< Le Trachinie (Sofocle - Romagnoli)
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Sofocle - Le Trachinie (438 a.C. / 429 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1926)
Esodo
Quarto stasimo Le Trachinie (Sofocle - Romagnoli)



Entrano Illo, un vecchio, e servi che portano su una barella
Ercole privo di sensi.


ILLO
Ahimè, padre! Ahi me misero
per la tua sorte! Che deciderò?
Che debbo fare? Ahimè!
UN VECCHIO
Taci, o figlio, ché tu di tuo padre
furibondo, il selvaggio dolore
non ridèsti: ch’ei, pure cosí
prostrato, ancor vive. Le labbra
su, morditi, frénati.
ILLO
                                        O vecchio,
è vivo? Che dici?

VECCHIO
                                                  Che tu
io lasci tranquillo, sinché
immerso è nel sonno, e non ecciti
l’orribile morbo
che tutto l’invade.
ILLO
                                   O me misero,
un peso infinito s’aggrava
su me, la mia mente delira.
Ercole si scuote.
ERCOLE
Oh Giove!
In che terra son giunto? Trafitto
da dolori implacabili, presso
quali genti io mi giaccio? Oh me misero!
Maledetto! Anche a rodermi torna!
Ahimè!
VECCHIO
Ben sapevo quanto era pel meglio
soffocar la sua doglia, ed il sonno
dal suo capo, dal ciglio non sperdere.
ILLO
Possibil non è, tale strazio
ch’io veda e mi freni.

ERCOLE
Oh scogliera di Cènëo, plinto
degli altari, di che sacrifici
che mercè mi rendesti! Deh, quale,
quale obbrobrio versasti su me!
Deh, veduta pur mai non t’avessero
queste luci, né mai tal fiorire
di follia contemplassi! Deh, Giove,
quale mago cantor, d’erbe mediche
qual maestro, potria tal flagello
con incanti placar, tranne Giove?
Deh, spuntar tal prodigio vedessi!

Strofe I
Ahimè!
Lasciatemi, lasciate che giaccia questo misero,
lasciate che per l’ultima volta m’adagi. Ahimè!

Strofe II
Che mi reclini? Il mio corpo chi mai sostiene?
Tu m’uccidi, m’uccidi: le pene
sopite hai tu rideste.
Ecco, di nuovo a me s’appiglia il tormento, e m’investe.
Dove ora siete, o fra quanti son gli Elleni, empissimi? In mare
io mille e mille volte patii, nelle vostre foreste,
per liberarvi dai mostri. E adesso che il morbo mi stermina,
nessuno o ferro o fuoco recherà, che mi sia salutare?

Antistrofe I
Ahimè!
Dunque, nessuno vuole, nessun s’appressa, che
dell’odïosa vita mi strappi il capo? Ahimè!

VECCHIO
Figlio di quest’eroe, quest’opera forze richiede
piú che le mie non sono. Tu reggilo: forse la vista
tua, piú che l’opera mia giovargli potrà.
ILLO
                                                            Sí, lo assisto;
ma piú non sarà mai che in patria né fuor della patria
provi la vita mia tanto strazio. Oh volere di Giove!
ERCOLE
Strofe III
Dove, dove mai, figlio,
sei tu? Di qui, su questo fianco levami,
alleggerisci la mia pena. Ahi, Dèmone!

Antistrofe II
Di nuovo, ecco, m’assale, maledetto, m’assale
il selvaggio, l’indomito male
che mi sterminerà.
Pàllade, Pàllade, ancora mi lacera il morbo! — Pietà
abbi di chi la vita, figliuolo, ti diede! La spada
sotto la gola a me vibra. Il colpo innocente sarà
farmaco al male onde l’empia tua madre m’ha stretto al martirio
folle. Cosí, cosí, come pur m’ha distrutto, ella cada.

Antistrofe III
O dolce consanguineo
di Giove, Ade, fa’ ch’io soccomba. Un rapido
fato fa’ tu che strugga questo misero.

CORO
Abbrividii, queste sciagure udendo
del signor mio: quale ei, quali sono esse!
ERCOLE
Quanti strazi, e cocenti, ognor soffersero
queste mie braccia, questi omeri, né
solo a parole; ma non mai di Giove
la consorte, non mai l’abominato
Euristèo me ne inflisse uno siffatto,
come or d’Enèo la frodolenta figlia
alle mie spalle questa rete strinse
dall’Erinni intessuta, ond’io mi struggo,
che, agglutinata al fianco mio, mi rode
le carni insino all’osso, e col polmone
si confonde, e le vie tutte ne assorbe,
e tutto il vivo sangue mio bevuto
ha già: distrutto è tutto quanto il corpo,
in questi avvolto vincoli ineffabili.
E non oste schierata, e non terrigeno
stuol di giganti o gagliardia di fiera,
non terra ellèna, non paese barbaro,
non terra alcuna di quante io ne corsi,
dai mostri ne affrancai, tanto mai fece;
ma mia moglie, una donna, e non già d’animo
viril, m’uccise; e senza spada; e sola.
O figlio, e tu mio vero figlio or sii,
né reverenza più t’incuta il nome
di madre. Quella che ti partorì,
con le tue mani dalla casa strappala,
e dàlla in mano a me, ché chiaro io veda
se pel mio strazio più t’affliggi, o quando

