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◄ | Quarto stasimo |
Entra Creonte, in preda alla disperazione.
creonte
Ahimè, che devo far? Gemere, piangere
la mia città, che da tal nembo è cinta
da sprofondarla in Acheronte? E morto
per la patria è mio figlio, e fama ottenne
gloriosa per lui, per me funesta.
Dalla rupe del drago, ov’egli morte
diede a sé stesso, lo raccolsi or ora,
misero me, con le mie man lo addussi
e tutta un pianto è la mia casa. E giungo,
io vegliardo, alla mia vecchia sorella,
a Giocasta, perché lavi ed esponga
il figlio mio, che piú non è: ché deve
render, chi non è morto, ai morti onore,
culto rendendo al Nume sotterraneo.
coro
Uscita dalla reggia è tua sorella,
Creonte, e insiem con lei la figlia Antigone.
creonte
E perché mai? Per quale evento? Dimmelo.
corifea
Udí che i figli, un contro l’altro, a pugna
pel possesso venir dovean del regno.
creonte
Che dici? Intento al mio figliuolo, nuova
di quest’altra sciagura a me non giunse.
coro
Già da un pezzo partita è tua sorella.
E tra i figli d’Edipo io già seguíto
il duello mortal credo, o Creonte.
creonte
Ahimè ché un segno io già distinguo: il ciglio
d’un araldo aggrondato, e il viso tutto.
Ei quanto avvenne, certo ci dirà.
Giunge un araldo.
araldo
Come, ahimè, con che parole, potrò darvi la novella?
creonte
Siam perduti; dei tuoi detti il principio non è lieto.
araldo
Tristo me, l’annunzio io reco di gran mali, lo ripeto.
creonte
In aggiunta ai mali antichi nuovi mali. Orsú, favella.
araldo
O Creonte, i figli entrambi spenti son di tua sorella.
creonte
Ahimè!
A Tebe e a me gravi cordogli annunzi.
Casa d’Edipo, udita hai la sciagura?
Morti per un sol fato entrambi i figli?
coro
Tali, che piangerebbe anche, qualora
senso avesse, la casa.
creonte
Ahi, piú d’ogni altra
grave sciagura! Oh malanni! Oh me misero!
araldo
O se sapessi i mali ancor seguíti!
creonte
Piú miseri di questi? E come dunque?
araldo
Coi due figliuoli tua sorella è morta.
coro
Levate gemiti, levate gemiti:
i bianchi cubiti sui nostri capi le mani avventino.
creonte
Deh, quale fine, o misera Giocasta,
hai patita, mercè delle tue nozze,
e degli enigmi della Sfinge! Or, come
seguí la strage dei fratelli, e l’esito
del male che imprecò su loro Edípo?
araldo
Già sai gli eventi che alle torri innanzi
felicemente volsero: la cerchia
delle mura non è tanto lontana,
che tu possa ignorarli. Or, poi che i giovani
figli del vecchio Edípo, ebber le membra
cinte dal bronzo, mossero allo scontro,
uomo contro uomo, in mezzo della lizza.
E, volto il guardo verso Argo, tal prece
Poliníce levò: «Dea veneranda
Era — ch’io sono or tuo, poiché la figlia
sposai d’Adrasto, e n’abito la terra —
fa’ tu che uccida mio fratello, e insanguini
l’ostile mia vittorïosa destra,
e ottenga un tal serto esecrando, uccidere
il mio germano». E molti lagrimavano,
pensando alla lor sorte, e rivolgevano
l’un verso l’altro la pupilla. — Etèocle,
poi, di Pàllade al tempio il guardo volse,
e cosí la pregò: «Figlia di Giove,
fa’ tu che l’asta mia vittoriosa,
da questa man, da questo braccio io vibri
al mio fratello in seno, e l’uomo uccida
che la mia patria a saccheggiar qui venne».
E come poi lanciato fu lo squillo
della tromba tirrena1, e un fuoco parve,
segno del sanguinoso urto, proruppero,
con terribile slancio, uno su l’altro.
