< La vita militare
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Il figlio del reggimento Una marcia notturna

IL COSCRITTO.


Era di domenica verso le cinque di sera e faceva un tempo bellissimo. La caserma era presso che vuota. Quasi tutti i soldati erano andati a spasso per la città; i pochi rimasti, parte nei dormentorii a finir di vestirsi, parte giù nel cortile ad aspettare, stavano per andarsene anch’essi, quei di sotto gridando di tratto in tratto: — Fa presto, — e quei di sopra rispondendo: — Un momento, — chè forse stentavano a mettersi il cinturino da tanto che se l’erano stretto per far la vita sottile. Anche i coscritti, arrivati al reggimento due giorni prima, parte erano usciti, parte andavano uscendo, a sei, a otto, a dieci assieme, seri, impalati, coi berretti per traverso, i cappotti affagottati, le mani aperte e stecchite in un par di guantoni bianchi che parean manopole da scherma; e i soldati di guardia, seduti sur una panca alla porta della caserma, li andavano motteggiando man mano che passavano, malgrado che il sergente brontolasse di tratto in tratto: — Lasciateli in pace, poveri giovani. — L’ufficiale di picchetto, sdraiato sul letto in una camera al primo piano, leggicchiava un giornale.

Nell’angolo più appartato del cortile v’era un coscritto solo solo, seduto sullo scalino d’una porta, co’ gomiti appoggiati sulle ginocchia e il mento sulle mani. Seguiva uno per uno collo sguardo i suoi compagni che uscivano, e quando nessuno passava teneva gli occhi immobili a terra. Aveva l’aria d’uno di quei buoni figliuoli, che si staccano bensì con molto dolore dalla famiglia e dal villaggio dove son nati; ma vengono a fare il soldato coll’animo pieno di rassegnazione, di serenità, di buon volere: — e perchè c’è tanto di legge stampata che parla chiaro, e sulla lista attaccata alla porta della comunità c’era il loro bravo nome e cognome scritto per disteso, e i loro vecchi ci sono andati, e i loro compagni ci vanno, e in fin dei conti poi perchè è il loro Re che li chiama, e non c’è niente da ridire e non occorre cercar più in là. — Ma sul suo viso c’era qualcosa di più di quell’espressione tra il pensieroso e l’attonito che è propria dei coscritti nei primi giorni; c’era della malinconia. Forse s’era pentito di non aver voluto uscire cogli altri. Di domenica, quando fa bel tempo, a stare in casa si prova sempre un po’ di tristezza.

A poco a poco il quartiere rimase deserto, e vi fu un silenzio perfetto.

Un caporale in montura di fatica, attraversando frettolosamente il cortile, vede il coscritto, si ferma e gli domanda bruscamente:

— Che cosa fai costì, colle mani in mano?

— ....Io? — il coscritto risponde.

— Io? — ripete il caporale strascicando con affettazione la voce e facendo un viso di stupido. — Quest’è curiosa! A chi parlo adesso? alla luna? Sì, proprio tu. E levati in piedi quando parli coi tuoi superiori. —

Il coscritto si leva in piedi.

— Chi sei tu? Di che compagnia?

— .... Compagnia?

— Compagnia? — domanda alla sua volta il caporale in tono di canzonatura. — Ma sai che sei un gran testa di rapa, tu? —

Gli s’avvicina, lo afferra per la falda del cappotto e dandogli una gran tirata che lo fa traballare: — Guarda! — gli grida — guarda come ti sei conciato il cappotto a star lì seduto in terra come un accattone. —

Il coscritto si mette a pulir il cappotto colla mano.

— Guarda in che stato ti sei ridotto le scarpe! — e gli dà un colpo del piede nella punta dei piedi.

Questi tira fuori il fazzoletto e si china per spolverare le scarpe.

— Accomodati codesta cravatta che ti vien su fino alle orecchie. — E afferratolo per la cravatta gli dà una scrollata che un po’ più lo butta in terra.

Il coscritto alza le mani alla cravatta.

— Mettiti un po’ meglio quel berretto. —

E porta le mani al berretto.

