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UNA MARCIA NOTTURNA.
Che notte! Nè luna, nè stelle, un buio d’inferno;
non s’era mai visto una tenebra più fitta. Comunque non
corressero che i primi giorni di ottobre, pure tirava una
brezzolina d’autunno avanzato, e la si sentiva batter nel
viso sorda e sottile, e scorrer sotto i panni, e raggrinzare
le carni. Si era intorno alle nove della sera; il reggimento
aveva disfatto le tende e se ne stava schierato a traverso
il campo, colle armi al piede, aspettando l’ordine di partire.
I soldati, desti pur allora da un sonno scarso e disagiato,
se ne stavan là tutti curvi, raggranchiti, freddolosi,
con una cera agra e scontenta, colle mani in tasca
e i fucili abbandonati sul braccio; e invece del consueto
cicalìo, così vivace ed allegro, non s’udiva che un bisbigliar
rado, sommesso e svogliato. Era sì fitto il buio che,
a guardar quel campo di sulla strada, non vi si scorgeva
che la lunga fila delle lanterne appese in cima ai fucili,
ciascuna delle quali illuminava intorno a sè quattro o cinque
faccie piene di sonno. Laggiù, in un angolo del campo,
oltre l’ala estrema del reggimento, si vedevano muovere
in un piccolo spazio molti lumicini, da cui era debolmente
rischiarato un confuso affaccendarsi di persone
d’abito vario attorno a certi carri e a certe casse: i bagagli
del vivandiere. Qua e là pel campo luccicava ancora
qualche fiammella; eran gli ultimi guizzi dei fuochi che avevano accesi i soldati colla paglia delle tende per levarsi di dosso l’umidità contratta, dormendo, dal terreno. Tutto il resto, buio.
Ad un tratto echeggia un gran rumor di tamburi; poi silenzio. Le compagnie si volgon successivamente di fianco, le prime file si muovono, il reggimento parte. Passa, sopra un angusto ponticello, il fosso che separa dal campo la via, e là le file si accalcano, e si osserva un affollarsi di lumi che vanno ora avanti e ora indietro a seconda degli ondeggiamenti della folla, e partono due a due, e s’allungano per i due lati della via diritta in una doppia fila, e a poco a poco si confondono lontano in due strisce luminose ondulanti e serpeggianti come due gran redini di fuoco agitate dalla coda della colonna.
E si cammina; e per un po’ di tempo si ode un chiacchierio sommesso che muor poi a poco a poco, a poco a poco in un silenzio profondo, interrotto da qualche rauca vociaccia degli uffiziali che brontolano: — In ordine — ogni volta che, gettando l’occhio sonnolento sui soldati vicini alla lanterna, vi scorgono un po’ di allargamento o un po’ di serra serra. Tutti gli altri tacciono. Non s’ode che lo strascicato rumore delle pedate e il monotono tintinnìo delle scatole di latta, che segnano la cadenza del passo.
Col diffondersi del silenzio si comincia a diffondere il sonno, il tormentoso e terribile compagno delle marce notturne. Pover a chi n’è colto! Non v’ha riposo anteriore, nè colloquio di amico, nè liquor vigoroso, nè sforzo di volontà che lo vinca; bisogna cedere e subirlo.
