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La «Sakem» delle «Selve Ardenti»
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Capitolo XXI.
Il bisonte, udendo quei latrati, si era rapidamente alzato, cogli occhi ancora iniettati di sangue, il pelame arruffato, la testa bassa, pronto per la carica.
Non dormiva il bestione, tutt’altro!
L’inglese, vedendolo balzare sulle zampe, fece una smorfia di disgusto.
— Brutte bestie! — brontolò. — Ed io un giorno le amavo per fucilarle? Da dove venire questi cani? Aho? —
Un lampo gli aveva attraversato il cervello, quantunque fosse sempre male collocato dentro la sua scatola ossea.
— Conduttore morto — disse. — Feretro rimasto ai lupi: io prenderò suo posto. —
I latrati diventavano di momento in momento più acuti: anzi, si udiva perfino di quando in quando lo scoppiettìo della frusta maneggiata dal conduttore della slitta.
Il bisonte ascoltava sempre colla testa bassa, sfogando la sua collera contro la neve che sconvolgeva co’ suoi poderosi zoccoli.
Ad un tratto l’inglese distinse la slitta del conduttore di feretri, sbucata da una macchia, lontana di là un centinaio e mezzo di metri.
Subito il bisonte, il quale l’aveva pure scorta, si slanciò contro di quella a corsa sfrenata muggendo minacciosamente.
— Io assistere bello spettacolo! — disse il lord egoista, montando sopra un altro ramo, per non perder nulla di quanto stava per accadere.
Il conduttore di feretri, vedendo giungerò il bestione, aveva arrestati i cani ed era saltato a terra impugnando le sue due grosse rivoltelle.
Sedici colpi rimbombarono l’un dietro l’altro con rapidità meravigliosa ed altrettanti proiettili si cacciarono nelle carni dell’assalitore, e lo arrestarono in piena volata.
— Hip! Hip! Hurrà! Bravo! — gridò l’inglese con vivo entusiasmo, battendo le mani.
Il bisonte, imbottito di piombo, curvò la massiccia testa, fissando con un ultimo sguardo pregno di collera il suo uccisore, mandò un lungo muggito e finalmente cadde affondando nella neve fino al ventre.
Lord Wylmore si era subito lasciato cadere a terra e raccoglieva innanzi tutto la sua carabina e la rivoltella.
Caricò l’una e l’altra, poi mosse verso il conduttore di feretri, il quale stava strappando al bisonte la lingua.
― Mister, — gli disse, — buon appetito.
Il ruvido canadese lo guardò un po’ di traverso e rispose con un leggiero cenno del capo.
Il lord se la prese subito.
— Voi non conoscermi più?
— Mi pare infatti di avervi veduto qualche giorno fa — rispose asciuttamente il conduttore di feretri.
— E voi non ricordare quando noi avervi salvato dai lupi, brigante!
— Brigante?
— Facchino!
— A chi? — domandò il canadese, incrociando le braccia con un gesto di sfida.
— A te.
— Sapete chi sono io?
— Un brigante che porta i morti.
— Siete pazzo, mister?
— Io mister? No, io essere milord pari della Camera d’Inghilterra. —
Il canadese alzò sdegnosamente le spalle, e rispose:
— E io sono francese.
— Non esservi più francesi nel Canadà — rispose il lord. — Tutti inglesi.
— Potreste ingannarvi, mister.
— Io avervi detto chiamarmi milord, portatore di morti. Io non essere mai stato un becchino come te.
— E volete? Io non ho tempo da perdere per nessun milord inglese.
— Io volere montare su vostra slitta. Mio cavallo essere stato sbudellato da bestia cattiva ed io non poter camminare.
— I miei cani non possono portare più di due persone.
— Io e voi.
— V’ingannate; ho ancora il feretro con me, milord.
— Non avere i lupi mangiato morto?
— No: sono tornato indietro, e l’ho ripreso.
— E voi andare?