— E tirati su quei calzoni se non vuoi che ti si sciupino in una settimana, e volta per diritto i bottoni del cappotto, e levati quegli orecchini che sono una ridicolezza, e non istar lì col mento sul petto che mi sembri un frate, e non guardar la gente con quel muso di minchione....

Il povero giovane andava toccandosi colle mani tremanti ora la cravatta, ora i calzoni, ora i bottoni, ora il berretto, e non riusciva a far nulla, e quanto più si affrettava e si affannava, e tanto meno sapeva o vedeva quel che si facesse. In quel momento passò là presso la vivandiera, giovane e belloccia, e si fermò, spietata! a guardare. Comparir ridicolo agli occhi d’una bella donna! Ah! è la più tormentosa delle vergogne! Il povero coscritto perdette affatto la testa; gingillò ancora un po’ colle dita intorno alla cravatta e ai bottoni, e poi si sentì andar giù le braccia, e il mento gli cadde sul petto e gli occhi sulla punta dei piedi, e stette così immobile come una statua; era annichilito.

La vivandiera sorrise e se n’andò. Il caporale, guardandolo e scrollando la testa in aria di compassione sprezzante, gli andava ripetendo: — Ah marmotta!... marmotta! —

E poi, alzando tutt’ad un tratto la voce: — Bisogna svegliarsi, mio caro, e presto, chè se no vi sveglieremo noi, ve lo assicuro io, e come! Consegne e pane ed acqua, pane ed acqua e consegne, alternati, tanto per non annoiarvi. Tenetevelo bene a mente. E adesso andate al vostro letto a ripulir le vostre robe, marche!

E rinforzò il comando alzando il braccio coll’indice teso verso le finestre del dormitorio.

— Ma io....

— Silenzio!

— Io non....

— Tacete, vi dico, quando parlate coi vostri superiori; o la prigione è là; la vedete?

E s’allontana brontolando: — Oh che gente! Oh che gente! Povero esercito! Povera Italia!

— Signor caporale!... esclama timidamente il coscritto.

Il caporale si volta e gli accenna di nuovo la prigione facendo un par d’occhi terribili.

— Vorrei domandarle una cosa. —

L’accento era così peritoso e sommesso che non si poteva proprio a meno di lasciarlo parlare.

— Che cosa volete?

— Vorrei domandarle se lei sapesse che qui in questo reggimento c’è un ufficiale del mio paese, che ci dev’essere, ma che io non so se ci sia....

— Del vostro paese? Se al vostro paese son tutti di cotesto stampo, c’è da augurarsi che nel reggimento non ci siate che voi. —

E scrollando le spalle se n’andò via.

— Che maniera! — mormorò tristamente il coscritto guardandolo mentre s’allontanava. — Eppure m’hanno detto che c’è... — soggiunse poi rimettendosi a sedere. — Ma perchè ci fanno così? Perchè ci trattano tanto male? Che cos’hanno con noi? Che cosa siamo noi? Siamo cani?... E bisogna far cinque anni di questa vita! Oh.... è troppo, è troppo! — E si coperse la faccia colle mani e pensò alla sua famiglia lontana. — Se mi vedessero in questo stato! — diceva in cuor suo; — povera gente! —

Lo scosse una sonora risata di fondo al cortile; alzò gli occhi e vide tre soldati di guardia che lo guardavano discorrendo e ridendo tra loro.

— Oh che merlo! — cominciarono a dire que’ tre. — È innamorato. — Pensa all’amorosa. — Dove l’hai lasciata l’amorosa, di’? — Poverina, a quest’ora avrà già trovato modo di consolarsi. — Guarda, guarda che par d’occhioni ti fa! — E poi tutti e tre ad una voce col tono del prete che canta la messa: — Oh che merlo! —

Il povero giovane diventò pallido; lo avevano ferito sul vivo; non si potè più contenere; si alzò....

— Chi è quest’innamorato? — disse tra sè l’ufficiale di picchetto affacciandosi alla finestra col giornale in mano. I soldati di guardia lo videro e scapparono; il coscritto alzò la faccia stravolta verso la finestra e lo guardò. L’ufficiale guardò anch’egli il soldato, e vedendolo far prima un segno di attenzione, poi di sorpresa e poi di contentezza senza levargli mai gli occhi d’addosso, — Chi sarà quest’originale? — pensò, e scese nel cortile e gli si andò a piantare davanti.