Guardate là quell’uffiziale in mezzo alla via. Egli lotta da più d’un’ora col sonno; ma ormai le palpebre gli si chiudono irresistibilmente, tremole, gravi; e le ginocchia gli si piegan sotto; e la testa sollevata a stento gli ricade pesantemente sul petto; e le braccia gli penzolano inerti e senza forza. La mente a poco a poco gli si chiude, le immagini gli s’intorbidano, gli si confondono, gli si trasformano l’una nell’altra bizzarramente. Al suo sguardo velato di sonno traballano in confuso i soldati che camminano davanti ed ai fianchi; e gli alberi e le case dall’una e dall’altra parte della via, di cui appena si discernono i neri contorni, gli presentano certi aspetti deformi, mirabili, strani. Alle volte egli segue ancora coll’occhio le mura d’una casa quand’elle sono già d’un buon tratto passate, o gli par di veder nereggiare un casolare o un folto d’alberi dove non è. Tal’altra volta gli si para improvvisamente dinanzi, proprio nel mezzo della via, proprio lì sul suo passo, un grande ostacolo, una gran cosa nera, ch’ei non sa che sia; ma ei la vede, ma ella c’è, eccola, è lì, proprio lì, sta per darci contro col capo; si sofferma, stende il braccio, lo agita... nulla, non c’era nulla; tira innanzi. Trenta, cinquanta, cento passi, poi daccapo a sonnecchiare. E questa volta sogna. E gli pare di camminar solo, diretto non sa dove, o d’essere in tutt’altro luogo che là, lontano di là, forse a casa, in mezzo a tutt’altra gente, di giorno... Ad un tratto, gli colpisce l’orecchio il rumore delle pedate d’intorno; s’accorge, come d’improvviso, del tintinnar dei gamellini; si desta, gira lo sguardo, si ravvede, sbadiglia, ripiglia il passo, e, — poco dopo, — daccapo. Col mento inchiodato sul petto, una mano in tasca, l’altra sull’elsa della sciabola, va innanzi, abbandonato al suo peso, a passi ineguali, a sbalzi, tentennando, serpeggiando, tre passi di qua, quattro passi di là, — cinque — sei, — giù, una gran spallata nello zaino a un soldato. Si scuote, si sveglia, lo guarda un momento cogli occhi stralunati, si ravvede, si vergogna, scrolla la testa in atto di compatire se stesso, e poi ripiglia l’andare a passo franco e spedito. Dopo cento passi, daccapo. Dà un grande urtone in una persona che gli cammina davanti, si sveglia, guarda: — Oh! scusi, capitano. — Niente, si figuri! Son cose che succedono a tutti.
Ti si accosta un compagno. Camminate per un po’ di tempo, senza scorgervi, l’uno al fianco dell’altro. Poi: — Sei qui? — Risposta: un grugnito. — Hai sonno? — Un po’. — Dammi il braccio. — E vi date il braccio. Spalla contro spalla, fianco contro fianco, e avanti, alla meglio, a fiancate, a traballoni, a sconquassi. Otto, dieci, venti passi, e il sonno vi piglia, e le vostre teste pesanti si ripiegano tutte e due dalla stessa parte e si picchiano. — Ahi! — Vi sciogliete.
E intorno intorno tutti cheti; e sempre buio fitto; sempre le due lunghe file di lumi che ondeggiano lunghesso i lati della via; e sempre lo stesso monotono tintinnar dei gamellini.
Tutto ad un tratto suona in mezzo alle file una voce stizzosa: — Su quel lume! — E il soldato che porta la lanterna e che, preso dal sonno, aveva allentato il braccio e lasciava cadere il fucile sul capo di chi gli vien dietro, si desta, ripiega il braccio, e rialza il lume.
Altri pochi passi, e un sonoro e prolungato sbadiglio a raglio d’asino rompe il silenzio. Due o tre voci gli tengon dietro a contraffarlo; una risata, e zitti.
Altri pochi passi, e s’alza una voce stridula in tentativo di canto. Un diavolìo d’urli di protesta e di disapprovazione si solleva dalle file. — Lasciala lì. — A un’altra volta. — Dormi in pace. — E il mal ispirato cantore ricaccia in gola il resto della canzone e si tace.
Altri venti passi, e si ode un grido acuto e poi un digrignar rabbioso di bestemmie. — Che c’è? — Chi è? — È un soldato, colto dal sonno, che ha dato una violenta stincata contro un paracarri — E intorno intorno: — Bada ove vai. — Sfido io, cammina a occhi chiusi. — L’hai? tientela.
