< La testa della vipera
Questo testo è completo.
XIII XV

XIV.

Era una bella mattinata. Alberto e Cesare se ne partirono alla volta di X..., in biroccino, con un giovane cavallo buon corridore, che in meno d’un’ora si divorava quella strada. Emilio disse che avrebbe passato tutta la giornata alla villa per far compagnìa al padrino e alla cugina; e tenne la parola. Fu tutto attenzioni pel vecchio, tutto cortesìa per la giovane, tutto amorevolezza pei bambini. Soltanto più frequenti del solito scattavano dagli occhî suoi quegli sguardi accesi che parevano voler prendere possesso anche violento della bellezza di Matilde. Battista li colse al volo più volte e ad ogni volta e’ sentiva in sè stesso un rimescolìo che non sapeva bene se era rimorso, rabbia contro sè stesso e contro colui che l’aveva comprato. Intanto alla sua amante, senza rivelarle il come e il perchè, egli aveva assicurato d’avere i mezzi d’un comune avvenire di godimenti e di libertà e che per lei non c’era altro da fare che partirsene di nascosto con lui quella domenica a sera. A quell’amo ogni fanciulla di tal condizione sarebbe stata presa; e ad esso morse più facilmente la Lisa, innamorata, la quale fu subito pronta al gran passo e anzi impaziente di vederne arrivar l’ora. Battista invece, più s’avvicinava quell’ora, e più sentiva accrescere un interno disagio, una tormentosa inquietudine.

L’avvicinarsi d’un fatale momento, tante volte e per tanto tempo pensato, voluto con intensità di proposito e per ogni sorta di mezzi, poneva nel sangue d’Emilio un ardore febbrile, che, malgrado la forza dell’impostasi dissimulazione, tratto tratto rompeva la corteccia d’indifferenza per lampeggiare in quei certi cupidi sguardi. Matilde sentì una volta come una fiamma passarle sugli occhî: era uno di quei lampi delle pupille d’Emilio, che questi non aveva avuto tempo di spegnere, di riparare dietro le palpebre, sì improvvisamente ella s’era volta verso di lui.

Un gran turbamento invase l’anima della giovane donna; di colpo rinacquero in lei tutti i sospetti d’un tempo: la si fece subito nel contegno più fredda e più fiera, tenne sempre a’ suoi fianchi i bambini. Emilio non mostrò di accorgersene.

Alla fine del pranzo, al padrino che si lamentava della insistenza di certi incomodi, Emilio disse:

— Ciò proviene dalle notti insonni che lei passa. Quella pozione calmante ch’io le ho ordinato non le fa più effetto?

— Poco, rispose il padre di Matilde. Mi dà una buona calma per qualche ora, ma il sonno non viene, e a mano mano si ridesta l’agitazione.

— Vuol dire che il calmante è troppo blando: ne rinforzerò la dose. Questa notte voglio che ella dorma saporitamente d’un sonno solo fino alla mattina: e vedrà domani come se ne sentirà bene.

— Bravo! Ne ho proprio bisogno.

La sera Emilio fece la solita partita a scacchi col padrino. Alle nove Matilde andò a mettere a letto i bambini, e alle dieci il vecchio convalescente si ritirò nella sua camera per coricarsi.

Emilio ve lo accompagnò: lo ajutò con amorevole garbo a spogliarsi, salire nel letto, poi mescette in un bicchiere la pozione calmante e vi aggiunse parecchie goccie d’una boccettina che aveva in tasca.

— Beva! disse al padrino porgendogli il bicchiere.

Ma il vecchio scosse la testa.

— Non ancora, rispose. Ora mi sento tranquillo, voglio aspettare che incominci la inquietudine.

— E allora sarà troppo tardi... Creda a me: è meglio non lasciarla venire codesta inquietudine.

— Mi sento lo stomaco grave... Ho paura di non digerire la cena... Se mi caccio quel liquido nel ventricolo temo di non sopportarlo.

— No, no, disse con qualche impazienza il figlioccio; più tarda, e meno ne avrà l’effetto. Su, animo!

E porse di nuovo il bicchiere.

Ma per un capriccio di convalescente il Danzàno resistette.

— Lo piglierò più tardi, ti dico... Lasciamelo lì sul comodino.

Emilio ebbe un movimento di contrarietà che represse a stento: poi temendo, coll’insistere, di destar sospetti, depose il bicchiere e disse con mellifluo tono di amorevole rimprovero:

— Ha torto, padrino. Lei si ruba qualche ora di buon sonno... Ma almeno mi promette che lo prenderà?

— Sì, te lo prometto.