— Che cos’avete da ridere e da stropicciarvi le mani? — gli domandò con accento severo.

E il soldato, pur vergognandosi un poco, seguitava a sorridere.

— Ma sapete che siete un minchione di nuovo conio, voi?... Vi domando perchè ridete.

— Ecco..., rispose il coscritto, abbassando gli occhi e stropicciandosi con tutt’e due le mani una falda; — io sapevo che lei era qui in questo reggimento, e mi ci hanno mandato anche me.... Già lei non si ricorderà più; ma io sì; lei è tre anni che è andato via, e io lo conoscevo, e conoscevo anche la sua famiglia; ma loro non conoscevano noi, ed eravamo vicini di casa, e la mattina io lo vedeva sempre passare che andava a caccia, e.... siamo dello stesso paese, ecco.

— Ah! ora capisco — rispose l’ufficiale guardandolo attentamente per raccapezzare chi fosse.

— Io sapevo che lei era andato a far l’uffiziale quando è partito, e ch’era entrato nel collegio, e poi non è più tornato, e intanto hanno rifatto la facciata del duomo e nella piazza hanno messo su un caffè grande.... (e guardò intorno), quasi grande come mezzo questo cortile, ed è sempre pieno di gente....

— Aspetta, aspetta; ora mi ricordo; Renzo, ti chiami, non è vero?

— Proprio! —

— Stavi in quella casina accanto alla chiesa fuor del paese, mi pare.

— Oh Dio!... Già, sicuro, nella casina fuor del paese. —

E non potea più star nella pelle quel povero giovanotto.

— Mi ricordo benissimo. E.... dimmi un po’: come ti trovi contento di fare il soldato? —

Il coscritto mutò viso ad un tratto, abbassò gli occhi e tacque.

— Perchè non sei uscito a passeggiare cogli altri? —

Non rispose, e si guardava le unghie come pensando a quel che aveva da dire; ma gli si leggeva il cuore negli occhi.

L’ufficiale capì, e con una voce affabile che gli scese e lo scosse nel più profondo dell’anima, gli domandò:

— Che cos’hai? —

Gli si ruppe il nodo alla lingua, e animandosi poi a grado a grado, cominciò con voce commossa: — Ho...; senta, signor ufficiale; ho che.... non so nemmeno io quello che ho; ma ci trattano in un modo che fa dispiacere, ecco. A domandare una cosa, non rispondono, e poi ci dicono delle parole che offendono, e bisogna stare zitti, se no la prigione eccola là (e imitava la voce del caporale). Lo so anch’io che non ci sappiamo ancora vestire, e non siamo ancora buoni a fare i soldati; ma sono soltanto due giorni che siamo qui; che colpa ci abbiamo noi? ci possiamo qualcosa noi? Si sa; siamo venuti apposta per imparare, e bisognerebbe che avessero un po’ più di pazienza, mi pare. E poi ci burlano in presenza della gente, e mettono anche le mani addosso, e ci danno degli urtoni, e noi dobbiamo sopportar tutto, e loro ridono, e io non so capire perchè ci maltrattino così. Io era venuto volentieri a fare il soldato, e dicevo dentro di me: Farò il mio dovere, e i superiori mi vorranno bene; ma adesso che vedo.... Forse quando ci avremo fatta l’abitudine, non ci baderemo più; ma adesso ci fa male di vederci maltrattare in questo modo. Eravamo assuefatti a casa, colla famiglia, e tutti ci volevano bene, e qui, invece,... burlano anche i nostri.... pazienza noi.... ma.... fa pena, ecco, fa troppa pena! —

Quest’ultime parole furon pronunciate con un accento veramente sconsolato: tacque, e abbassò gli occhi continuando a borbottare tra sè.