― Io riconduco il morto al signore che me lo ha affidato. Vi sono troppi lupi verso il sud ed io non posso passare.
— Voi gettare morto ed io prendere suo posto.
— Nella cassa? —
L’inglese proruppe in una gran risata.
— Aho! Questi canadesi! — esclamò poi. — Essere moltissimo allegri. —
Il conduttore di feretri, abbastanza annoiato, gli volse le spalle per tornarsene verso la slitta, ma l’inglese in un baleno gli fu addosso coi pugni chiusi.
— Dove andare voi, brigante, — gridò.
— Proseguo il mio viaggio ― rispose il canadese.
— E voi lasciare me solo, senza cavallo?
— Vi ho già detto che i miei cani non possono condurre più di due persone.
— Voi gettare feretro, o io picchiare.
— Chi?
— Voi.
— Oh, ringraziate Iddio, milord, che io non abbia avuto il tempo di ricaricare le mie rivoltelle. A quest’ora ne avrei due de’ morti sulla slitta.
— Facchino!
— Bestia!
— A me dare della bestia, brigante? Sai che io sempre pagare servigi?
— Io me ne infischio! Mi basta quello che mi pagano i parenti dei morti. —
L’inglese gli si era scagliato addosso furiosamente, senza nemmeno far uso delle armi che aveva cariche mentre il suo avversario si trovava disarmato.
— Boxe! boxe! — urlò.
— Siete pazzo, mister? — chiese il canadese un po’ preoccupato.
— Io essere milord! Facchino! Becchino! Brigante! —
Con un terribile pugno rovesciò il canadese, in mezzo allo strato di neve, poi gli puntò contro la carabina.
— Gettare morto, o io uccidervi! — gridò.
Il conduttore di feretri mandò un ruggito di belva, e subito cercò di rimettersi in piedi, per rompere il muso al suo aggressore coi calci delle rivoltelle.
— Mi avere capito, brigante? — urlò l’inglese, il quale pareva inferocito.
— Tu, brigante! — rispose il canadese.
— Nessun lord brigante, — rispose lord Wylmore. ― Noi comandare e pagare sempre.
— Ma dove volete andare dunque voi?
— Dove a me piacerà. Voi piacere sterline?
— Certo che non mi rincrescono. —
Lord Wylmore si frugò nella cintura e si levò gli ultimi pezzi d’oro che ancora possedeva, una quindicina almeno, e li lasciò piovere sul canadese, il quale, subito ammansato, disse:
— Potreste continuare per qualche minuto ancora, milord? Vi perdonerò il pugno che mi avete dato.
— Io non avere che molti chèques e qui non esservi banche. Più tardi io scontare.
— Dovevate dirlo prima.
— Voi dunque gettare via morto?
— Lo metterò in mezzo a questa macchia. Quando sonerà la tromba del Giudizio Universale anche lui si desterà.
— Anche se lupi mangiarlo?
— Io credo di sì — rispose il canadese diventato di buon umore dopo quella piccola pioggia di sterline.
L’inglese spalancò la bocca, poi fece stridere i denti, e finalmente disse:
— Io avere molta fame.
— Io vi darò quello che ho, purchè mi pagate ancora.
— Io pagare ancora? E sterline regalate?
— Quelle sono per il pugno e per l’abbandono del morto.
— Ma io non avere più oro.
— Avete degli chèques, mi avete detto. Firmateli ed a suo tempo io andrò ad incassare. Ma tenete bene a mente che se la vostra firma non è valida, io vi darò la caccia dovunque per togliervi la pelle. —
L’inglese perdette la sua flemma ordinaria.
— Bandito! brigante! ladro! — urlò. — Io prenderti slitta, morto e viveri, tutto, senza darti altra sterlina. Vattene o faccio fuoco!... —
Il canadese, un vero brigante che contava di pelare per bene l’isolano, spiccò cinque o sei salti per raggiungere la slitta.