E cozzarono come apri che arrotano
le selvatiche zanne, e aveano madide
le mascelle di bava. E pria si urtarono
con le lance; però si rimpiattavano
sotto i rotondi scudi; onde le cuspidi
scivolavano indarno. E dove l’uno
sporger vedesse del nemico il viso
sopra lo scudo, per colpirlo al viso
la lancia qui volgea; ma pronto l’altro
l'occhio abbassava ai fori dello scudo,
e vano usciva della lancia il colpo.
E piú dei due che combatteano, molli
erano di sudor quei che miravano,
per terror degli amici. Ed ecco, Etèocle
in un sasso inciampò, che sotto il piede
gli era venuto, ed una gamba espose
fuor dello scudo. E Poliníce, visto
un punto da ferire offerto al ferro,
vibrò la lancia, e attraversò la tibia
colla cuspide argiva; e un alalà
tosto levò dei Dànai l’esercito.
E a questo punto della lotta, Etèocle,
ferito già, vedendo ignudo l’omero
di Poliníce, contro il petto a lui
vibrò la lancia, e riempí di gioia
tutti i Cadmèi. Ma l’asta si spezzò
presso alla punta; e quando ei ne fu privo,
un gran macigno prese, e l’avventò,
e la lancia al fratello a mezzo franse.
Pari d’arme cosí furono, quando
scorsa a entrambi di mano era la lancia.
E, delle spade l’else allor ghermite,
ed uomo ad uomo stretto, e scudo a scudo,
combattevano; ed alto era il frastuono.
E una tessala finta immaginò
Etèocle allora, e l’esegui — fra i Tèssali
l’aveva appresa — . Il corpo svincolò
da quella stretta, il pie’ manco ritrasse,
e, riparando ben del ventre il cavo,
si spinse avanti al destro lato, e il ferro
nell’umbilico a suo fratello, sino
alle vertebre spinse. E, rilasciati
e fianchi e ventre insiem, cadde, sprizzando
il sangue a rivi, Poliníce misero.
E l’altro, ornai sé vincitor credendo,
trionfator, gittò la spada a terra,
e si diede a spogliarlo; e a tal bisogna
volta la mente avea, non al fratello.
E questo lo perdé: ché l’altro, un fioco
alito ancor traendo, il ferro stretto
serbato avea nella fatal caduta;
e, surto a stento, lo cacciò nel fegato
d’Etèocle, esso che prima era caduto.
E, mordendo la terra, un presso all’altro
giacciono; ed indivisi i beni restano.
corifea
Ahi ahi, quanto i tuoi mali, o Edípo, io piango!
Quanto imprecavi, un Dio, sembra, compie’.
araldo
I mali odi che a questo ancor seguirono.
Poiché caddero spenti i due fratelli,
la madre loro sopraggiunse, misera,
con la vergine figlia; e in tutta fretta
moveano. E appena li mirò trafitti
dalle piaghe mortali: «O figli miei,
tardi — gridò — l’aiuto mio vi giunge!».
Ed ora a questo, ed ora innanzi a quello
si prosternava, e li piangeva, e il lungo
gemea travaglio del suo seno; e insieme
la sorella, che seco era: «O fratelli
che dovevate alla cadente madre
esser sostegno, che le nozze mie
tradite avete!». — E la materna voce
Etèocle udí, dal sen trasse un anelito
di morte e, molle di sudor la mano
le porse, e, senza pronunciar parola,
la salutò con gli occhi, lagrimando,
sí che paresse l’amor suo. Né spento
era ancor Poliníce; e la sorella
vide, e l’annosa genitrice, e disse:
«Madre, perduti siamo. Io te compiango,
e la sorella, e il mio fratello spento;
ch’esso nemico m’era, eppur diletto.
Seppelliscimi, o madre, e tu sorella,
nel patrio suolo, e la città placate
adirata: ch’io tanto almen consegua
della terra patema, anche se privo
fui della casa. Le pupille serrami
con la tua mano, o madre — ed egli stesso
se la trasse sugli occhi — ; e addio: la tenebra
già mi circonda». Ed entrambi esalarono
la lor misera vita in un sol punto.