L’ufficiale lasciò passare qualche momento in silenzio, accese un sigaro, e poi, con un fare trascurato come se non avesse inteso o voluto intendere nulla gli disse:

— Tirati un po’ in giù quella cravatta (e l’aiutò egli stesso); così; ora va bene. Voltati. —

Il soldato si voltò; l’ufficiale gli afferrò e gli tirò le falde del cappotto: — Il cappotto non deve far grinze, dev’esser liscio come un busto. Voltati. —

Si voltò; l’ufficiale gli accomodò il berretto. — Così; un po’ per traverso, chè dia l’aria di monello. —

Il coscritto sorrise.

— E sta’ ben ritto sulla vita, e tieni la testa alta, e quando cammini, cammina sciolto, franco, svelto, come quando giuocavi alle bocce nel cortile di casa nostra, ti ricordi? —

Rise, e accennò di sì.

— Oh bene, — continuò l’ufficiale appoggiando le spalle al muro e una gamba sull’altra; — e guarda sempre tutti nel viso, perchè non hai da aver paura nè da vergognarti di nessuno; hai capito? Passasse anche il Re, e tu alza la fronte e piantagli gli occhi negli occhi come per dirgli: — son io, — chè il rispetto, noi soldati, lo dobbiamo mostrare in codesto modo; ricordatene. —

Il soldato accennò di sì; si cominciava a rasserenare.

— E ricordati pure che, una volta entrati in caserma, bisogna cambiar maniera di parlare; poche parole, ma franche, sonore e vibrate, con chiunque tu parli: sì e no, no e sì, e se non hai da dir altro, tanto meglio. E quando sei in riga, gli è come se fossi in chiesa, e zitto; rotte le righe, sei a casa tua; e se gli altri fanno il chiasso, e tu fallo più di loro, e non istar soltanto a vedere, che vien la malinconia; cacciaviti subito dentro. E vogli bene ai tuoi compagni, chè troverai degli amici d’oro, te lo prometto; troverai dei giovinotti che ti vorranno bene come a un fratello; vedrai; chè qui ci sarà carestia di tutto, ma di cuore no di sicuro.... Hai la pipa?

— Nossignore.

— Se no potevi fumare. E quando un superiore sgrida..., se ha ragione, stare a sentire e farne pro; se ha torto, stare a sentire lo stesso e non pigliarsela a cuore, perchè a questo mondo tutti hanno dei difetti e possono fare degli spropositi tutti; a sgridare si sbaglia qualche volta; a disobbedire si sbaglia sempre. E non credere che tutti quelli che ti sgridano abbiano cattivo cuore e siano in collera con te e ti vogliano male. Non c’è niente di più falso. Codesti burberoni hanno più buon cuore che gli altri, e vi vogliono bene, e se li levassero di mezzo a voialtri morirebbero di malinconia in quindici giorni. Urlano, inveiscono; è un’abitudine, un affar dei polmoni; niente di più, credilo. Finirai col voler più bene a loro che agli altri. Li vedrai quando andranno via; piangono. Io ne ho visti tanti. Ne ho visti a Custoza....

— Quella battaglia ch’è andata male?

— Quella; ho visto un capitano ch’era lo spavento della compagnia e nessuno lo poteva vedere, e aveano tutti torto; ebbene, non cadeva un ferito ch’egli non corresse a soccorrerlo, a guardargli la ferita, a fargli coraggio; sempre in moto di qua e di là, ed era stanco da morire. — Oh capitano! capitano! non m’abbandoni, capitano! — gridavano i feriti trattenendolo per le braccia e per la tunica. — No, figliuolo — egli rispondeva — starò qui con te, starò sempre con te fin che tu sia guarito; coraggio, figliuolo, coraggio; il tuo capitano non t’abbandona. — Capisci, che uomo? E come lui ce ne son tanti, e bisogna non giudicar gli uomini dalle apparenze, e poi compatire i cattivi, e volere un bene dell’anima ai buoni, e rispettar tutti, perchè son tutti soldati e da oggi a domani possiamo vederceli morir sotto gli occhi da valorosi. E quando si vuol bene a qualcuno, si sopporta di buon animo ogni sorta di vita, tienlo per fermo. Cerca, domanda, fattelo dire da’ tuoi compagni; vedrai che i soldati più bravi volevano tutti bene ai loro superiori. Guarda il soldato.... come si chiamava?... il soldato Perrier, nel quarant’otto, che si gettò fra il suo ufficiale e i nemici, e cadde a terra con tre palle nel petto gridando: — Ricordatevi di me, mio buon ufficiale; io muoio contento d’avervi salvata la vita! — E quell’altro granatiere, non mi ricordo il nome, che piuttosto di abbandonare il suo capitano ferito, s’è fatto uccidere a colpi di baionetta, gridando ai nemici: — Se non mi uccidete, io non ve lo lascio. — E quegli altri otto o dieci, che sotto una pioggia di palle, alla battaglia di Rivoli, sono andati a strappare dalle mani dei tedeschi il cadavere del loro ufficiale, chè lo volevano seppellire di propria mano e rendergli gli ultimi onori nel proprio campo; e tanti e tanti altri, che ci sono i nomi e i fatti stampati in cento libri, e tutti li ricordano e li amano ancora come se fossero vivi.... Hai un fiammifero? —