Ma lord Wylmore, che lo teneva d’occhio, con una corsa fulminea lo precedette e, per ispaventarlo e fargli ben comprendere che voleva essere obbedito, sparò in aria un paio di rivoltellate.
Il bandito che, come abbiamo detto, aveva le sue armi scariche, saltava come se fosse impazzito e bestemmiava in francese ed in inglese, ma senza osare di farsi innanzi.
— Te ne andare? — urlò il lord, minacciandolo ora colla carabina.
— Lord ladro! — rispose il canadese, rifugiandosi dentro una macchia per paura di prendersi davvero una palla di carabina nello stomaco.
E quella ritirata l’aveva fatta proprio in buon punto, poichè l’inglese aveva lasciato partire il colpo, deciso di sbarazzarsi di quel pericoloso becchino.
Ma per sua fortuna aveva indugiato un po’ a premere il grilletto, sicchè il proiettile andò a perdersi probabilmente nel tronco di qualche albero.
Calmatosi un po’, e certo di non aver ormai più nulla da temere, ricaricò il rifle, rimise due altre cartucce nella rivoltella, raggiunse la slitta, prese la lunga frusta dal manico corto, si sedette sul feretro e lanciò un lungo fischio.
I cani docilissimi si lanciarono al galoppo senza occuparsi di sapere chi era il nuovo padrone.
Il canadese vedendo la slitta allontanarsi si gettò fuori dalla macchia gridando:
— Ferma! ferma! Milord ladro! —
L’inglese non si degnò nemmeno di volgersi indietro.
I cani filavano magnificamente, lo strato nevoso era solidissimo, la slitta scivolava molto rapida, e l’aurora stava per sorgere.
Che cosa poteva desiderare di più quel mattoide?
Il canadese non poteva ormai più inseguirlo e poi anche se avesse potuto sarebbe stato senza pro, perchè gli mancavano le cartucce che erano rimaste sulla slitta.
Per qualche ora l’inglese, il quale si divertiva assai a guidare quei magnifici e rapidissimi cani, filò verso il settentrione, attraversando foreste e foreste, ma s’accorse finalmente di avere lo stomaco vuoto.
― Io mangiare senza toccare miei chèques — disse. — Brutto brigante peloso, volevi la mia borsa ec.?
Io mangiare tue provviste, e tu mangiare mio bisonte e poi crepare. —
Vi erano nella slitta diversi sacchetti di pelle accuratamente legati alle traverse dietro il feretro.
Lord Wylmore ne prese a casaccio due. Uno conteneva del merluzzo secco e l’altro dei biscotti di mare, che dovevano essere stati cotti un paio d’anni prima, perchè malgrado il freddo erano abbondantemente bacati.
— Io avere perduto nel cambio — disse. — Mie lingue bisonte valere meglio.
Avere bensì guadagnato slitta con cani e un morto. Che cosa fare questa carcassa? Lei si divertire a viaggiare, ma io non essere un becchino. —
Arrestò i cani con una potente strappata della briglia che terminava intorno al collo del capo-fila, discese, afferrò il feretro, e quantunque fosse abbastanza pesante, lo scaraventò a cinque o sei metri di distanza, fracassandolo contro il tronco d’un pino nero.
Dalle tavole sfasciate balzò fuori il cadavere d’un uomo ancora giovane ed abbastanza ben conservato.
— Tutti brutti uomini morti! — disse l’inglese. ― Tu non viaggiare più.
I lupi mangiarti. —
Volse le spalle al cadavere il quale era rimasto in mezzo alla neve colle gambe ripiegate, e tornò verso la slitta, attaccando vigorosamente, coi suoi lunghi denti gialli, il merluzzo secco e durissimo e i biscotti.
Il suo stomaco, malgrado la milza gonfia e lo spleen, funzionava sempre egregiamente, e la colazione fu abbondantissima, inaffiata da due sorsate di gin, del quale, frugando e rifrugando, era riuscito a scovare una bottiglia quasi piena.