E la madre, poiché tanta sciagura
mirò, sconvolta dal dolore, tolse
di fra i morti una spada, e un atto orribile
compie’: s’immerse nella gola il ferro.
E morta giace anch’ella, ora, fra i suoi
dilettissimi figli, e sopra entrambi
le braccia stende. E, in pie’ surto, l’esercito
venne a contesa di parole. Noi
vincitor dicevamo il nostro re,
ed essi il loro. E i duci dissentirono:
quelli dicean che Poliníce il primo
colpo di lancia inferto aveva: questi
che niuno, poiché morti erano entrambi,
dir vincitore si poteva. In questa
di fra le schiere era sparita Antígone.
E tutti all’armi corsero. E fu provvido
consiglio che i Cadmèi seduti fossero
presso gli scudi. Súbito balzammo
sopra gli Argivi, e li cogliemmo quando
non avean l’armi cinte ancora, e niuno
resisté; ma fuggiaschi il piano empierono.
Ed il sangue correa di mille e mille,
caduti spenti sotto l’aste. E quando
vinta fu la battaglia, alcuni alzarono
il simulacro, per trofeo, di Giove:
altri gli scudi degli spenti Argivi
portano, come spoglie, entro la rocca;
dei caduti le salme con Antígone
degli amici al compianto altri qui recano.
Di questi eventi, alcuni felicissimi
furon per Tebe, ed altri infelicissimi.
Si appressa un gruppo di guerrieri che recano le tre salme. Con loro è Antigone.
coro
Non piú per udita, sappiamo
la sventura di questa progenie.
Ma possiamo vedere tre salme
appressarsi alla reggia, cui spinse
fra le tènebre sola una morte.
antigone
Senza celare le morbide
guance inondate dai riccioli,
senza curar, per virgineo
pudore, la porpora
che sotto le palpebre
arrossa il mio volto,
giungo, Baccante dei morti,
dalla chioma gettando ogni benda,
gittando la stola di morbido croco
guida alle salme, ahimè ahi,
gemebonda ahimè ahi!
O Poliníce, il tuo nome, fatidico ahimè, fu per Tebe:
fu la tua gara, non gara, ma strage su strage
funesta alla casa d’Edípo,
compiuta con empio sterminio,
con luttuoso sterminio.
Chi chiamerò, quale cantico
che echeggi i miei gemiti,
ond’io lagrimo, lagrimo,
o stirpe, o stirpe misera,
queste tre consanguinee
salme recando, la madre e i figli,
dell’Erinni ludibrio,
che addusse la progenie
quando il sagace interprete, l’enigma
intese della Sfinge, e pose termine
alla sua vita, ai cantici.
Oh padre, oh padre, ahimè,
quale Ellèno, qual barbaro,
mai, fra gli antichi principi,
nato di sangue efímero,
patí cosí visibile
lutto, con tanto spasimo?
Misera me! Quale alígero
sopra le vette piú eccelse
di querce o d’abete, alla nenïa
mia, di quest’orfana,
risponderà?
Ahimè ahimè, fra i gemiti,
sopra questi cadaveri
io piango: in solitudine
la vita mia fra lagrime
sempre trascorrerà.
Su chi pria, lacerandomi
le chiome, le primizie
ne gitterò? Sui gèmini
materni seni onde il latte suggéi,
o sulle piaghe orribili dei due fratelli miei?
Ahi ahi, la casa lascia,
vecchio padre, e qui reca
la tua pupilla cieca;
mostra, Edípo, l’ambascia
del tuo destin. Poiché sulle tue palpebre
la caligine oscura
gittasti, entro la reggia
trascini il viver tuo, che a lungo dura.
M’odi tu, che per l’aule
l’antico pie’, vagando incerto, inoltri,
oppur t’adagi su dogliose coltri?
Dalla reggia esce barcollando Edipo.
edipo
Perché dalla camera buia,
dov’io mi giacevo, o fanciulla,
con misere lagrime
hai voluto che uscissi alla luce,
poggiando al bastone
il cieco mio piede,
io, fatuo canuto
fantasma, dell’ètere
io sogno volubile, io morto
dagl’Inferi sorto?
antigone
Udirai tristi nuove: i tuoi figli,
padre mio, piú non veggon la luce,
né la sposa che sempre al bordone
tuo presso, era guida
al cieco tuo pie’.