Il coscritto che fino allora era stato colla bocca e gli occhi spalancati che pareva estatico, tirò fuori in fretta un fiammifero e glie lo porse.

— Quando si pensa a queste cose e si ha un po’ di cuore, certi piccoli dispiaceri, certe meschinità della vita del soldato si dimenticano; e bisogna pensarci a queste cose, e te le insegneranno, e tu che sei un buon figliuolo le terrai a mente; non è vero? —

Il coscritto fece segno di sì, chè lì su quel subito non potè raccogliere la voce.

— Sicuro; — continuò l’ufficiale; — a far volentieri il soldato, e a farlo bene, bisogna guardare un po’ più alto della caserma e un po’ più in là della piazza d’armi. E poi, già, si fa l’abitudine a tutto. Lo zaino, da principio, oh che peso, mio Dio! oh che tormento; dicono tutti così; e poi, a poco a poco, poh, diventa una cosa da nulla. E il mangiare? Non si mangia mica da principi, si sa; anzi, qualche volta, a voler essere schietti, si mangia maluccio; ma bisogna aver pazienza, pazienza e sempre pazienza, che è la gran virtù del soldato; e non lamentarsi e piagnucolare, come fanno certuni, a diritto e a torto, di tutto e di tutti; ma mangiare quello che c’è e contentarsi del poco. E poi l’appetito, quando si lavora, si fatica, si fa il proprio dovere e si ha il cuore contento, l’appetito non manca mai, e l’appetito è un gran cuoco. Sono gli svogliati e i poltroni che trovano a ridire su tutto e non si contentano mai. Io vedo che i bravi giovani fanno tutti il soldato volentieri, perchè i superiori li vedon di buon occhio, i compagni li stimano, quei del paese li rispettano, e ce n’è di quelli che in cinque anni ch’han fatto il soldato non sono stati un giorno ch’è un giorno in consegna e han lasciato il loro numero diciotto bianco e pulito come un fazzoletto di bucato; e tu sarai uno di questi, non è vero? —

Il soldato accennò vivamente di sì.

