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I.
Venne ad aprire Susanna, la serva. Portava un vestito di lanetta bigia, stinto, rimboccato sui fianchi, lasciando vedere una sottana frusta di cotonina scura; il grembiule di tela grossa era cosparso di macchie untuose; teneva in mano uno strofinaccio puzzolente. Entrando, Isolina fece una smorfia di disgusto.
— C’è Checchina? — chiese.
— C’è — rispose Susanna, stringendo le sue labbra sottili di beghina.
— E che fa?
— Stiamo ripulendo i mobili, col petrolio.
— Volevo dire che si sentiva questo puzzo! E non ci pigliate una malattia, voi?
— Il puzzo del petrolio non fa male.
— Va’ a dire a Checchina che sono qui, che ho da parlarle, di premura, subito — e cavò dalla tasca un fazzoletto, tutto profumato di Jockeyclub, per tapparsi il naso.
Susanna se ne andò, stringendosi nelle spalle, con un piccolo moto di sprezzo. Isolina si era buttata sul divano di cretonne giallina, a fiori rossi, molto duro, dalla spalliera diritta: guardava distrattamente il salotto. Vi erano quattro poltroncine coperte di stoffa simile a quella del divano, coi quadrati all’uncinetto per ripararne la spalliera contro la pomata delle teste; stavano attorno attorno a una tavola rotonda, dal marmo bianco. Sul marmo, senza tappeto, un sottolume di guttaperca rossastra e un lume di antico modello, a olio, senza paralume. Poi: sei sedie di legno nero, dal colore smorto, che sembravano sempre impolverate — una mensola coperta di marmo bigio, su cui stavano sei tazze di porcellana bianca, la caffettiera e la zuccheriera; due scatole da confetti, vuote, vecchie, una di raso verde pallido, l’altra di paglia, a nappine; un piattino di frutta artificiali, anche queste in marmo, dipinte vivacemente, il fico, il pomo, la pesca, la pera e un grappoletto di ciliegie — un tavolino da giuoco, coperto di panno verde, coi pezzi laterali abbassati — all’unica finestra le tendine di velo ricamato, molto trasparenti, molto strette, colle bende di cretonne. Innanzi al divano un piccolo tappeto. Era tutto. Vi faceva freddo, con quella lamentevole mattinata autunnale, in quel salotto glaciale. Isolina si strinse nel suo paltoncino nero, che le dava un’aria snella. Poi si slanciò, con una grande effusione, al collo di Checchina che le stava davanti, sorridendo tranquillamente.
— Ti si rivede, finalmente, core mio! Non potevo più stare senza te, nina mia: ti giuro che mi pareva mill’anni di rivederti. Quel Frascati! Ti ci sei divertita, almeno?
— Sì — rispose Checchina, senza batter palpebra.
— Infatti, sei più bella, più colorita: peccato che tutto questo si perda, con quello scemo di Toto, che non capisce nulla! E perchè porti la frangetta sulla fronte che nessuno usa più?
— Ma... è più comoda, ci si pettina in un momento: Susanna non sa fare altro.
— Che, che! Si compra un ferro per arricciare i capelli, si mette un carboncino acceso in uno scaldino e si fanno i riccioli, ogni mattina. Ecco, come me. Ma ci vuole anche la reticella di capelli, per tenerli fermi, i riccioli.
— Susanna non sa fare tutto questo — rispose Checchina, ostinatamente.
— Perchè non la mandi via, Susanna? È antipatica.
— Antipatica?
— Uh! queste serve, queste serve, tutte nemiche pagate. Io, vedi, sarei felice di mandar via Teresa che è ladra, insolente e... non ti dico altro, se ne va per ore intiere dalla casa. Ma, come faccio? Sa tutti i fatti miei, è sveltissima, di una fedeltà che mi costa molto, ma di cui mi posso valere. Capirai, non posso mandarla via: se quella racconta tutto a mio marito? Anche ieri ho dovuto darle quella vestaglia di flanella rossa, che era ancora portabile, quella che piaceva tanto a Rodolfo. Oh! l’amore è un gran tormento!
— È un gran tormento — mormorò macchinalmente Checchina.
— Che ne sai tu? Sei una scema, te l’ho sempre detto. Ti sei innamorata, forse, a Frascati?
— Isolina!
— Non ti offendere: tutto può accadere. Oh! io sono innamorata più che mai.
— Di Rodolfo?
— Ma che Rodolfo, che Rodolfo! Quello era uno stupido, un avvocato, figùrati, come mio marito! Non vi era gusto, capisci: meglio Gigio, poi. Ma questo, questo qui, è ufficiale di cavalleria, lo amo, immensamente, come non ho mai amato nessuno. O Checchina, che passione! Io ne morirò.
Mentre diceva queste parole, un fiotto di sangue le colorava il bel viso bruno, gli occhi brillavano e le labbra tumide, rosse, pare già sentissero la golosità dei baci. Checchina la guardava con la sua aria seria e pacata di femmina senza temperamento, senza avere un fremito nella bella persona, che il goffo vestito di lana nera non arrivava a render brutta.
— E Gigio? — chiese, col suo buon senso naturale.
— Oh! Gigio è geloso, gelosissimo, mi ammazza se sa che io amo Giorgio.
— E non hai paura?
— Ho paura, certo; se non avessi paura che gusto ci sarebbe ad amare Giorgio? Esporsi alla morte per colui che si ama, non è forse la maggior prova d’amore? Se sapessi che cruccio che mi dà quest’amore! Già non ho mai quattrini e ce ne vogliono, capisci, per darne a Teresa, per le carrozze, pei guanti, pei fiori — mi presti venti lire?
— Come vuoi che te le presti? Non le ho.
— Dio mio, come faccio? Domani, sai, è giorno di appuntamento e debbo andarci, assolutamente; ho da comprarmi un velo di garza che costa cinque lire e mi serve, a ogni costo; ho da comprarmi una corazza di maglia che costa quindici lire, e per andare da lui ci vuole la carrozza...
— Ti posso dare sei lire: le ho risparmiate sulla spesa — disse sottovoce Checchina.
— Sei lire.... e che faccio con sei lire?
— Parla piano, che non ti senta Susanna.
— Sei lire... basta, dammele, farò alla meglio. Grazie cara; sei buona, nina mia. Fra me e te, vedi, è un’amicizia straordinaria. Così potessi servirti in qualche cosa, una volta...
— No, no — disse Checchina, presa da un lieve tremore.
— Tutto può accadere: non ci facciamo forti, core mio. Addio, a rivederci, me ne vado, debbo impostare questo bigliettino per Giorgio. Hai un francobollo da un soldo?
— Come vuoi che io lo abbia? Non scrivo mai.
— Scommetto che non hai neppure la carta da scrivere?
— Ne ha Toto, nel suo studio, con l’intestazione sua.
— Poveretta, poveretta, come ti compatisco! L’amore è una gran bella cosa, Checchina mia.
E se ne andò, gaia, leggera, con una effusione di sorriso interiore sul volto, come chi porta un tesoro di dolcezza nell’anima. Checchina stette un minuto a pensare, poi si adattò attorno alla vita, sul vestito nero, un grembiule di tela bianca e andò a strofinare l’armadio, col petrolio, mentre Susanna strofinava il cassettone.