< La testa della vipera
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XIV XVI

XV.

Lisa non s’era acchetata. Mentre Battista badava a far correre il cavallo con ripetute frustate, la fanciulla veniva tempestando il compagno di domande, di supposizioni, di preghiere.

La sua accortezza di donna le aveva fatto capire le intenzioni del Lograve. Era la signora Matilde abbandonata, senza difesa; la buona signora Matilde tradita per quel denaro. Lisa si rivoltava contro tale iniquità.

Quella signora, tutta quella famiglia, non avevano fatto che del bene a loro due. Come aveva potuto dimenticarlo Battista?

Ah! la signora Matilde bisognava salvarla. Lisa voleva tornarsene indietro, gettare in faccia a quello scellerato il suo denaro e lui fuori dalla finestra. Quel denaro, prezzo di tanto delitto, avrebbe loro recato sfortuna. Ella pregava, scongiurava, imprecava.

Battista non rispondeva nulla, non badava che a far correre il cavallo; ma frattanto anche nel suo animo, già travagliato da un’intima scontentezza di sè, le parole di Lisa riuscivano a far nascere il rimorso.

Rinunziare a quella somma che teneva in tasca e di cui palpava di quando in quando la grossa busta, quasi a persuadersi di realmente possederla; rinunziare a Lisa, alla vita felice che aveva sognata e cui credevasi pervenuto a procurarsi, no, non poteva; ma se ci fosse pur modo di soccorrere la signora Matilde!...

Il cavallo correva sempre. Già si vedevano le prime case del villaggio di X, presso il quale bisognava passare per giungere alla frontiera. Tutto il villaggio era immerso nell’oscurità, fuori d’un’elegante villa, appartata dal resto dell’abitato. Era la villa degli ospiti di Alberto e di Cesare, dove aveva luogo il ballo. Una subita idea attraversò la mente di Battista. Un difensore, un salvatore della signora Matilde era trovato: il marito che se ne stava tranquillo a quella festa. Lo disse alla Lisa.

— O Dio! esclamò questa: ma i due uomini si sbudelleranno...

— Che! notò Battista. Il signor Alberto con un pugno schiaccierà quella cimice del Lograve.

— Ma si arriverà in tempo?

— Ah! esclamò Battista allargando le mani e curvando le spalle per indicare che questo sarebbe stato il compito della Provvidenza.

Fermò il cavallo e diede le redini alla Lisa.

— Aspetta qui due minuti... Vado e torno.

— Che cosa vuoi fare?... Cosa vuoi dire al padrone?

— Non lo vedrò neppure... Lo farò avvertire... Lascia, lascia fare a me.

E prese la corsa verso la villa illuminata. Arrivò nell’atrio di questa, ansimante e con aspetto turbatissimo, così che il domestico della casa in cui s’incontrò, prima stentò a riconoscerlo, e poi si sgomentò nel vederlo a quel modo.

— Tu qui, Battista? A quest’ora!... Oh che cosa è avvenuto?

E il servo del Nori, mezzo trafelato:

— Di’ subito, ma subito, al mio padrone e al signor Cesare che corrano a casa... in fretta... senza il menomo ritardo... che corrano... ammazzino anche il cavallo... ma volino.

— Che cosa c’è?... Il fuoco?... La signora ha preso male?... Il padre della signora?

— Non farmi interrogazioni... va e fa la commissione subito...

— Ti faccio venir qui il padrone.

— No, no: io non posso fermarmi... Bisogna ch’io vada... mi raccomando... presto... presto per amor di Dio!

E senza voler aspettar altro, Battista voltò le spalle, e se ne andò correndo com’era venuto. Raggiunse il carrozzino, ci saltò dentro, riprese le briglie, e via di nuovo al galoppo.

Se Alberto e Cesare, udito di questa comparsa di Battista e delle cose da lui dette, si spaventassero, è facile a pensarci.

Imaginando chi sa quale disgrazia, fecero in un baleno allestire il biroccino, e sferzando spietatamente il cavallo, andarono verso la villa. Ma prima che vi giungessero, già era suonato il tocco al campanile del villaggio.