Oh padre, oh padre, ahimè!
edipo
Ahimè ahi sciagura! Non posso che gemere, piangere.
Narrami o figlia: come rapite
furon da un unico fato tre vite?
antigone
Non per ingiuria, non per ludibrio,
ma per doglianza parlo: il tuo Dèmone,
con fiero peso
di spade, ed impeto di fuoco, e furia
di tristi pugne, sui tuoi figli è sceso.
Oh padre, ahimè!
edipo
Ahi!
antigone
Perché gemi tanto?
edipo
Figlia!
antigone
Ragione avresti ben di pianto,
se del sole potessi veder gli aurei cocchi,
e su queste due salme volger gli occhi.
edipo
È chiara dei miseri miei figli la sorte:
ma come, o figliuola, la sposa
spirò? Per che misera morte?
antigone
Tutti versare la videro lagrime, gemiti
levare, porgere
supplice il seno
supplice ai figli. Trovò la madre
i figli presso le porte Elettre,
che sopra un piano di loto florido
l’un contro l’altro l’aste vibravano,
si trafiggevano di colpi, fieri
come leoni figli d’un’unica
spelonca, gelida
di sangue offerta sacrificale,
che Marte offerse, che Averno accolse.
Ed una spada di bronzo tolta di fra le salme,
nel proprio seno la immerse, cadde,
pel duol dei morti figli, tra i figli.
In questo giorno sopra la nostra casa raccolse,
o padre, tutti gli affanni il Dèmone
che questi eventi guida al loro esito.
corifea
Per la casa d’Edípo, è questo giorno
di molti mali origine. Deh, sia
la vostra vita in avvenir piú fausta!
creonte
Bastino i lagni omai, ché l’ora è già
di pensare alle tombe. Edípo, e tu
odi ciò ch’io dirò: di questa terra
il governo mi die’ tuo figlio Etèocle,
che sposa diede la tua figlia Antígone,
con la sua dote, al mio figliuolo Emóne.
Ora, io non lascerò che ancor tu viva
fra queste mura: ché Tiresia disse
ben chiaramente, che non mai fortuna
avrebbe Tebe, sinché tu vivessi
in questa terra. Or tu parti. E non già
per esserti nemico io te lo impongo,
né per ingiuria; ma le Furie tue
temo che alla città sciagura arrechino.
edipo
O fato, o quanto me, sin dall’origine,
infelice rendesti e sventurato,
come alcun altro mai non fu degli uomini.
Pria che dal grembo di mia madre a luce
venissi, ancor non concepito, Apollo
a Laio profetò ch’io l’assassino
diverrei di mio padre. E come io nacqui,
misero me, volle mio padre uccidermi,
che m’avea generato, ei che pensava
che a lui nemico nato ero e ch’ei morte
aver da me dovesse. E mi mandò,
mentre io cercavo la mammella, misero
pasto alle fiere. Eppur, di qui fui salvo.
Deh, fosse allor del Tàrtaro fra i baratri
senza fondo, piombato il Citeróne,
che non mi sterminò! Mi diede un Dèmone
al re Pòlibo, servo. E poi che uccisi,
misero me, mio padre, il letto ascesi
dell’infelice madre, e generai
figli e fratelli miei, che poscia uccisi:
ché la maledizione ebbi in retaggio
da Laio, e ai figli la trasmisi: ch’io
tanto folle non son, che tanto scempio
contro le mie pupille e i figli miei
senza il voler di qualche Dio tramassi.
E sia. Ma che farò, tapino, adesso?
Al cieco piede mio chi sarà guida?
Questa ch’è morta? Se vivesse, certo
lo so, fatto l’avrebbe. O questa nobile
coppia dei figli? Ahimè, ché piú non sono!