— Brigante punito — disse. — Io aver mangiato a sue spalle senza pagare.
Ma io avere lasciato a quel brutto becchino un bisonte. Male! Male! —
Si accomodò sui sacchi, strinse con la sinistra le redini, con la destra la frusta, rimise in corsa i cani, i quali pareva avessero un gran desiderio di andarsene verso il nord.
Decisamente lord Wylmore era nato sotto una stella benigna, poichè tutte le cose gli andavano sempre meravigliosamente bene, anche quando un altro uomo, in meno difficili circostanze, sarebbe caduto per non più rialzarsi, o scotennato, o con una palla di buon calibro nel cervello.
Le foreste si succedevano sempre alle foreste, lasciando dei larghi passaggi più che sufficenti per una slitta.
Le piante erano sempre le stesse: pini neri del Canadà, pini bianchi, che spingevano le loro cime a oltre trenta metri con un diametro di due e mezzo alla base; cicute legus dalle fibre durissime e che sott’acqua acquistano maggior resistenza, perchè non imputridiscono mai; aceri ricciuti, betulle e salici.
Sui rami di tutte quelle piante facevano degli occhiacci dei grossi allocchi dalle penne quasi bianche, e si pavoneggiavano le aquile pescatrici, mentre gli ortolani facevano udire timidamente il loro zirlo.
La corsa durava già da tre ore, quando i cani si fermarono bruscamente dinanzi ad una macchia più folta delle altre, latrando furiosamente.
Lord Wylmore, che stava sonnecchiando, per poco non fu scaraventato fuori della slitta.
— Aho! — disse sbadigliando come un vecchio orso grigio. — Chi mi seccare? Becchino non poter avere gambe così lunghe per passare dinanzi a me.
Lupi? Oh! sono armato. —
Fece sibilare la frusta, ma i cani non si mossero.
— Affare grave dunque? — si domandò l’inglese, saltando a terra colla carabina in mano.
Guardò dinanzi a sè, a destra ed a sinistra, senza nulla scorgere di sospetto.
— Essere morto che mi seguire? — si chiese dopo qualche momento. — Io non avere mai avuto paura dei morti e fucilare anche loro come bisonti.
Io poi pagare danni! —
Una voce sonora, imperiosa, uscì in quel momento dalla macchia.
— Stop!1 —
Cinque indiani, armati di winchesters e montati su bellissimi mustani pomellati, erano improvvisamente comparsi, tagliando la via all’inglese.
Il capo del piccolo drappello si fece arditamente innanzi, scotendo l’ornamento di penne di tacchino selvatico, e per la seconda volta gridò:
— Stop! —
Lord Wylmore si era messo a ridere.
— Asini, pipe mal cotte, cretini! Io andare in cerca di vostra sakem e voi minacciare me? —
Aveva già riconosciuto in quei cinque indiani le Selve Ardenti di Minehaha.
Gl’indiani si presero filosoficamente quella serqua di ingiurie, senza degnarsi di rispondere, e si misero al galoppo, giungendo in un baleno addosso alla slitta.
— Dove va mio fratello bianco? — chiese il capo del drappello minacciandolo col fucile. — Gli pesa forse la sua capigliatura?
— Tu essere un asino grosso come balena! — risposo il lord. — Io andare in cerca della sakem Minehaha.
— Di Minehaha? — esclamò il capo con stupore. — Della Scotennatrice?
Che cosa vuole mio fratello bianco dalla sakem? Lo mandano forse i larghi coltelli dell’ovest?
— Io non essere tuo fratello, prima di tutto, perchè tu non essere mai stato lord — rispose l’inglese. — Poi io dire a te che io non essere coltello nè largo nè stretto, e che io non domandare altro che vedere la sakem delle Selve Ardenti. —
Un indiano s’era fatto innanzi e guardava attentamente l’inglese.
― Io conosco questo viso pallido — disse. — La sakem pure lo conosce.
— Possiamo condurlo?