Matilde non avrebbe saputo dire da quanto tempo dormisse o meglio fosse assopita, quando si sentì scuotere come da un interno commovimento, da un intuito instintivo che l’avvisasse d’un imminente pericolo. Si drizzò a sedere, volse intorno gli occhî spalancati, vide un uomo che entrava cautamente in camera, si fermava come incerto del da farsi. Un grido le venne alle labbra, ma lo soffocò, perchè, coraggiosa com’era, serbando la calma dello spirito, pensò allo spavento che ne avrebbero avuto il padre, vecchio e malaticcio, e i bambini che dormivano lì presso. Si gettò giù dal letto, e, riparata dalla tenda dell’alcova, indossò in fretta e in furia una vestaglia da camera che la copriva da capo a piedi, prima che l’intruso facesse un atto o dicesse una parola. Poi essa afferrò il cordone del campanello allato al capoletto e gli diede una violenta strappata.

Emilio, nell’oscuro dell’alcova, s’accorse che la donna s’era mossa, ma non potè vedere quel che avesse fatto; di colpo la vide, tutta coperta di quella vestaglia, sbucar fuori dalle tende e correre verso la camera dei bambini. L’idea di Matilde era precipitarsi colà, chiudersi dietro l’uscio a chiave, chiamare soccorso, e ad ogni modo difendere i suoi figli.

— Matilde! disse Emilio con voce sommessa e per quanto potè soave. Non ispaventarti... Sono io.

La giovane donna si fermò.

— Tu Emilio!... A quest’ora?... E come entrato? Che vuoi?

Le venne subito il sospetto del vero, e con questo sospetto un’ira che le accrebbe il coraggio. Le pareva che un tristo simile, sarebbe bastato ad annientarlo il suo disprezzo. Lo guardava con aria di sicurezza e di sfida, e quello sguardo, nella penombra, luceva stranamente.

Quello sguardo irritò ancora, se pure ne fosse bisogno, i feroci propositi di quello scellerato.

— Che cosa voglio? egli rispose. Te lo dico subito... Ma siccome non è cosa che si possa sbrigare in poche parole, se non ti dispiace, accenderò un lume, perchè possiamo vederci meglio in viso... e sederemo sul sofà per discorrere più comodamente.

Sul piano marmoreo del camino stavano due candelabri con quattro candele ciascuno. Emilio le accese tutte, poi si volse di nuovo a Matilde. Questa si teneva stretta al seno la vestaglia colle braccia incrociate ed aveva nel contegno, come in quello sguardo che già era balenato nell’ombra agli occhî d’Emilio, una fierezza sprezzante e indignata.

Era bellissima. La veste lasciava scoperta la base del collo, modellata a perfezione, da cui con tanta grazia si ergeva quella testolina leggiadra e ne appariva un poco del candore quasi abbagliante del petto; le braccia tornite, degne d’una statua greca, uscivano dalle maniche larghe, ricadenti; tutta la venustà della ben formata persona si scorgeva sotto le pieghe di quella veste che l’avvolgeva.

— Dove hai tu presa l’audacia d’introdurti in questo modo, a quest’ora, fin qui? diss’ella severamente.

— Dove l’ho presa? egli proruppe. Nel mio amore, che non solo è sempre vivo, ma è più forte che mai.

Matilde gli troncò la parola con un moto violento, e gridò con forza:

— Non una parola di più... Vattene!

— Andarmene così subito? domandò Emilio con insolente ironia. E puoi crederlo, Matilde? Non riconosco il tuo buon senso. Capisci che non sono giunto a questa riuscita senza aver vinto molte difficoltà, e che se ho voluto riuscirci è per ottenere qualche cosa di meglio di un tuo rabbuffo. Ora, che matto o che imbecille sarei, se, appena entrato, mi lasciassi così di piano mettere alla porta?... Oibò! Oibò!... Ci sono e ci resto.

E sedette tranquillamente sul sofà.

