— È appunto l’intenzione di mio cognato. E anzi questi è già andato ad aspettare presso il pilone di San Giacomo.

— Benissimo: il luogo è adattissimo e ci batteremo colà. Sentite! Perchè le armi sieno uguali, voi sceglierete fra tutte queste, che sono compagne, quella che vi parrà la migliore, e la porterete a... al vostro primo. Armato ciascuno di una di queste rivoltelle a sei colpi, ci metteremo, lui al pilone, io al ponte del torrente. Di là, a un segnale che darete voi, ci cammineremo incontro colla facoltà di sparare i nostri sei colpi quando e come ci piacerà, e di avanzarci tanto che, se nessuno cade, arriviamo a metterci la canna al petto e sparare a bruciapelo. Se uno dei due, soggiunse col suo selvaggio sogghigno, potrà tornare a casa co’ suoi piedi sarà stato ben fortunato... Vi va?

Cesare, perplesso, confuso, con un grande turbamento nell’animo e nel cervello, stette lì, senza sapere che rispondere. Egli non era abbastanza esperto, e non aveva bastante freddezza di mente per vedere come un gran vantaggio vi fosse per Emilio in quei patti. La distanza in cui si dovevano porre i duellanti era fuori del tiro delle rivoltelle, camminando l’uno verso l’altro gli avversarî sarebbero entrati poi nel campo del tiro; ora Emilio, dall’occhio praticissimo a misurare le distanze, appena Alberto sarebbesi trovato al punto da poter essere colpito, mercè la sua sicurezza di mira, l’avrebbe fulminato; mentre Alberto, se avesse pure voluto sparar prima, non avrebbe fatto che sciupare il suo colpo.

— E voi? riprese Emilio, dopo avere aspettato un minuto. Avete pur detto che... colui avrebbe accettato ogni condizione!

— Sì, è vero, balbettò Cesare, ma...

E l’altro, senza lasciarlo continuare:

— Non avremo altro testimonio che voi. Credo che piaccia anche al vostro rappresentato che non ci ficchino il naso persone estranee. E siccome, se mai uno di noi n’esce salvo, può avere delle noje dalla giustizia, io ho pensato di redigere questa dichiarazione, cui ciascuno di noi si metterà in tasca, e che salverà da ogni fastidio il superstite. Sentite!

E lesse:

«Per motivi miei particolari, che saranno sempre un segreto per tutti, e che prego tutti di non volere investigare, io mi trovo spinto a uscire di questa vita. Dichiaro che nessuno deve incolparsi della mia morte, e prego di perdonarmi coloro a cui questa sarà un dolore.»

— Il signor Nori scriverà questa dichiarazione tale e quale, ci metterà la data colla sua firma, come ho fatto io, e la terrà in tasca al pari di me. Il cadavere di colui che cadrà sarà lasciato lì sul posto, e quando sarà raccolto presso la giustizia questo scritto farà il suo effetto.

Cesare stette un po’ a pensarci, penosamente imbarazzato.

— E se ci rimanete tutt’e due?... disse poi.

— Eh, allora, rispose Emilio col suo solito sogghigno, tu che sarai il solo superstite cercherai il modo d’aggiustarla, e il fisco non potrà d’altronde molestare nessuno dei due.

Cesare scosse tristamente il capo.

— A una cosa simile non si è affatto pensato, e io non so se Alberto sia disposto ad acconsentire. Bisogna assolutamente ch’io gliene parli.

Emilio crollò impazientemente le spalle.

— O mio Dio! che scrupoli fuor di luogo. Il signor Nori dev’essere contento ancor egli di cosa che lo mette al sicuro da una responsabilità piuttosto grave... Ma sia come volete... Per non perder troppo tempo, facciamo così: portate la dichiarazione al signor Nori; s’egli non affaccia nessuna difficoltà, la ricopia, la firma, e se la ritiene. Se rifiuta, voi verrete subito a dirmelo, e io allora lo inviterò a passare la frontiera ed andarci ad ammazzare in Isvizzera. Sono le sei: aspetterò fino alle sei e mezza: se non siete venuto, vuol dire che mi aspettate senz’altro al luogo del convegno, e io mi vi recherò sollecitamente.

— Va bene, rispose, accennando ad avviarsi Cesare, il quale non vedeva l’ora di esserne fuori.