— Giacchè lo vuole!... Il campo non è lontano. —
Il capo si volse verso l’inglese, il quale cominciava a perdere la sua flemma abituale.
— Mio fratello il viso pallido rimonti sulla sua slitta — gli disse. — Noi lo guideremo dalla sakem.
— Aho! Ben detto! Io essere ora tuo fratello poco cucinato in forno da grande Manitou. —
Salì sulla slitta e sferzò i cani, i quali si lanciarono a gran corsa.
I cinque indiani galoppavano ai fianchi dell’inglese, tenendo sempre in pugno le loro armi da fuoco e sorvegliandolo attentamente.
Il catturato d’altronde non aveva nessuna intenzione di opporre resistenza.
Lo conducevano dalla sakem: era quello che da tanto tempo desiderava, per dirle che l’amava alla follia e che non sarebbe tornato in Inghilterra senza di lei.
I cani percorsero un paio di miglia sempre scortati dai cinque indiani, poi scesero entro una specie di gran canon, coperto anche quello d’un denso strato di neve.
All’estremità di quella stretta gola si rizzava un piccolo accampamento indiano formato da una sola tenda, destinata probabilmente a Nube Rossa ed alla sakem.
Una trentina di cavalieri, le ultime Selve Ardenti, si erano mosse incontro alla slitta ed al piccolo drappello, strepitando.
L’inglese, per nulla spaventato, arrestò i cani, scese dalla slitta e mosse verso Nube Rossa, che aveva già subito scorto nel gruppo.
— Mio vecchio fratello, come stare? — gli chiese.
L’indiano aggrottò la fronte, come se si fosse offeso di quella familiarità, poi rispose:
— Che cosa vuole mio fratello il viso pallido? Ignora che noi siamo in fuga e che ogni viso non colorato per noi rappresenta ormai un nemico?
— Io m’infischiare — disse l’inglese. — Io essere sempre stato amico di pelli-rosse, perchè non essere mai stato largo coltello nè di ovest nè di est. Avere capito, vecchio?
— Sono vecchio ma non sono sordo — rispose Nube Rossa.
— Noi ci siamo veduti altre volte.
— Tu avere buoni occhi.
— E mio fratello pelle-bianca che cosa viene a cercare nell’accampamento delle ultime Selve Ardenti?
— Io voler vedere tua figlia.
— Per quale motivo?
— Io volere sposare la terribile sakem.
— Mia figlia? — esclamò Nube Rossa, scendendo dal suo mustano. — Sei un uomo rosso tu?
— Io essere un lord.
— Vale a dire?
— Un gran sakem fra gli uomini bianchi.
— Mia figlia non sposerà che un uomo della sua razza, se si sposerà.
— Tua moglie aveva sposato un uomo bianco. —
Il viso raggrinzito dell’indiano si contrasse a quel ricordo come un giaguaro in furore, poi con voce terribile rispose:
— Tu non hai il diritto di guardare nel mio passato, peste bianca! Ah, vuoi vedere mia figlia? Eccola? —
Minehaha era uscita dalla tenda, sempre avvolta nel suo mantellone bianco, come usava sua madre, e si era avanzata verso l’inglese con un sorriso niente affatto promettente.
— Il lord inglese — disse con un certo disprezzo — che cosa vuole da me?
— Offrire la mia mano — rispose lord Wylmore senza punto esitare.
— La mano? Che cosa vuoi dire? — chiese Minehaha, un po’ stupita.
— Che voi potete diventare mia moglie.
— Io?
— Io essere molto ricco, io essere nel mio paese grandissimo sakem, io possedere tre castelli nella Scozia.
— E poi?
— E due milioni di dollari. —
La sakem scoppiò in una risata strepitosa.
— È per questo che siete venuto a cercarmi?
— Yes.
— Il grande Manitou non vi ha dipinto il viso come i nostri grandi guerrieri.
— Io essere nato male cotto — rispose l’inglese. — Avere colpa il fornaio.
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