Matilde lo guardava con uno stupore che cominciava a farsi inquietudine.

— Sei matto o imbecille a credere che io tolleri più oltre la tua presenza, e stia qui a discuter teco.

E si mosse verso l’altro cordone di campanello che pendeva verso il camino.

Emilio diede in una sghignazzata.

— Ah, ah! la scena da dramma francese. Si suona il campanello; accorre un domestico tanto fatto, come Battista: «Accompagnate il signore.»

Matilde aveva dato una forte strappata al cordone.

— Tu straccerai inutilmente quel cordone, cara mia. Se non isbaglio, hai già suonato dall’alcova... Chi è venuto?... Ebbene, non verranno di meglio adesso. Suonassi fin domani, nessuno verrà... te lo assicuro io.

— Tu hai comprato i miei servi?

— Sicuro! Senza di ciò come potrei io essere qui?

Matilde si slanciò verso l’uscio del corridojo; ma Emilio sorse di scatto, le si gettò innanzi, e la fermò afferrandole colle mani ambedue le braccia.

— Che cosa vuoi fare?... Fuggirmi?... Impossibile.

Ella s’agitava per liberarsi; la veste le si aprì di più sul petto, e gli occhî di Emilio caddero sulle seducenti curve del seno; egli strinse viepiù quelle braccia, tanto da lasciare su quella morbida pelle il livido dell’ammaccatura, le abbassò di viva forza, si curvò su quel giovane femmineo corpo fremente, e stampò un bacio che pareva un morso sul candore di quella spalla.

Matilde gettò un alto grido di indignazione, di ribrezzo, di orrore. Fece uno sforzo supremo e riuscì a svincolarsi dalle mani di lui; lo respinse lontano da sè, e presa da un accesso di spavento si diede a gridare:

— Ajuto! Ajuto! Lisa! Battista! Babbo!

Emilio stava innanzi all’uscio del corridojo ad impedirle il passo.

— È inutile ogni tuo grido, ogni tua smania. Te l’ho già detto e te lo ripeto; nessuno verrà. Lisa e Battista, a quest’ora, sono lontani delle miglia, e tuo padre, ci vuol altro che la tua voce a destarlo.

Queste ultime parole fecero correre un brivido di angoscia per le vene di Matilde: ricordò la pozione notturna, l’odore strano, le goccie versate da Emilio. Si arretrò di orrore.

— Infame! gridò, tu hai avvelenato mio padre!

— Grazie della buona stima che hai di me: diss’egli con quel suo odioso sogghigno. Gli ho dato del soporifero che lo farà dormire quieto quieto fino alle otto o alle nove. E vedrai come egli se ne sentirà meglio.

— Babbo! babbo! gridò di nuovo Matilde disperatamente... Oh il mio povero padre!... Voglio vederlo.

Ma Emilio non si tolse dall’uscio.

— È inutile, disse, tanto e tanto non lo sveglieresti; e, se riuscissi a destarlo, gli nuoceresti assai.

— Non lo sveglierò, ma voglio vederlo... Ah babbo mio! babbo mio!

Ed ecco dalla camera vicina la voce del padre risponderle fiocamente:

— Matilde! che c’è!... Hai bisogno di me! Vengo vengo.

Matilde mandò un grido di gioja, Emilio si morse rabbiosamente le labbra.

— Ah! non ha bevuto! mormorò fra i denti.

In quel momento la moglie di Alberto non pensò ad altro, se non che la presenza del padre la salvava da ogni pericolo.

— Oh vieni, vieni, babbo: gridò.

— Che fai? le disse piano, ma con forza, Emilio. Come spiegheremo a tuo padre la mia presenza qui?... Ami forse le conseguenze d’uno scandalo?

— È vero... è vero: mormorò la povera donna. No, no: gridò verso l’uscio, non venire... non scender di letto... vengo io da te...

Ma già una mano si era posata sulla gruccia della serratura di fuori e accennava ad aprire la porta.

Emilio si gettò nell’alcova, dicendo a Matilde minacciosamente:

— Taci!... Non una parola... o guai!