Tanto giovin sono io, che la mia vita
io possa sostentar? Perché, Creonte,
mi stermini cosí? Ché tu mi stermini,
scacciandomi da Tebe. Eppure, vile
non mi vedrai, le tue ginocchia stringere
non mi vedrai: non tradirò, per quanto
sventurato, la mia nobile origine.
creonte
Hai detto bene, che non vuoi prostrarti
ai miei ginocchi: ed io non lascerei
che tu qui risiedessi. Ora, di queste
due salme, una portata entro la reggia
sia; ma costui, che con gli estranei venne
a distrugger la patria, oltre i confini
gittato sia: senza sepolcro resti
di Polinice il corpo. E sia lanciato
ai Cadmèi tutti questo bando: chi
sarà sorpreso che ghirlandi o cuopra
questa salma di terra, avrà la morte.
E tu, lasciato il triplice compianto
di queste salme, nella casa, Antígone,
torna, a virginea vita; e il giorno attendi
in cui t’accoglierà d’Emóne il talamo.
antigone
Miseri noi! Fra che sciagure, o padre,
siamo piombati! E per te gemo io, piú
che per i morti: ché su te, sciagura
non s’aggrava qui piú, lí meno: in tutto
sei sventurato, o padre. Ed a te chiedo,
nuovo signore: a che mio padre oltraggi?
Da questo suol perché lo scacci? E a che
contro un povero estinto un bando lanci?
creonte
È d’Etèocle voler, questo, non mio.
antigone
Oh folle! E folle tu, che ad esso ottémperi.
creonte
Come? I voleri suoi compier non debbo?
antigone
No, poiché tristi sono, empî comandi.
creonte
Che? Non è giusto darlo ai cani in pasto?
antigone
La pena che chiedete, equa non è.
creonte
Sí: stranïer non era, e fu nemico.
antigone
E la pena al destino ei ne pagò.
creonte
Anche al sepolcro paghi adesso il fio.
antigone
Di che? Chiese la sua parte di terra.
creonte
Rimarrà senza sepoltura, sappilo.
antigone
Da me l’avrà, se pur Tebe lo vieta.
creonte
Seppellirai vicino a lui te stessa.
antigone
Bello è, presso giacer, due che s’amavano.
creonte
Costei sia presa, e sia condotta in casa.
antigone
No, ch’io non lascerò questo cadavere.
creonte
Il Dio vuol questo, e non ciò che a te piace.
antigone
E legge è pur, che i morti non s’oltraggino.
creonte
Niun su costui porrà la molle polvere.
antigone
Per la madre Giocasta io te ne supplico.
creonte
Impetrar nol potrai: t’affanni invano.
antigone
Lascia che di lavacri almen l’asperga.
creonte
Questo sia proibito a tutta Tebe.
antigone
Ch’io bende apponga alle selvagge piaghe.
creonte
Niun onor devi a questa salma rendere.
antigone
Che almen la bocca tua baci, o carissimo!
creonte
Non far di pianti alle tue nozze augurio.
antigone
Io, viva, nozze con tuo figlio stringere?
creonte
E schivarle potresti? È inevitabile.
antigone
Quella notte sarò nuova Danàide2.
creonte
Vedi l’ardire suo? Vedi l’oltraggio?
antigone
Chiamo testi al mio giuro il brando e il ferro.
creonte
Perché ti vuoi da queste nozze sciogliere?
antigone
Esule andrò con questo padre misero.
creonte
Nobiltà tu dimostri, e insiem follia.
antigone
E se piú vuoi saper, con lui morrò.
creonte
Al figlio mio non darai morte: vattene.
Creonte parte.
edipo
Lodo il tuo pronto buon volere, o figlia.
antigone
Dovrei sposare, e tu solo andar esule?
edipo
Resta felice: il mal patir saprò.
antigone
Chi di te cura avrà, padre? Sei cieco.
edipo
Ove il fato m’adduca, io lí starò.
antigone
Edípo ov’è? Dove gli enimmi celebri?
edipo
È spento: un dí beommi, uno mi strugge.
antigone
Non dovrei dei tuoi mali esser partecipe?
edipo
Sconvien, col cieco padre errar la figlia.
antigone
Anzi, è bell’opra, se a modestia unita.
edipo
Guidami or tu, ché la tua madre io tocchi.
antigone
Stendi la mano: è qui l’antica salma.