— Sicuro? sicuro?

— Eh diamine! Sai pure che mantengo sempre le mie promesse.

— Ci conto... Mi preme troppo il suo benessere.

— Caro Emilio!... Sta tranquillo; fra mezz’ora avrò bevuto tutto.

Il giovane, accomodato bene le coperte intorno al giacente, e datogli la buona notte, andò a raggiungere Matilde nel salottino.

— Vuoi tu vegliare ancora un poco? le chiese.

— No, ella rispose, sono stanca; vado subito a letto.

E suonò il campanello.

— E allora, soggiunse Emilio, non mi resta che augurarti la buona notte e andarmene... Tu andrai certo ancora a dare un bacio a tuo padre.

— Sì.

— Ebbene, non dimenticare di fargli bere la pozione che gli ho preparata... È indispensabile.

— Va bene.

Battista comparve sulla porta.

— Mandate Margherita a dormire, gli disse la padrona, dite a Lisa che venga da me e chiudete tutto.

— La cuoca, rispose il domestico, si è già ritirata lassù nella sua soffitta, e a quest’ora dorme che non la sveglierebbero i cannoni. Lisa verrà subito, e io chiudo ben bene, appena uscito il signore.

— Questo è un mettermi alla porta in modis et formis, disse Emilio ridendo. Pazienza! Ci vado; buona notte.

— Buona notte!

— E non mi tocchi nemmeno la mano? soggiunse lui che le aveva porta la destra.

— Sì, sì... addio!

Matilde toccò leggermente colla punta delle dita la palma ardente del giovane, e s’alzò per entrare ancor essa nella camera da letto. Emilio uscì seguito da Battista.

Non si parlarono fino a che furono sulla soglia dell’uscio di strada.

— Fra mezz’ora a casa mia! disse Emilio.

— Sissignore.

— Colla chiave!

— Sissignore.

Emilio si mosse; il servo lo trattenne per la falda dell’abito.

— E la somma? domandò,

— L’avrai nello stesso momento; non dubitare.

Lograve s’allontanò ratto, e il rumore de’ suoi passi presto si perdette nella notte che era oscura e nebbiosa.

Battista rimase sulla soglia a guardargli dietro finchè lo vide, sentì il rumore dell’uscio del palazzotto che si apriva e si richiudeva, poi rientrò, crollando il capo e masticando fra sè colla mala voglia di chi ha un gusto amaro in bocca.

Matilde entrò nella camera dei bambini. Essi dormivano così saporitamente e in così graziose mosse di abbandono, che un sorriso di beatitudine si disegnò sulle labbra della giovane madre; essa li baciò dolcemente uno per uno e tornò nella sua camera. Là trovò Lisa venuta al suo comando.

— Aspetta un momentino, le disse, vado a salutare mio padre.

Questi sorrise lietamente nel vedere sua figlia.

— Stanotte sei vedova, le disse scherzando. Non avrai mica paura a dormir sola?

— No, certo: di che cosa dovrei aver paura?

— Di ladri no, chè in questo paese non ve ne sono. E poi, soggiunse col medesimo tono di scherzo, ci sono io qua: e ci avresti un forte campione a difenderti. Dormi dunque tranquilla, anche in assenza del marito.

— Hai bisogno ancora di qualche cosa?

— Sì: dammi la mia solita pozione. Emilio ha insistito tanto perchè la prendessi.

— E l’ha ripetuto anche a me.

Matilde prese il bicchiere e lo porse al padre. Ci sentì un forte odore di amandorle che le altre sere non ci aveva sentito mai.

— Questa non è più la solita? disse al padre.

— Sì; ma Emilio vi aggiunse alcune goccie di non so che per renderla efficace.

E così dicendo cominciò a bere. Una strana, vaga, indefinita idea, ma un’idea di paura attraversò come un lampo la mente di Matilde; essa tolse vivamente il bicchiere dalle labbra e dalle mani del padre quand’egli aveva appena bevuto un terzo del farmaco.

— Basta, gli disse, ho paura che il berlo tutto ti faccia male.

— Perchè?

— Ha un odore così forte!... Emilio potrebbe avere sbagliato nella dose...

— Eh via!... egli così riflessivo!

— Dammi retta per farmi piacere.

— Veramente stasera ci trovo un gusto diverso... Ma bada che se poi il sonno mi fugge...

— Senti; se il sonno non verrà, chiamami, e verrò io stessa a porgerti il rimanente di questo farmaco.

— Va bene... E ora vattene a letto anche tu.