— E non prendete copia della dichiarazione?

— Ah! è vero.

Cesare sedette al tavolino per iscrivere; ma la mano gli tremava talmente che le parole gli riuscivano sgorbi poco intelligibili.

— Aspettate che ve la scrivo io più in fretta, disse Emilio, ghignando a suo modo.

E in due minuti, con mano ferma egli ebbe scritto quelle righe, che consegnò a Cesare.

— E intanto, soggiunse, potete prendere l’arma pel vostro mandante.

Il cognato d’Alberto ne esaminò due o tre, tanto per avere l’aria di fare una scelta; poi ne prese una che si mise in tasca.

— Ricordatevi! gli gridò Emilio, mentre Cesare stava per varcare la soglia. Se non siete tornato prima, io alle sei e mezza sarò al ponte; il signor Nori dovrà trovarsi al pilone. Scorretto chi ritarda; vile chi manca! A rivederci.

E volgendo le spalle a Cesare che partiva, egli rientrò nel salotto.

Cesare s’affrettò a raggiungere il cognato che già stava aspettando al pilone. A tutta prima Alberto non trovò obiezioni da fare alle proposte dell’avversario, e parve anche a lui che quello della dichiarazione fosse un prudentissimo partito per tenere nascosto alla gente il dramma domestico, per togliere dalle peste il superstite dei duellanti. Ma dove andare a scriverla quella dichiarazione? A casa no, perchè sarebbe andato incontro a quella scena di separazione straziante da Matilde, ch’egli voleva assolutamente evitare. La casa più vicina, di cui si potesse prevalere, era quella del parroco: Alberto decise di correre colà a preparare il documento.

— Tu rimani qui, disse al cognato. Spero fare in tempo da tornarmene prima che quell’altro arrivi; ma se mai dovessi tardare, tu sarai qui a spiegargli la mia assenza e assicurarlo che non avrà molto da attendere.

Così fu fatto. Cesare rimase di sentinella al pilone, e Alberto s’avviò di buon passo verso la casa del parroco. Giunto colà, dovette aspettare un poco prima che la serva, allor allora alzatasi, venisse ad aprirgli; poi, quando fu venuta, fatte le cento meraviglie per quella visita così mattutina, la buona donna disse che il suo padrone era ancora a letto, anzi ella credeva dormisse, ma che il signor Nori avesse la bontà d’aspettare, ed ella sarebbe andata tosto ad avvertire il padrone, svegliandolo, se occorreva. Alberto non ebbe poco a dire per farle comprendere che era inutile svegliare il sor prevosto, al quale egli non aveva nulla da comunicare, che desiderava solamente avere un pezzo di carta, penna e calamajo per iscrivere quattro righe per una certa sua bisogna di premura, la qual cosa egli avrebbe potuto fare senza disturbare nessun altro, quando essa, la serva, lo introducesse un momento nello studiolo del padrone.

Era quindi passato più d’un quarto d’ora, quando Alberto potè sedere alla scrivanìa parrocchiale e cominciare a scrivere: ma rileggendo così più attentamente, come richiede l’azione del ricopiare, quella dichiarazione, Alberto non la trovò più così accettabile, anzi gli parve che e la scritta in sè stessa, e i termini in cui era redatta, non convenissero affatto.

— Tutti sanno la felicità di cui godo, pensò, tutti conoscono l’amore, la pace che regnano nella mia famiglia, le fortunate condizioni che ci permettono un’agiata esistenza. Quali ragioni particolari potrei avere da odiare la vita che tanto mi sorride? O non sarò creduto, o si giudicherà, che questa mia felicità è un inganno e che io la smaschero colla più orribile smentita. Getterò ancora una nota di biasimo alla mia adorata Matilde, agli adorati figli miei. Insieme al crudele dolore che cagionerò loro, lascerò ad essi per ultimo addio un rimprovero che procurerà a quei cuori amorosi un immeritato rimorso. E ciò per salvare dagli impicci quel miserabile? Oh, no, mai, mai!

S’alzò risoluto, stracciò in minutissimi pezzi e il foglio che gli aveva rimesso Cesare e quello che egli aveva già scritto, e fece per partire: ma ecco sulla soglia dello studiolo medesimo fermarlo, sopraggiungendo, il parroco.