edipo
O madre mia, mia sposa infelicissima!
antigone
Giace infelice, ed ogni mal l’oppresse.
edipo
E dove sono, Poliníce, Etèocle?
antigone
L’uno all’altro vicin distesi giacciono.
edipo
La cieca mano appressa ai volti miseri.
antigone
Ecco, la mano ai morti figli appressa.
edipo
Misere salme, care al padre misero!
antigone
O Poliníce, o nome dilettissimo!
edipo
Compiuto dell’Ambiguo, ecco, è l’oracolo.
antigone
Quale? Altri mali ancor tu mi dirai?
edipo
In Atene morire esule devo.
antigone
Quale t’accoglierà terra dell’Attica?
edipo
Colòno sacra, dell’equestre Nume3
soggiorno. Orsú, tu guida il padre cieco,
quando vuoi dell’esilio esser partecipe.
antigone
Muovi al misero esilio, padre mio, d’anni grave,
la man diletta porgimi:
io per te sarò l’aura che sospinge la nave.
edipo
Ti seguo, eccomi, o figlia:
e tu sii guida misera, al mio pie’.
antigone
Misera, sí; fra le tebane vergini,
niuna ve n’è misera al par di me.
edipo
Dove sospingo il vecchio
mio pie’? Porgimi, o figlia, il mio bordone.
antigone
Qui seguimi, qui seguimi,
il piede qui, qui colloca,
o tu di sogno fatua visïone.
edipo
Ahi, miserrimo esilio!
Ahimè, bandirmi cosí grave d’anni!
Ahimè, patisco atroci, atroci affanni.
antigone
Dai tuoi lagni desisti:
non punisce degli uomini
Giustizia le follie, non vede i tristi.
edipo
Io son quei che di gloria
e di vittoria sino al cielo ascesi,
perché l’inesplicabile
della vergine Sfinge enigma intesi.
antigone
Perché la gloria vai della Sfinge
rammemorando? T’opprime or misera
calamità,
che dalla patria via ti sospinge,
padre, a morire dove sarà.
Ed io, lasciando brama di lagrime
alle fanciulle dilette, in bando
vo’ dalla patria,
come a fanciulla sconviene, errando.
Ma la mia pïetà
verso il mio padre misero,
buon nome a me darà.
Me tapina! E gli oltraggi al mio fratello
fatti, che dalla reggia
lontano giace, spento e senza avello?
Dovessi, o padre, anche morir nell’opra,
debito è che di terra io lo ricopra.
edipo
Toma alle amiche care.
antigone
Son sazia dei miei lài.
edipo
Torna alle preci, all’are.
antigone
Son sazia dei miei guai.
edipo
Almen torna ov’è Bromio
e l’alpestre inaccesso
recinto delle Mènadi4.
antigone
Al Dio per cui la nèbride
cadmèa cingevo spesso,
celebrando per Sèmele
del tíaso i sacri riti?
Offersi onore ai Súperi,
ma furon mal graditi.
edipo
Or mirate questo Edípo, voi di Tebe abitatori,
che spiegò l’arcano enigma, ch’ebbe un giorno i sommi onori,
che le stragi della Sfinge, che il poter troncò da solo,
ora in bando, afflitto e misero lungi va da questo suolo.
Ma perché vado gemendo, perché mai lagnarmi? Il male
che proviene dai Celesti, sopportar, deve un mortale.
coro
O grande, o veneranda,
Vittoria, non desistere
dal protegger la mia vita, dal cingere
al mio crin la ghirlanda.
- ↑ [p. 339 modifica]La tromba è detta tirrena, perché se ne favoleggiarono inventori i Tirreni.
- ↑ [p. 339 modifica]Sarò nuova Danaide, ucciderò, cioè, nella prima notte di matrimonio il mio sposo, come già uccisero il loro le cinquanta figlie di Danao.
- ↑ [p. 339 modifica]L’equestre Nume è Nettuno, perché a lui erano sacri i cavalli.
- ↑ [p. 339 modifica]L’alpestre inaccesso recinto delle Menadi è il monte Citerone, sacro a Bacco.