— Benone. E non credere poi che sia tutto spine il nostro mestiere; c’è anco dei fiori per chi li sa cercare, e i bravi soldati li trovano. Impara a fare il tuo dovere per bene, sii sempre pulito, rispettoso e di buona volontà, e dal tuo capitano e dai tuoi ufficiali ti sentirai dire certi: bravo! che ti suoneranno in fondo al cuore, e ti cresceranno l’appetito e l’allegria. E i giorni ti passeranno presto. Poi, in cinque anni, non si sa mai che cosa possa accadere, potrebbero anche farci cambiar dieci volte di guarnigione, e allora il tempo vola che i mesi paiono giorni. Vedrai dei nuovi paesi; città, genti, campagne, monti, mari, tutto un mondo nuovo, svariato, stupendo, tutto il nostro bel paese, l’Italia, che finora tu conosci soltanto di nome; e troverai delle meraviglie per ogni parte: statue, chiese, palazzi, giardini; e nelle ore di libertà andrai a vedere ogni cosa, per poter poi raccontar tutto alla famiglia e agli amici, quando sarai a casa. Nell’estate andremo ai campi d’istruzione, otto, dieci, venti reggimenti, e cavalleria e artiglieria, e vedrai che bella figura fa un accampamento, e che rumore, che allegrezza, che vita ci sarà tutto il giorno, e quelle grandi manovre a fuoco, e quelle feste che si faranno prima di levare il campo, musiche, balli, tombole, corse, e tutti gli ufficiali e i generali a fare il chiasso e a divertirsi in mezzo ai soldati, e tutta la gente venuta dai paesi vicini a godere quello spettacolo e a batter le mani. Allora tu conoscerai già tutti i soldati del corpo, avrai un’infinità di buoni amici, il reggimento ti parrà una grande famiglia, e tutti gli onori che si faranno al reggimento ti parranno fatti a te, e vorrai bene al tuo vecchio colonnello come a un altro padre, e quando vedrai comparire la bandiera davanti ai battaglioni schierati, e la banda suonerà la marcia del corpo, e tutti presenteranno le armi, ti sentirai battere il cuore di contentezza e di orgoglio, e tremerai tutto dalla commozione. E a poco a poco porrai affetto a ogni cosa: alle tue armi, alla tua divisa, al tuo gamellino, a questo cortile, a queste scale, a queste mura; e quando starai per partire, e sarai già stato a salutare il tuo capitano, i tuoi ufficiali, i tuoi sergenti, e tutti gli altri soldati ti verranno intorno a far festa, e — addio, e — buon viaggio, — e — ricordati di noi; — allora ti si stringerà il cuore, sai! ti si stringerà il cuore come quando sei partito da casa; e sceso giù nella strada, ti volterai a guardare per l’ultima volta quelle finestre della caserma, e ti fermerai, e se ti basterà la voce, dirai ancora una volta: — Addio, o mia seconda casa paterna, dove ho amato tanti amici, dove ho passati tanti bei giorni colla coscienza serena, dove ho tanto pensato e sospirato i miei cari; addio, mio povero letticciuolo; addio, mio buon sergente di squadra; addio; mio capitano, addio.... Che cos’hai? —

Il coscritto era immobile, attonito, colla faccia convulsa, il respiro affannoso e gli occhi lacrimosi scintillanti d’un sorriso ineffabile.

— Che cos’hai?

Fece uno sforzo per raccogliere la voce abbassando la testa e allungando il collo come se mandasse giù un grosso boccone; ma non la raccolse intera e gli venne appena fatto di dire in fretta e a mezza voce: — Niente. —

L’ufficiale sorrise.

— Sai scrivere?

— .... Un poco — rispose il coscritto col respiro tuttavia affannoso.

— Allora vieni con me. —

S’avviò verso la sua camera e il coscritto lo seguì. Entrati che furono, l’ufficiale fece sedere il suo buon paesano al tavolino, gli mise una penna in mano, un foglio di carta davanti, e gli disse: — Scrivi a tuo padre. —

Il coscritto lo guardò a bocca aperta.

— Scrivi a tuo padre.

— .... Che cosa?

— Che cosa hai visto, che cosa pensi, che cosa senti; quello che vuoi.

— Ma....

— Zitto; fin che non hai finito non ti permetto di dire una parola. —

E si rimise a leggere il giornale accanto alla finestra. Il coscritto continuò a guardarlo in aria di stupore, poi chinò la testa, pensò qualche minuto e cominciò a scrivere adagio adagio.

Dopo un quarto d’ora, l’ufficiale domandò: — Siamo vicini a finire?

— Finito, — rispose il soldato tutto contento.

— Leggi.

— Leggere?

— Già. —

Si vergognava.

— Leggi, ti dico. —

Si dispose a leggere.

— Ma dimmi prima: hai scritto la verità? Sei stato sincero? Hai detto proprio quello che pensi e quello che senti? —

Il soldato si pose una mano sul petto e alzò gli occhi al cielo.

— Leggi, dunque. —

Cominciò a leggere:

«Caro padre.