Dopo un altro po’, scroscia una gran risata alla coda della compagnia, e un: uh! prolungato in tono di corbellatura. — Cos’è stato? Che è accaduto? Chi è? — È un povero diavolo che camminava sull’orlo della via, e sonnecchiava e tentennava e finì col rotolar giù nel fosso. — È profondo? — Ma! chi ci vede? — Guardiamo. — Animo, animo, (un uffiziale) che fate lì? Andate oltre. S’alzerà da sè. E voi, volete tener alto quel lume?
E silenzio, e avanti, e sempre buio, e sempre quella brezzolina gelida, mordente, uguale, che batte molestamente nel viso e mette un brivido che par d’esser d’inverno.
— Oh che sonno! Che ora sarà? Le dieci, forse; fors’anco di più. Che notte! Non ci si vede nulla. Ohè, di’, amico, quanto tempo è che si cammina?... Parla, oh; quanto tempo? Dorme, non sente; a momenti si rompe il collo... Ho sonno anch’io. Ah! non poter dormire! E gli è un po’ di tempo che si va! Che noia non ci veder nulla! Se si potesse dormire in piedi... Ho da provare? Che sonno, Dio mio, che sonno... che sonno... la notte è buia... buia... e il vento... dormire...
Ancora un momento, e cadrà nel fosso. Uno squillo di tromba. Alto. L’ha scampata. Giù tutti, come corpi morti; si casca dove si casca, sulle pietre, tra le spine, nel fango, dove che sia: tutto è comodo, tutto pulito tutto soffice, tutto delizioso. Lì, sopra un mucchio di sassi, dall’un lato della via, s’è rovesciata, d’un sol colpo, tutta una squadra, l’un sull’altro, l’uno attraverso dell’altro; la canna del fucile sotto la schiena, la borraccia di un compagno sotto la testa, un piede del caporale di squadra contro la faccia, lo zaino d’un altro compagno contro un fianco; la mano, talvolta, fra l’erbe, dentro cosa d’umido e di molle..; ma che monta? La voluttà del sonno è così cara, così dolce, così potente, che non si può badare ad altro che a goderla intera e ad abbandonarvisi anima e corpo. Oh la dolcezza d’un lungo e tormentoso bisogno finalmente appagato! In tutte le membra si insinua e si spande un senso di piacer languido, uno sfinimento soave... Oh che delizia! dormiamo.
Se su quel punto della strada battesse per un momento il raggio della luna, oh che quadro bizzarro ci si offrirebbe allo sguardo! Gli è come un mucchio di cadaveri buttati là alla rinfusa: altri supino, altri bocconi, altri disteso, altri rannicchiato, e qua e là braccia e gambe e piedi e fucili che spuntano di mezzo alle gambe e alle braccia d’altrui; una mescolanza che, a distinguervi membro per membro cui appartenga, ci sarebbe un gran da fare. Sulle prime, in quel mucchio di corpi, succede un po’ di movimento, un po’ di rimescolìo; ciascuno cerca, dimenandosi lievemente, la più comoda positura, e ne nasce un po’ di litigio. — Fatti in là, sangue di Bacco! — Via quel piede! — Tira in là cotesta gamba; o non vedi che me la dai sul muso? — Ma gli è l’affar d’un momento, e poi tutti zitti. Un sonno pieno e profondo s’insignorisce di tutti. Dapprima si sente un respirar grosso e frequente; poi come un sospirar fievole ed interrotto; poi un gemere sordo e arrantolato; infine un russar generale su tutti i tuoni, bassi, baritoni, soprani, consonanti e dissonanti, striduli e sonori, una musica d’inferno.
Uno squillo di tromba; è l’attenti.
