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II.
Un giorno — di venerdì — il dottore Toto Primicerio, mentre stava per uscire, disse a sua moglie Checchina, che gli spazzolava le spalle del soprabito:
— Sai, ho invitato a pranzo il marchese d’Aragona.
Ella si fermò dallo spazzolare, immediatamente.
— Capisci — continuò il marito, senza voltarsi — è stato così compito, con noi, a Frascati, bisognava usargli una cortesia, qui, in Roma. Vede tutte le famiglie nobili, dà del tu a tutte le principesse romane: mi sarà utile. Viene domenica, alle sette, l’ora della nostra cena: essi pranzano, a quell’ora. Per un giorno pranzeremo anche noi alle sette.
Quando egli si voltò, vide sua moglie un po’ pallida, tutta seria.
— Questo pranzo ti secca, Checca mia? Ora è fatta e non si può disfare...
— Un marchese... qui da noi... lui che va a pranzo da tutte le principesse...
— Ebbè, qui si contenterà e non morirà mica di fame. Aggiusta tu con Susanna — concluse Toto, con la bella tranquillità romanesca, andandosene all’ospedale di Santo Spirito a rassettare braccia slogate e a medicare piaghe purulente. Andò via, il dottore, ma nella casa stretta rimase la sua traccia, quell’invincibile fetore di acido fenico.
Checchina non aggiustava nulla con Susanna. La serva era in cucina e schiumava il brodo, borbottando contro l’empietà del padrone che mangiava carne di venerdì, mentre lei, Susanna, si contentava di un pezzo di baccalà fritto. Checchina stava in camera, seduta accanto al largo, alto letto maritale, con le mani in grembo, tutt’assorta nei suoi pensieri, non accorgendosi di essere ancora in pianelle e col fazzoletto di tela al collo. Un marchese che va dalle principesse e le abbraccia e dà loro del tu, a pranzo da loro! Ma perchè dunque Toto lo aveva invitato? Come gli era venuto in mente di far questo? A Frascati, il marchese di Aragona villeggiava dai principi di Altavilla: egli scarrozzava ogni giorno con la principessa, l’accompagnava alla messa, uscivano a cavallo insieme, ella tutta chiusa nell’amazzone nera, col velo nero attorcigliato al cappello da uomo e una rosa thea all’occhiello, egli in costume di velluto verde oliva, cravatta di raso nero, speroni di acciaio e frustino nero. Essa, Checchina, li aveva visti a passare, due o tre volte, come un’apparizione. Era un bel giovane, il marchese d’Aragona, alto, con una testa ricciuta e gli occhi malinconicamente espressivi. Un giorno, scendendo da cavallo, si era un po’ storto un piede e Toto Primicerio era stato chiamato ad Altavilla per curare quest’inezia. Ma d’allora, ogni volta che il marchese d’Aragona incontrava Checchina Primicerio, le faceva una scappellata profonda, quel gran saluto aristocratico che lusinga le donne borghesi. Tre volte l’aveva salutata così: una domenica, sulla piazza, dove suonava la banda municipale fra la chiesa e il caffè, mentre le belle frascatane passeggiavano, la testa e le spalle nascoste nello scialle di lana bianca; un mercoledì, nel pomeriggio, ella cuciva dietro i vetri del suo balcone, rimettendo i polsini a una camicia vecchia di suo marito, e il marchese di Aragona, passando nella via, salutò; un lunedì, di mattina, ella era con Susanna, in un vicolo recondito di Frascati, a contrattare la compra di certe ceste di pomidoro da un contadino, per farne conserva, per l’inverno, e il marchese d’Aragona, passando, salutò: questa volta ella aveva arrossito, lo ricordava bene, ma non sapeva perchè, forse perchè Susanna litigava forte col contadino, sul prezzo. Ora questo marchese veniva a pranzo — ed ella non sapeva che dargli da mangiare a questo nobile, avvezzo alle fantasie culinarie dei grandi cuochi. Avevano un servizio di piatti solo per sei persone, comprato a una vendita, da Stella, e mancava la salsiera e l’insalatiera: sarebbe bastato? E l’insalata, poichè ci