E si nascose dietro le tende.

Il padre di Matilde entrò. S’era gettato addosso anche lui una veste da camera e veniva portando in mano la sua lampadina.

— Che cosa t’è capitato? domandò egli con inquieta premura.

— Nulla, nulla; rispose Matilde, gettandosi all’incontro del padre, e quasi cercando impedirlo d’inoltrarsi. Perchè sei venuto?... Scendere così di letto è un’imprudenza... Torna subito fra le coltri.

Ma il padre, insistendo benevolmente, s’avanzò nella camera.

— Non ne soffrirò... sta tranquilla... Come volevi che non venissi, sentendoti chiamare ajuto?... Ma dimmi, che cosa è stato?

— Nulla, nulla; ripetè Matilde. Un sogno... un cattivo sogno... Svegliatami in sussulto, ho gridato senza saper bene io stessa...

Il Danzàno andò a posare il suo lume sul camino.

— E tutti questi lumi accesi?

— Li ho accesi io... per levarmi la paura.

Il padre sedette sul sofà.

— Bene; starò un poco a farti compagnìa.

— Oh! adesso è tutto passato.

— Sei però molto turbata ancora.

— Ho paura che tu ne soffra. Piuttosto t’accompagno io nella tua camera, e sto là un poco al tuo capezzale... finchè tu ti sia riaddormentato... Quanto mi rincresce d’averti rotto così il sonno!

— Non ero mica addormentato del tutto... Ero in una specie di dormiveglia... Hai fatto male a non lasciarmi bere tutta la pozione preparatami da Emilio... Avrei certo dormito tutta la notte... Sarà meglio ch’io beva il resto.

— No, no, s’affrettò a dire Matilde. Abbi pazienza; quei soporiferi conviene usarli con molta moderazione... Intanto torniamo a letto... Vieni, t’accompagno.

Era pensiero di Matilde ricoverarsi così nella camera del padre e rinchiudendovisi con lui aspettare che il giorno venisse a liberarla. Ma il padre adagiandosi sul sofà, con una nuova compiacenza, disse:

— Aspettiamo ancora un poco... Ci si sta benissimo qui... Mi sento prendere da una certa stanchezza...

— Ragione di più per tornare subito in letto.

— È strano come la testa mi pesa...

— Vieni dunque...

— Andiamo.

Fece per alzarsi: ma in quella un subito pensiero attraversò la mente di Matilde. Ricoverata nella camera del padre, ella sarebbe salva; ma la camera dei figli era aperta, ed essi rimanevano in balìa di quello scellerato che aveva dato prova di essere capace dei più iniqui propositi.

— Un minuto: ella disse. Do un’occhiata ai bambini, e poi sono con te.

Prese il lumicino del padre, e corse di là a contemplare i suoi figli, quasi per attingere da quella cara vista nuovo coraggio, sangue freddo e forza. Tornando indietro rinchiuse l’uscio a chiave e questa si cacciò in tasca.

Poteva ora allontanarsi tranquilla. Ma mentre essa passava innanzi all’alcova, una voce sommessa, ma minacciosa, uscì dalle tende.

— Se tu non sei di ritorno qui fra un quarto d’ora, andrò io di là a pigliarti a ogni costo.

Ella rabbrividì; ma non un lineamento della sua faccia si alterò. S’accostò al padre con un sorriso.

— I piccini dormono... Vieni a fare tu altrettanto.

Il vecchio fece di nuovo per alzarsi, e non potè.

— È strana, balbettò con lingua impacciata, mi sento mancare le gambe... Oh come la testa mi pesa!... Ajutami.

Matilde lo prese per le mani e tentò trarlo su; ma egli a un tratto ripiombò di tutto il suo peso sul sofà, e la testa gli cadde sul petto.

— Babbo! babbo! esclamò Matilde, scuotendolo.

Non ebbe risposta; il vecchio immobile, cogli occhî richiusi, pareva morto.

— O Dio! gridò spaventata Matilde, egli è svenuto.