Matilde pose un bacio sulla fronte del padre; accomodò la lampadina perchè la luce non desse fastidio al giacente, e s’allontanò in punta di piedi. Lisa era così assorta ne’ suoi pensieri che non sentì venire la padrona, e questa la dovette toccare sulla spalla.

— Sei incantata?

— Oh scusi.

Le mani della cameriera, nello spogliare Matilde, tremavano siffattamente che la padrona, stupita, osservò meglio la fisionomia della giovane. Vi scorse un’agitazione, un turbamento, quasi le mostre d’un affanno.

— Che cos’hai? le dimandò amorevolmente.

— Nulla, nulla, rispose Lisa colle labbra pallide e tremanti.

— Eh via! non mentir meco. Hai qualche dispiacere? T’è capitata qualche disgrazia?

— Ma no... no, signora... le assicuro.

— Dimmi la verità. E se io posso qualche cosa in tuo ajuto, parla con fiducia, che ti prometto di far tutto che sta io me.

— La signora è troppo buona! esclamò la cameriera commossa, ma non ho nulla davvero.

— O forse non istai bene?

Lisa s’affrettò a prendere questa scappatoia.

— Ecco... sì, signora... la è così... Da un po’ di tempo non istò bene.

— Che cosa ti senti?

— Ma... capogiri... languori... affanni... agitazione... un malessere generale... Ho paura di non poter continuare nel servizio... penso che dovrò abbandonare la casa... lei.... e questo pensiero mi è così doloroso, mi dà tanta pena, che....

E scoppiò in pianto.

— Via, via, disse Matilde con sempre maggiore amorevolezza; non crucciarti così... consulteremo un medico... ti faremo guarire senza che tu abbia ad abbandonarci... Sono contenta di te, ti voglio bene, e sarai trattata come una della famiglia.

— Ah! signora! Lei è un angelo! esclamò Lisa sempre più commossa, e, afferrata una mano della padrona, la coprì di baci e di lagrime; poi con uno sforzo si tolse di là e uscì ratta dalla camera senza più aggiungere parola.

Matilde pensò subito richiamarla, ma poi avvisò meglio aspettare il domattina a interrogarla più particolareggiatamente; e senz’altro si pose a letto. Una preoccupazione, quasi una mestizia le si aggravò sull’anima al trovarsi sola (ed era la prima volta dacchè era moglie) tutta una notte in quella vasta camera, dove aveva passato ore così felici, e dove ogni sera, in confidente abbandono, si versavano amorosamente l’una nell’altra l’anima sua e quella dell’innamorato marito.

Era una vasta camera, in fondo alla quale si apriva un’alcova, dove stava il letto conjugale. Due sole porte erano in quella stanza; l’una comunicava col resto della casa per un andito, nel quale a pochi passi era l’uscio della camera del padre: l’altra porta metteva nelle due camere in cui dormivano i bambini.

Matilde spense il lume e cercò dormire, ma il sonno fu ribelle. Strane fantasìe e bizzarre chimere passavano pel capo di lei, come imagini di sogno, o vaneggiamenti di mente confusa: e in quel turbinoso succedersi di ombre, di scene, di vedute, tornavano più nette ed insistenti, e non sapeva perchè, le memorie del duello di Alberto con Emilio, e la pozione soporifera del padre con quell’odore acuto, e lo sguardo di fuoco, quasi feroce di Emilio: pensò ad una vendetta di quest’ultimo, ma quale? Contro il padre? Contro di lei?... Oh quello sguardo! E a un tratto le vennero alla mente il contegno e le lagrime inesplicabili di Lisa. Finalmente si era oramai a mezzanotte quando Matilde cominciò a sentire il riposo scendere sul suo cervello e sui suoi occhî, e poco stante si addormentò.

Lisa, uscita dalla camera della padrona, andò a raggiungere Battista.

— Ah, mio caro, gli disse, tutta ancora in lagrime, con accento di vivo dolore, non avrei mai creduto che ad abbandonare la signora Matilde avrei provato tanta pena. Che buona padrona! Che creatura angelica, è quella! Si merita davvero che il Signore le dia del bene.

— Pensiamo al nostro bene di noi, e lasciamo stare gli altri, rispose Battista con impaziente malavoglia. Sei tu pronta?

— Sì.

— Dunque andiamo.

Nella giornata ambedue s’erano fatto un fardelletto delle cose loro più indispensabili e di più valore. Battista aveva in segreto noleggiato un biroccino, il quale doveva trovarsi allestito alle undici a un dato punto della strada di X. I due fuggitivi uscirono pian pian dalla villa, e Battista chiuse a chiave l’uscio dietro di sè.