vuole, l’insalata, in un pranzo, dove l’avrebbe messa? Ecco, gli si potevano dare li gnocchi col sugo di carne: li gnocchi li avrebbe fatti lei, Checchina, e il sugo, Susanna, che, a questo, era brava. Poi sarebbe venuta la carne col contorno di patate, cotte nel sugo: poi un piatto di pesce fritto. Ma come fare se Susanna si lamentava, sempre, che la padella era alta in mezzo e l’olio cadeva ai lati e nel mezzo il pesce diventava nero, abbruciacchiandosi? Ci voleva una padella nuova o bisognava rinunziare al fritto. Le posate d’argento erano sei, ma una forchetta aveva due rebbi storti: presto presto, in cucina, Susanna avrebbe dovuto lavarle, come i piatti, se non bastavano. E l’arrosto, l’arrosto ci voleva! Non usa il pollo, nelle case aristocratiche? Come lo avrebbe arrostito, se i fornelli erano due, in cucina, e mancava il girarrosto? Questo pranzo sarebbe costato una quantità di quattrini; come dirlo a Toto, quante cose ci mancavano nella casa! Un marchese, con un’aria così seria da gran signore, che portava al dito un anello con un brillante, uno zaffiro e un rubino, ella lo aveva visto benissimo; un marchese che sicuramente varie principesse dovevano amare — bisognava dargli anche il piatto dolce. Che cosa sapeva fare, ella, di dolce, da quando era giovanetta? La torta con la conserva di amarena? Quante uova metteva, allora, con un chilo di fior di farina, mezzo chilo di zucchero finissimo e mezza libbra di burro? E il forno per cuocerla, la torta? Veramente avrebbe potuto mandarla giù, dalla portinaia, che aveva il forno: bisognava pregarla di questo favore, quella dispettosa Maddalena che litigava sempre con Susanna, sul proposito della confessione, chè Maddalena era proprio una eretica — poi, il giorno seguente, se ce ne avanzava di torta, glie ne avrebbe mandato un pezzetto, per fargliela assaggiare e ringraziare della cortesia.
È il caffè si dà in tavola, non è vero, dopo che si è sparecchiato? Susanna, alla mattina, lo faceva sul fuoco, il caffè, con la ribollitura del giorno prima e un po’ di caffè fresco; mentre questi nobili, con la loro aria sempre svelta e vivace, è chiaro che prendono il caffè fatto con la macchinetta, sullo spirito e tutto caffè fresco, tre o quattro cucchiaini per tazza, senza ribollitura. Appunto la settimana prima Bianchelli aveva fatto una grande esposizione di macchinette, tutte lucide, fiammanti, che parevano di oro e di argento. Ce ne voleva una: e poi, in due giorni, Susanna doveva imparare a usarla. Ci volevano cinquanta lire, per questo pranzo. Toto non gliele avrebbe mai date. Le dava tre franchi il giorno per la spesa; ma avevano il vino in casa e ogni tanto qualche regaluccio da un cliente, una forma di cacio, un salame, qualche cestino di frutta. Anche, per lasciare quelle tre lire, Toto borbottava; e Susanna, in cucina, giurava nel nome di Santorsola, patrona di tutte le vergini, che non ci si arrivava, non ci si arrivava, e i beccai erano tanti cani e i fruttaroli tanti ladri di strada. Come avrebbe fatto per chiedere a Toto tutti questi quattrini, pel pranzo del marchese? Giusto aveva prestato le sei lire, risparmiate a furia di stenti, a quella sventata di Isolina: con sei lire qualche cosa si poteva fare... — e a quest’ultimo pensiero, arrossì, ricordandosi.
Poi si alzò, andò in cucina e stette a guardare, distratta, Susanna che tagliava minutamente una pastinaca per metterla nel brodo. Non diceva nulla, tutt’assorbita. Due o tre volte la serva borbottò contro il carbonaio che non aveva proprio coscienza, nè timor di Dio, a vendere il carbone adacquato per farlo pesare di più, ma la padrona non le dette retta. A un punto, Checchina le disse, come ridestandosi:
— Li sapresti fare, Susanna, i riccioli sulla fronte?
— Quale riccioli? — chiese l’altra sbalordita.
— Come quelli di Isolina — mormorò la padrona a bassa voce.