Sono arrivato al reggimento e ci fecero subito tagliare i capelli e poi ci vestirono. Quel signor ufficiale del nostro paese che tu sai come si chiama l’ho veduto quest’oggi nel cortile e abbiamo parlato insieme più d’un’ora. Non si mangia da signori, si sa; ma a far da mangiare per tanti è difficile farlo bene, e poi l’appetito non manca, basta fare il suo dovere. I superiori sgridano; ma non sono mica tutti cattivi, chè anzi c’è dei soldati che si sono fatti ammazzare per salvarli, e non volevano lasciarli neanche morti nelle mani dei nemici. C’è anche dei soldati che non sono mai stati in punizione, e così spero di me. E il tempo passa presto, perchè ci faranno viaggiare e ci sono le statue, i giardini e le chiese da vedere, e poi le manovre, poi anche i campi, e i generali si divertono insieme ai soldati e si fa la tombola. Poi fa piacere vedere la bandiera e sentire la musica; si trovano degli amici, e il colonnello vecchio si può dire che sia un nostro secondo padre e noi altri i suoi figliuoli. Intanto ti saluto e sta’ bene, ec. Tuo affezionatissimo figlio.»

— Bravo! —

Il soldato rise e abbassò la testa come fanno i bambini quando si senton dire che son belli.

— Adesso, per farmi piacere, andrai giù a bere un mezzo bicchiere di vino alla salute di tutti i coscritti. To’. —

E gli porse un biglietto.

— Signor ufficiale! — disse il soldato vergognandosi e facendo l’atto di rifiutare.

— Eh! — gridò l’ufficiale in tuono di minaccia.

Il coscritto prese il biglietto, e avviandosi per uscire, balbettò qualche parola di ringraziamento: — Signor ufficiale.... io.... non so proprio.... sento che....

— Silenzio! —

Uscì frettolosamente, scese le scale a tre scalini alla volta; fece due o tre salti nel cortile fregandosi le mani, ridendo e borbottando tra sè; entrò nella cantina; la vivandiera gli mescè un bicchier di vino con un bel garbo e un bel sorriso che gli fecero dimenticare la scena di poco prima; bevette, uscì....

Appena uscito, incontrò quel tal caporale, che gli si avvicinò con un viso meno agro e un fare più cortese.

— Di’ un po’: è tuo parente quell’ufficiale che ha parlato con te un’ora fa?

— No.

— Ma lo conoscevi?

— Molto.

— È quell’ufficiale del tuo paese che tu cercavi?

— Quello stesso.

— Io non aveva mica capito, sai, quando me lo avevi domandato....

— Oh non fa nulla.

— Se avessi capito t’avrei risposto.

— Grazie. —

Il caporale s’allontanò; il coscritto, rimasto solo, disse tra sè: — In fin dei conti, non è mica un cattivo giovane, no, questo caporale! —

In quel mentre i soldati cominciavano a rientrare a gruppi a gruppi in caserma, discorrendo forte e cantando. Fra gli altri, veniva innanzi un drappello di coscritti, un po’ brilli, che facevano un chiasso allegrissimo.

— Quando gli altri fanno il chiasso e tu cacciaviti subito in mezzo e fallo più di loro; — il coscritto si ricordò quelle parole — Bisogna far del chiasso, — pensò; — che cosa gridare?... Ah! Viva il soldato Perrier! — urlò con quanta voce avea in gola.

E gli altri, forse senza neanco aver capito, risposero ad alta voce: — Viva! —

Il nostro soldato si gettò in mezzo a loro, e cantando e gridando salirono confusamente nel dormentorio.

L’ufficiale, che lo avea guardato dalla finestra, disse fra sè: — Codesto giovinetto sarà un bravo soldato. —

E come s’era già fatto buio, e il cielo era tutto stellato, e si sentiva nel cortile quel gaio rumore, e nella strada sonava la fanfara della ritirata, tutto questo produsse in lui una commozione così subitanea, che quasi senza ch’ei se n’avvedesse o ne sapesse il perchè, levò gli occhi in su ed esclamò soavemente: — Perrier!

E poi un’altra volta: — Oh buon Perrier!... Dove sei? Senti il tuo nome? —


A guardare un bel cielo, di notte, ci vengono spontaneamente sulle labbra i nomi più venerati e più cari.

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