Quando furono a pochi passi, Battista, deponendo il suo fardello a terra, disse a Lisa:

— Aspettami qui: io vado per una commissione; in cinque minuti mi sbrigo e poi ti raggiungo.

Lisa s’aggrappò al braccio del suo compagno.

— No, non lasciarmi qui, sola, di notte. Ho una paura maledetta.

— E di che cosa vuoi aver paura?... Qui a quest’ora non ci passa nessuno... Ti dico che vengo subito.

— No, no; non ti lascio.

— Ma è necessario.

— Perchè? Che cosa hai dunque da fare? Dove vai?

— Qui dal signor Lograve.

— A far che cosa?

— Un certo interesse che ho con lui... A te non importa il saperlo.

— E io ti dico che non rimarrò qui ad aspettarti, che o ti accompagno, o non ci andrai neppur tu.

— Brava! E allora tutto il nostro disegno va in aria.

— Come?

— Gli è lui che ci deve dare i denari.

— Il signor Lograve?

— Sì.

— E perchè ce li dà?

— Perchè... perchè... questo non ti deve importare.

— Sì che m’importa. Da bravo, non farmi dei misteri... Possiamo già considerarci come marito e moglie... e non ci devono essere segreti tra di noi.

— Questo segreto, mia cara, non è mio, e non posso disporne... Ma mentre noi stiamo qui a discorrere, il tempo passa, ed è tanto di perduto. Suvvia, coraggio, Lisa, non farmi la femminetta; un minuto solo e ti raggiungo.

— No, no, insistette Lisa stringendo più forte il braccio di lui: non, istò qui, neppure per tutti i tesori del mondo... Lasciami accompagnarti.

— No, devo parlare a quel signore da solo a solo.

— Almeno fino alla porta... Là vicino alla casa, più vicino a te, non avrò più paura.

— Ebbene, sia, vieni fin là... ma non cercar d’entrare.

— No, starò fuori: ma se mai qualche cosa capitasse, che so io... potrei chiamarti... e se mai tu sarai lesto ad accorrere, non è vero?

— Sì, certo.

Giunsero al palazzotto. L’uscio era socchiuso. Per la finestra aperta di una stanza a terreno usciva nella notte un fascio di luce; traverso quella luce si vedeva andare e venire l’ombra del Lograve che passeggiava impaziente. Battista fece ancora a voce sommessa una raccomandazione alla Lisa, ed entrò. La stanza dove Emilio aspettava era subito lì a destra. Al passo del domestico Emilio si fermò e si volse verso di lui; era pallido, coi lineamenti contratti; aveva una profonda riga fra le sopracciglia e teneva le braccia serrate al petto.

Nel pomeriggio egli aveva detto al suo servitore che preparasse la valigia per una improvvisa partenza: egli sarebbe forse partito la notte o la mattina seguente, e avrebbe poi scritto dove il servo avrebbe dovuto raggiungerlo.

Rientrato in casa alle dieci, aveva domandato al domestico se i suoi ordini erano stati eseguiti, al che il servo avendo risposto affermativamente, egli lo mandò a dormire, e rimase solo nella stanza a terreno.

Sedette a tavolino e scrisse la lettera seguente:

«Ad Alberto Nori,

«C’è un uomo sulla terra, al quale io vo debitore delle più fiere angoscie: e quell’uomo sei tu.

«Mi hai rapito ogni bene: mi hai insultato colla tua felicità. Sono anni che aspetto la mia vendetta; e ora la stringo in pugno e me ne appago.

«Alla coppa d’amore di cui ti sei inebriato, ho voluto bere ancor io, e ti lascio la coppa contaminata.

«Vado in Isvizzera e vi ti attendo, se la rabbia e la vergogna ti daranno tanto coraggio da venirci.»

«Lograve


Ripigliò il foglio, lo suggellò e se lo mise in tasca.

Prima d’abbandonare la villetta Nori, avrebbe lasciato questa lettera nella camera conjugale, stata teatro del suo infame attentato. Poi scese nel salotto a terreno ad aspettare con quella nervosa febbrile impazienza che non lo lasciava quetare.

— Si può? disse Battista, affacciandosi all’uscio.

— Avanti! comandò Emilio con voce rotta, imperiosa. Ti sei fatto molto aspettare.

— Ho fatto più presto che ho potuto.

Emilio, a cui premeva venire al sodo, lo interruppe piantandogli in faccia quel suo sguardo maligno.

— E dunque?

— E dunque eccomi qua.

— La chiave?

— L’ho meco.

— Dammela.

— Sì, signore, ma prima.... Ella capisce.... Lei sa...

— Vuoi i denari?... Eccoli.