Di quel mucchio nessuno l’intende, nessuno si muove; tutti quieti, immobili, come corpi morti. Un altro squillo; e niente; immobili come prima. — Vi farò alzar io, adesso! — tuona sui dormenti una voce minacciosa. A quella voce, ecco là una gamba si stira, qui si stende un braccio, più in là si dondola una testa, più in qua si torce una vita, come segue in un gruppo di biscie che si svolgano lentamente al tepore del sole. — Ci alziamo adunque, sì o no? — ripete più irosamente la voce di prima. Uno dei dormenti s’alza a sedere, un altro si frega gli occhi col rovescio della mano, un altro tasta intorno in cerca del cheppì, un quarto è già in piedi, e un quinto e un sesto... Tutti ritti: oh finalmente! Ma che pena, Dio mio, che tormento esser destati così bruscamente e doversi levar su proprio nel punto che si cominciava a gustare il sonno! — Dov’è il mio cheppì? — E il mio fucile? — Dammi il mio cheppì, di’. — Questo è il mio. — Ma no; il tuo è quest’altro. — Di chi è questo fucile? — A me, dammelo. — Va a trovar la nappina, adesso! — E lì cerca, e raspa, e fruga di qua di là, fra le pietre della via, giù nel fosso, fra l’erbe, nei cespugli, ansando, sbuffando, bestemmiando... Squilla un’altra volta la tromba e il reggimento si rimette in cammino.
E sempre buio, e sempre la stessa brezzolina fredda, che agghiaccia il muso e increspa la pelle. Dio, che freddo a star fermi! si trema. Le lanterne son tutte spente: oscurità completa. Chi sa in che confusione camminan questi bricconi! Fortuna per loro che non ci si vede.
Dopo una mezz’ora di cammino silenzioso, qualcuno comincia a scorgere, lontano lontano, un lumicino tremolante, che a volta a volta si eclissa e riappare come una lucciola. — Che sarà? — Andiamo innanzi; — ancora; — ancora un po’; — un altro pochino. Il lumicino non si eclissa più; appare più grande e splende più vivo. — Lo vedi? — È la lanterna alla testa del reggimento. — No no, è un paese. — Ma che paese! — Andiamo innanzi — innanzi, — innanzi... Eh?... — Hai ragione, è un paese. — La voce si propaga; i sonnecchianti si scuotono; i dormenti si svegliano; nasce un po’ di bisbiglio. — Oh! benedetto il cielo; ecco le case, ecco la via d’entrata, eccoci entrati. —
L’ora è tarda; le vie son quasi deserte; lo scalpiccìo del reggimento echeggia distintamente in quella solitudine, e il bisbiglio si spande a destra e sinistra per le vie torte ed oscure. Casupole di qua, casupole di là, e tutto chiuso, sbarrato, come se fosse un villaggio abbandonato. Ma a misura che si procede, a manca e a dritta della via, a pian terreno, si schiude a mezzo qualche porticina per cui si vedono luccicar dentro i focolari, e affacciarsi e sporger fuori timidamente la testa qualche donnicciuola già spogliata a mezzo, e accorrere fuori della soglia i fanciulli, e ai piani di sopra aprirsi qualche impannata, e tralucere l’interno lume, e apparir dietro i vetri una figura nera che guarda giù che cos’è l’insolito tramestìo... Ah! quella figura nera sarà scesa allora allora dal letto, dove dormiva e tornerà tra breve a dormire saporitamente i suoi sonni queti e soavi! Oh quel letto! Par di vederlo, par d’avere sott’occhio la rimboccatura delle lenzuola fatta e distesa sul capezzale, e di passarci la mano su, e di sentir la fragrante freschezza della tela pur ora uscita di bucato. Oh fortunato chi dorme là entro! Oh quando riavrò il mio letto anch’io! Felici, beati tutti coloro che hanno un letto!
La via, prima torta ed angusta, si fa dritta a poco a poco e si allarga, — si allarga, — ecco, sbocca in una piazza. La bella piazza! Due file a destra, due file a sinistra: tutti guardano intorno. Qua e là gruppi di curiosi, qualche bottega aperta, lì una chiesa, là la casa del sindaco, una fontana, un porticato, e laggiù... Oh, guarda, guarda: un caffè!