Una mano le si posò sulla spalla, e la voce d’Emilio, venutole presso, le disse all’orecchio:

— No, rassicurati; egli non è che addormentato. Il soporifero, di cui tu non gli hai lasciato bere che una parte, ha ritardato i suoi effetti; ma pure ei ne ha bevuto a sufficienza per averne un sonno che nulla potrà interrompere, hai capito? Nulla!

Toccò la fronte e il polso del dormiente, sollevò le palpebre e ne osservò la pupilla volta in su.

— Per sei ore almeno quest’uomo è segregato dal consorzio dei viventi.

Matilde se ne scostò fremendo; sentiva uno spasimo tale di odio, di rabbia, di orrore, che se le fosse bastato dire una parola per incenerire quello scellerato, essa l’avrebbe detta con voluttà.

Successe un momento di silenzio. Si guardavano fronte a fronte quei due, egli con la feroce impazienza della belva che si vede innanzi senza scampo la preda, essa con quell’accesso di aborrimento, in cui cominciava pure a entrare un’altra paura. Sentivano, sapevano ambedue che qualche cosa di orribile stava per accadere fra di loro; e parevano, lui esitare ad assalire, lei sperare col suo silenzio d’indugiare lo scoppio.

Quell’angoscioso silenzio fu rotto da Emilio.

— Tu lo vedi, Matilde: non c’è nessuno che possa venire a porsi fra noi; tu sei completamente in mia balìa.

— No! rispose levando fieramente il capo la giovane donna, con aspetto di maggior coraggio e sicurezza che non fossero in lei, ma col cuore che le palpitava da farle male. No, non sono in tua balìa: fra di noi v’è il sacro capo incanutito di questo vecchio. Mi difende mio padre.

Emilio ebbe un diabolico sogghigno.

— Bella difesa, disse, un uomo che non sente e che non vede!

E il tristo fece un passo verso la donna. Questa si gettò dietro una tavola a farsene riparo.

— Come! esclamò. Oseresti?

— Tutto! rispose con selvaggia energìa Emilio. Tutto, ti dico: e persuaditi bene che nulla... nulla, capisci... mi potrà fare rinunziare al mio proposito, nè impedirmi d’eseguirlo. Ah! tu mi hai respinto, disprezzato, amareggiato, abbeverato di fiele, con una crudeltà inesorabile... Hai tu creduto che il mio amore si estinguesse per l’ira e pel dolore? No; si è anzi rinfiammato viepiù, si è invelenito, inciprignito... è un amore feroce, che forse somiglia all’odio, ma che vuole soddisfazione... Da tanti anni ho vagheggiato questo momento; l’ho voluto e l’ho preparato, mi sono corrosa l’anima all’aspetto della felicità d’un altro, ho sofferto spasimi infernali, ho dissimulato, ho sorriso. Sono diventato agnello... E ora che tengo in pugno la mia vendetta, lo sfogo della mia passione, ora mi arresterei a quattro tue parolette, alle tue lagrime, forse al muto aspetto di quel vecchio addormentato? No. L’agnello scompare, si rivela il leone, e a nulla serviranno le tue preghiere.

— E chi ti dice che io voglia pregarti? proruppe con fierezza Matilde, riparata sempre dietro la tavola. Senti, Emilio! Fino da bambini, io ho indovinato in te un’anima scellerata. Da ultimo ho fatto forza al mio istinto che mi inspirava per te la più viva ripugnanza. Ho avuto torto... Ora ti odio e ti disprezzo... e piuttosto che subire pur l’ombra d’un tuo oltraggio, preferisco la morte.

— Frasi! frasi!.... Veniamo ai fatti! disse Emilio, che si slanciò verso di lei per afferrarla.

Ella, smarrita, spaventata, si diede a fuggire per la stanza; ed egli a rincorrerla coll’accanimento d’un segugio dietro la preda.

A un tratto l’idea venne a Matilde di salvarsi per la finestra.