Gli gettò una busta che Battista afferrò vivamente; accostatosi al lume, il servo aprì la busta e si mise a contare i biglietti.

Lisa, di fuori, udite le voci dei due uomini, non potè frenare la sua curiosità: si accostò piano piano alla finestra aperta, e tenendosi cautamente nell’ombra potè vedere e udire quanto avvenne e si disse nel salotto.

Dopo avere passato uno per uno i biglietti, Battista levò il capo, e disse con accento di rimprovero:

— Signore, mi mancano duecento lire.

— Come?

— Sissignore. Lei mi ha promesso ventimila lire; qui ce ne sono diciannovemila e ottocento. Mancano duecento lire.

— E le duecento che t’ho date jeri?

— Ah! quelle erano per le spese indispensabili per la riuscita del disegno. Devono essere all’infuori del prezzo convenuto.

— Questa non me l’aspettavo.

E Battista con insolenza:

— E io da lei non m’aspettavo una simile piccineria.

Emilio arrossì di sdegno; ma si contenne; levò di tasca due biglietti da cento e li gettò al servo senza parlare.

Battista li prese, li mise accuratamente nella busta cogli altri e la busta in tasca; si abbottonò bene il soprabito, fece un leggiero inchino e disse laconicamente:

— Va bene!

— La chiave? ridomandò con voce fremente Emilio, colla mano tesa che tremava.

Il servo gli porse la chiave che Emilio afferrò con avidità ancora maggiore di quella mostrata da Battista nel prendere i denari.

— La riverisco, disse Battista avviandosi.

Ma l’altro lo trattenne.

— Un momento. Entrato ch’io sia, non troverò più altro uscio chiuso all’interno?

— No, signore.

— Sono tutti a letto?

— Tutti.

— Sta bene. Vattene e la fortuna ti accompagni.

Battista uscì frettoloso: appena fuori si sentì serrare fra due braccia frementi; e una voce concitata, benchè sommessa, gli disse all’orecchio:

— Che hai tu fatto? Che cos’è quella chiave? Perchè il signor Lograve ti ha dato tutti quei denari?

— Vieni, vieni, susurrò Battista trascinando seco la Lisa, caricatosi dei due fardelli. Ti spiegherò poi.

— No, gridò la ragazza, voglio saperlo.

Battista pensò di gettar via i fardelli, di prendere alla vita la giovane e portarla di peso fino al luogo dove si sarebbe trovato il biroccino, ma preferì pigliarla colle buone.

— Tu ci vuoi rovinare... Ti dirò tutto, ma vieni presto... Una parola di troppo, e tutto è perduto. Io sarò obbligato a fuggire e piantarti qui.

Questa minaccia ridusse la Lisa cedevole. Correndo giunsero al legnetto che aspettava; Battista vi cacciò dentro Lisa, pose una moneta in mano al garzoncello che teneva il cavallo, balzò presso la fanciulla, prese le redini, frustò il cavallo e via di galoppo.

Emilio con un sogghigno mefistofelico stringeva in pugno la chiave ricevuta da Battista, ed esclamava seco stesso:

— La tengo in pugno la mia vendetta, e il ripago di ogni mio tormento.

Guardò l’orologio.

— Appena le undici e un quarto!... Come passa lento il tempo!... A mezzanotte — fece un ghigno — l’ora dei delitti... e degli spettri... A mezzanotte varcherò quella soglia!

Quei quarti d’ora gli parvero eterni; eppure quando udì dal lontano campanile del villaggio battere lentamente dodici rintocchi, si riscosse come assalito da un subito terrore, guardò il suo orologio, per accertarsi che quel suono di campana non lo ingannava; prese e intascò una rivoltella, e uscì con passo guardingo, ma fermo. Giunse alla porta, della villetta, e con mano sicura pose la chiave nella toppa. L’uscio si aprì.

Emilio entrò pianamente; era così pratico del luogo, che non ebbe mestieri di accendere lume per passare l’andito, salire le scale, percorrere il corridoio e arrivare all’uscio della camera in cui dormiva Matilde.

Pensava:

— Purchè non la si sia chiusa dentro a chiave! Ma l’avesse anche fatto, poco importa: con una spalla faccio saltare la serratura: il rumore non può svegliare che lei... Ed entrato ch’io sia!...

Prima di mettere la mano sulla gruccia di quella serratura, si fermò un momento: poi piano piano tentò la serratura; questa non era chiusa che con una mandata della stanghetta a scatto; girando la maniglia Emilio l’aprì; cacciò dentro la testa; tutta era bujo e silenzio; egli entrò.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.