Alla serva era parso un troppo gran fallo lo avere introdotto in casa un signore di quella sorte e non avvisarne il padrone, cui ella sapeva aver tanta deferenza per quel signore: e il parroco s’era affrettato a vestirsi per correr giù a complimentare il mattiniero suo parrocchiano e offrirgli i suoi servigî. Alberto dovette impiegare dieci buoni minuti per dire al buon prete quel ch’era venuto a fare e che aveva già fatto e per cui lo ringraziava, e se ne partiva senz’altro, avendo un affare di premura da sbrigare. Ma sì! Alla virtù capitale del parroco pareva una colpa il lasciare partire il signor Nori così a bocca asciutta: ed ecco offrirgli caffè e rosolî e ogni fatta di bibite, e ripetere e trattenerlo con quell’insistenza che dai campagnuoli è creduto debito di cortesia, così che quando Alberto potè liberarsene e lasciare la canonica, guardato l’orologio, vide che le sei e mezza erano passate da cinque minuti.

Corse al luogo del convegno e respirò vedendovi Cesare solo. Emilio non s’era ancora veduto.

— Or bene, va tosto da lui, disse Alberto affrettatamente al cognato, e digli che della sua dichiarazione io non ne voglio assolutamente sapere. Preferisco andare a battermi in Isvizzera. E riportagli la sua rivoltella, che non me ne voglio servire. Ne ho una anch’io di sei colpi, e preferisco d’usare la mia. Va, e fa presto; ti aspetto sempre qui.

Cesare partì di buon passo e Alberto si diede a passeggiare su e giù dal pilone al ponte, trovando eterni i minuti che passavano. E ce ne passarono in verità molti più di quello che Alberto si aspettasse, tanto che l’orologio, dicendogli trascorsa omai mezz’ora, smarrita la pazienza, egli stava per abbandonare il posto e andare a vedere che cosa fosse successo, quando vide Cesare che tornava correndo: ma egli era solo.

— E così? gli gridò Alberto appena Cesare fu a un punto dove gli arrivava la voce. Che cosa risponde?

Ma Cesare, affannato, con segni vibrati che supplivano alle parole, cui per lo strafiato non poteva profferire, gli fece intendere che qualche cosa di nuovo era capitato, e qualche cosa di grosso, per cui egli era tutto sossopra.

— Che cosa c’è? Che cos’è stato? domandò Alberto ansiosamente.

— Ah! vieni, vieni subito, gli disse Cesare. Matilde ha preso male.

— Matilde! esclamò Alberto turbatissimo.

— Sì. Ha delle convulsioni... del delirio... dice parole che non si capiscono... ti chiama...

Alberto si mosse tosto con impeto: ma poi si fermò.

— E quell’altro?

— Ah! non l’ho visto.

— E se viene?

— Non credo che verrà.

— Perchè?

Vieni, vieni ti racconterò.

E andando tutt’e due di buon passo verso casa, Cesare raccontò come, arrivato alla vista della villetta e del palazzotto, aveva visto Matilde che vacillante stava per entrare in casa, quando, assalita da subito malore, cadeva sulla soglia... Egli era corso a sollevarla, e, ajutato dalla cuoca, che a forza di chiamare aveva fatto accorrere, l’aveva trasportata sul letto svenuta. Là, pei soccorsi prestatile, dopo un poco Matilde era tornata alla vita, ma non in cognizione, perchè vaneggiava con isconnesse, incomprensibili parole, chiamando tratto tratto con istraziante voce di preghiera il marito. Cesare aveva pensato necessario il venire ad avvertire Alberto senza indugio. Quanto a Emilio, aggiungeva, dovergli essere sopravvenuto qualche cosa perchè uscendo di casa egli aveva udito il domestico mandare esclamazioni di meraviglia e di spavento e domandare ajuto, ma Cesare affermava di aver troppa premura di venire dal cognato per fermarsi a chiedere che cosa fosse avvenuto.

I due cognati arrivarono correndo alla villetta e furono di balzo nella camera di Matilde.

Alla voce del marito che la chiamava, la giacente si riscosse, aprì gli occhî, la luce dell’intelligenza tornò a brillare in essi; ed esclamando con immenso affetto: — Ah! mio Alberto, mio Alberto! essa gli gettò le braccia al collo e ruppe in un pianto dirotto da cui ebbe subito grandissimo sollievo.

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