Avesse anche dovuto uccidersi cadendo, si sarebbe ad ogni modo sottratta a quello scellerato. Corse, vi giunse; ma le invetrate erano chiuse; la sua mano, per l’agitazione, tremolante; e quando appena era riuscita ad aprire i vetri, il suo persecutore le fu sopra, e l’abbrancò alle spalle.

O Dio! la finestra! diss’egli con feroce scherno. Che vecchiume! Roba da romanzo di cinquant’anni fa... Via, via, non far pazzìe... Conserva una madre ai tuoi figli... e fa felice, almeno per un’ora, un uomo che fin da bambino ti adora.

Ella si voltò in una specie di parossismo di rabbia, che aveva vinta la paura.

— Lasciami! lasciami! gridò, e gli cacciò le mani nella faccia con tutta la sua forza, raddoppiata dal furore.

Emilio non potè trattenere un’esclamazione di dolore.

— Ah, maledetta!... Tu hai la bellezza d’un angelo, ma gli artigli d’un demonio... Angelo o demonio, io ti soggiogherò.

Successe una ignobile lotta: la povera donna si difese con tutta l’energìa di cui era capace; ma la stanchezza sopravvenne, l’emozione la vinse, il terrore l’invase: a un punto si sentì mancare ogni vigore, si sentì perduta. Mandò un grido acuto, quasi supremo appello di soccorso, e mezzo svenuta s’accasciò fra le braccia del suo nemico.

Egli, con un ghigno di trionfo, la trascinava verso l’alcova.

····················

Alberto e Cesare facevano galoppare senza interruzione a forza di frustate il cavallo giù per la strada deserta, presi ambedue da un’ansietà angosciosa e da una pungente paura, che s’accresceva ad ogni momento. In tre quarti d’ora giunsero al punto in cui dall’alto d’un poggetto vedevasi la villa: li sgomentò maggiormente, nella facciata scura, la finestra della camera coniugale vivamente illuminata. Poi videro di quella finestra aprirsi le invetrate, e due ombre, che non potevano discernere bene, agitarsi in quel quadro: una di esse Alberto era sicuro che fosse sua moglie. Nuove frustate fecero ancora più precipitare la corsa del cavallo...

Erano a pochi passi, quando udirono suonare in quella quieta aria della notte il supremo grido disperato di Matilde.

Alberto si precipitò dal biroccino. Cesare ne seguì l’esempio, abbandonando a sè il cavallo; corsero ambedue alla casa. Con mano convulsa il marito di Matilde aprì l’uscio di cui aveva seco la chiave, e su per le scale, in due salti fu alla soglia della camera da letto. Entrando vide in un batter d’occhio lo suocero disteso sul sofà come morto, e un uomo che trascinava il corpo inerte di Matilde. Colla rapidità della folgore, disarmato com’era, ma col coraggio e le forze raddoppiate dal furore, egli si slanciò su quell’uomo, lo afferrò al collo, poco mancò lo strozzasse, e lo avrebbe strozzato, se le braccia di Emilio abbandonando Matilde, questa non fosse caduta a terra. Ma essa aveva riconosciuto il marito, e un grido di gioja le uscì in quella dalle labbra col nome del suo salvatore.

— Alberto!

Questi lasciò il collo di Emilio, il quale invano tentava con mani convulse liberarsi da quella stretta; poi, dato un potente pugno sul capo al creduto assassino, Alberto si affrettò a sollevare la moglie.

Emilio, già vacillante per la soffocazione, da quel colpo sulle tempie fu mandato a rotolare tre passi in là sul pavimento.

Matilde, tornata in sè, gettate le braccia al collo del marito, si sentiva a rinascere, piangeva, rideva, non sapeva esprimere i suoi sentimenti che ripetendo quel caro nome:

— Alberto! Alberto!

Emilio, sbalordito, stette un momento immobile per terra: poi cominciò a sollevarsi del tronco, puntando una mano sullo spazzo. Innanzi a lui i due sposi abbracciati teneramente si baciavano.