Strana, ma pur vera emozione! Traversate di notte, dopo una marcia lunga e penosa, un villaggio; passate, stanchi, spossati, assetati, sordidi di polvere e di fango, disavvezzi da molto tempo da ogni gentile costumanza e da ogni diletto della vita cittadina, passate dinanzi a un caffè; e vi batterà il cuore d’una certa tenerezza, d’un certo struggimento malinconico, quasi d’una mesta pietà di voi stessi, e lancierete in quel caffè uno sguardo avido, invidioso, bieco d’amore collerico, come fanno i bambini; e serberete per molto tempo in mente l’immagine del loco, degli oggetti e delle persone.
Quello là era un caffè ampio, illuminato, luccicante di specchi, pieno di uffiziali di stato maggiore e di aiutanti di campo, coperti d’oro, d’argento, di ciondoli, di pennacchi, di medaglie e di croci; altri dentro, altri sulla soglia, altri fuori sulla piazza, e facevano tutti un continuo dimenar di braccia e di gambe e un chiassoso strascicare di sciabole. Un denso nuvolo di fumo avvolgeva ogni cosa; si vedeva e si sentiva un gran stappare di bottiglie di birra, e un affaccendarsi e un correre di fattorini, rossi nel viso, trafelati, confusi dalla frequenza e dalla splendidezza insolita degli avventori; un girare e rigirare alla pazza dal di dentro al di fuori, dal di fuori al di dentro, chiamandosi, garrendosi gli uni cogli altri, che non sapevano più dove avessero la testa; e sul dinanzi della porta una folla di popolo con tanto d’occhi e di bocca aperta a contemplare i galloni più larghi e i petti più medagliati. E in fondo al caffè, proprio in fondo in fondo, in un angolo, dietro a un tavolino circondato dagli uffizialotti più giovani, sopra una sedia rialzata, in una specie di nicchia, di tempietto, un bel visino di fanciulla su cui combattevano amabilmente il pudore e la civetteria, in mezzo a tanti inconsueti omaggi, a tante garbatezze di lega signorile, a tante sviscerate proteste, e a tante audaci preghiere e a tanto contorcersi e molleggiare di vite sottili e di gambe co’ calzoni alla pelle.
Tutti gli occhi si figgono avidamente là, su quella figura gentile, su quel bel viso, e vi restano fitti fin ch’ella dispare allo sguardo. Non sono pensieri, non sono immagini e desiderii di voluttà ch’ella ci desta in quei momenti; oh no; bensì ci mette in cuore come un desiderio stanco di pace e di affetto, una malinconia vaga, e ci sentiamo improvvisamente soli, abbandonati e scoraggiti. La donna ci richiama vivamente alla memoria le dolcezze quete e soavi della vita domestica, le quali, paragonate alla nostra dura vita di soldato, appunto in quell’ora, in quei momenti in cui di tal vita non si provano che le amarezze e i disagi, non le consolazioni, nè i fieri contenti; ci fan quasi parere d’essere infelici. Quel viso di donna ci ravviva in mente l’immagine di nostra madre e di nostra sorella o di qualche creatura più ardentemente cara, e, quando esso ci fugge dallo sguardo, noi chiniamo la testa, e pensiamo, e diventiamo tristi, e quelle tenebre par che ci pesino sul petto e ci mozzino il respiro, e guardiamo e riguardiamo il cielo se comincia a schiarire, e in quel malinconico vaneggiare della fantasia, ci pare che ci addormenteremmo così volentieri per sempre, vedendo comparire ancora una volta nostra madre e il sole...
Il reggimento è fuor del villaggio. Sempre lo stesso buio e la stessa brezzolina. Di lumi non se ne parla più chè son tutti spenti da un pezzo. E dunque? Dovremo noi seguitare fino alla tappa il reggimento, con questo fresco e con questo buio, ed assistere al ripetersi di tutte le scene che abbiamo vedute fin qui? Quelli a cui garbi lo seguano; io lascio ch’ei faccia il suo cammino, gli auguro che trovi un buon campo, e vi mangi un rancio saporito e vi dorma un sonno lungo e tranquillo, perchè, a dire il vero, questi poveri soldati n’hanno bisogno e se lo son meritato.