Una rabbia, un furore inesprimibile si dipinse sulla figura di quel tristo; la faccia lacerata dalle unghie della donna e gocciante sangue, le guancie d’un rosso cupo e gli occhî che mandavano lampi di malvagità feroce, la schiuma che gli imbiancava la bocca fremente, lo rendevano orribile a vedersi. Nè anco Cesare che s’avanzava in ajuto del cognato, lo riconobbe.

Emilio, sostenendosi sempre colla mano sinistra, colla destra levò di tasca la rivoltella, e la puntò verso il gruppo di Matilde e di Alberto; ma non ebbe tempo di far fuoco, chè Cesare, venutogli di dietro senza ch’egli se ne accorgesse, di colpo gli afferrò con tutte e due le mani il polso, e il projettile deviato dalla scossa andò a piantarsi nel soffitto. Stringendo forte il braccio del cugino, Cesare gli fece cader l’arma di mano, e ratto se ne impadronì. Allora Emilio si volse, invelenito, a quel nuovo avversario, e Cesare lo riconobbe.

— Emilio! esclamò. Tu!

Emilio s’alzò lentamente: sotto le righe di sangue che gli solcavano la faccia, sotto le chiazze di cupo rossore che stavano sulle sue guancie, la carnagione giallognola era diventata verde.

— Emilio! ripetè Alberto attonito, volgendosi verso di lui. Possibile!

Il tristo levò con risoluzione la testa, e rispose impudentemente:

— Sì, sono io... Tu mi hai rapito la mia felicità, e io ho voluto contaminare la tua.

— Ah! sciagurato! gridò Alberto minaccioso, facendo un passo verso di lui.

Matilde lo trattenne al suo amplesso.

— Lascialo nella sua infamia! gli disse. Dio, che t’ha condotto a tempo a salvarmi, lo punirà meglio di quanto potresti far tu.

— Bene, sì! disse ghignando. Ti aspetto al giudizio di Dio, Alberto Nori. Io ti ho fatto il più fiero oltraggio che possa un uomo: tu mi hai percosso... qui sulla fronte... Per questo non c’è perdono, non c’è oblio... Tu mi devi odiare, io ti odio... Ti odio fin da quando eravamo in collegio... Già d’allora Dio ha punito la tua tracotanza per la mia mano... che ti ha spaccata la fronte con una pietra.

— Ah! fosti tu!

— Il mio odio, covato nel più profondo dell’anima, s’è accresciuto... da far spavento a me stesso.

Alberto riuscì a liberarsi da Matilde, fu sopra al suo insultatore, e colla robustezza della sua mano, cacciatagli sulla spalla, lo fece curvare a terra.

— Miserabile! gli disse. Dovrei schiacciarti come una vipera introdottasi nel seno della mia famiglia... Dovrei...

Levò la mano poderosa sul capo del tristo chinato innanzi a lui. Matilde venne a fermargli il braccio.

— No, Alberto! Non macchiarti al contatto di quel vigliacco.

— Vigliacco!... esclamò Emilio. Sia pure... Anche degli insulti di tua moglie, Alberto, hai da rendere ragione... E me la renderai... Non in questa ignobile gara facchinesca, in cui sei facilmente maestro: ma lealmente, in pieno giorno, faccia a faccia, colle armi alla mano...

— Oh, no! gridò Matilde, che ricordò tosto l’infallibile perizia di tiratore, che rendeva sicura la vittoria ad Emilio; no, egli è indegno.

Ma Alberto la interruppe:

— Di ciò non è questo il luogo, nè il momento di parlare... Per ora colui non ha che da levarsi dagli occhî nostri. Cesare, tu bada ch’egli esca, e chiudigli l’uscio alle spalle.

Emilio fece il suo ghigno, così perfido, così insultante, che in Alberto si riaccese il furore da quasi levargli la ragione.

— Oh, digli che parta! urlò terribilmente, o ch’io non mi trattengo più, e lo schiaccio come un verme.

Emilio s’avviò lentamente; quando fu sulla soglia si volse:

— A domani! disse, e partì.

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