la maledetta effigie sua sconciata
vedrai, com’è giustizia. O figlio, su,
fa’ cuore, abbi pietà di me, da tanti
mali oppresso, che piango e mi lamento
à guisa di fanciulla. E niuno dire
potrà che mai piangere vide, prima
d’ora, quest’uomo: i mali miei pativo
senza gemito, sempre. Adesso, in femmina
da quello ch’ero, son converso, o misero!
Apprèssati ora, accanto al padre sta,
vedi per che sciagura a ciò son giunto.
Libero dalle vesti il corpo mio
ti mostrerò. Vedi, vedete tutti
queste misere membra, in quanto strazio
questo infelice ora si trova. Ahimè!
Misero me!
Mi brucia ancora il maledetto spasimo,
mi dilacera i fianchi il morbo orribile,
lasciare non mi vuol senza travaglio.
Ade, Signore, accoglimi!
Raggio di Giove, bruciami!
Scuoti, o Signore, il dardo della folgore
avventa, o padre mio: ché ancor mi rode,
prende rigoglio, su me piomba. O mani,
o mani, o dorso, o petto, o braccia mie,
quelle ancor siete che il leone orrendo
che il covo ebbe in Nemèa, mostro implacabile,
dei bifolchi flagello, a viva forza
abbattere valeste, e l’Idra in Lerna,
e dei Centauri la biforme razza,
di sterminata forza, e senza legge,
senza consorzi, e vaga sol d’oltraggi,
e d’Erimànto l’apro, e il sotterraneo

cane d’Ade tricipite, e dell’orrida
Echidna il figlio1, insuperabil mostro,
e, ai limiti del mondo ultimi, il drago2
che gli aurei pomi custodiva. E mille
e mille imprese altre affrontai; né alcuno
dalle mie braccia riportò vittoria.
E più non posso or muovermi, ridotto
sono un vil cencio, debellato, o misero,
dalla cieca sciagura, io che da nobile
madre m’ebbi pur nome, e figlio detto
sono di Giove che fra gli astri impera.
Ma questo ben sappiate: che, sebbene
nulla io sia più, né pur muovermi io possa,
anche cosí, punir saprò la donna
che m’ha ridotto a tanto. Oh, ch’ella appressi,
e apprendere potrà, ridirlo a tutti,
che, vivo e morto, io punir seppi i tristi.
CORO
Ellade tutta, o quanto lutto, o quanto
credo che avrai, se questo eroe morrà!
ILLO
Poi che di replicarti occasione,
padre, mi dài, sebbene soffri, ascoltami.
Nulla ti chiederò che non sia giusto;
ma non con tanta furïa, qual’è
quella ch’ora ti morde, orecchio prestami;
o saper non potrai donde allegrezza
tu brami, e in che, senza ragion ti crucci.

ERCOLE
Di’ quel che brami, e poi taci: ch’io soffro,
né le sottili tue parole intendo.
ILLO
Son qui per dirti di mia madre, a che
sia giunta, e come a mal suo grado errò.
ERCOLE
Mentovare tua madre osi, o tristissimo,
di tuo padre assassina, e sí ch’io t’oda?
ILLO
A un punto ella è che non si può tacerne.
ERCOLE
Gli antichi errori suoi tacere? Oh, no!
ILLO
Né quelli d’oggi: lo dovrai pur dire.
ERCOLE
Parla; ma fa’ che tu non sembri un tristo.
ILLO
Morta è, trafitta di colpi recenti.

ERCOLE
Chi colpía? D’un prodigio è il tristo annunzio.
ILLO
Da sé fu spenta, e non per mano altrui.
ERCOLE
Ahimè, non di mia man, com’era giusto!
ILLO
Pietà, se tu sapessi, anche tu avresti.
ERCOLE
Turpe è il principio; ma di’ pur che pensi.
ILLO
In tutto errò; ma pur, cercava il bene.
ERCOLE
Fu bene, o tristo, uccidere tuo padre?
ILLO
La nuova sposa in casa vide; e un filtro
d’amor volendo propinarti, errò.


ERCOLE
Qual dei Trachini oprò tale malìa?
ILLO
Nesso Centauro la convinse un giorno
che in te quel filtro avrebbe accesa brama.
ERCOLE
Ahimè, misero me, perduto io sono!
Morto, infelice, morto io son: la luce
più non brilla per me. Comprendo, ahimè,
in che sciagura son piombato. Va’,
figlio, ché padre più non hai. La stirpe
dei tuoi fratelli chiama tutta: Alcmena
la sventurata, invan sposa di Giove
chiama: udite da me, l’ultima volta,
quale io la so, la voce degli oracoli.
ILLO
Tua madre non è qui: vive in Tirinto3,
vicino al mar, come la sorte volle.
E dei tuoi figli, ne raccolse alcuni
e li nutrisce, ed altri, ne la rocca
vivon di Tebe, lo saprai. Ma quanti
siam qui, se, padre, opera c’è che compiere
vaglia, a udirti, a servirti, ecco, siam qui.
ERCOLE
L’opera è tale: ascolta: ivi sei giunto
ove parrà qual uomo sei: se degno

d’esser chiamato figlio mio. Predetto
da lungo tempo a me fu da mio padre
ch’io morir non potrei per man d’alcuno
che respirasse, ma da chi nell’Ade
morto abitasse. E questi era il Centauro,
che, spento già, come dicea l’oracolo,
me vivo uccise. Ed altri vaticinii
novelli io svelerò, che insiem si compiono
con questi, e con gli antichi ben s’accordano.
Quando io nel bosco entrai dei Selli4 alpestri,
che giaciglio hanno il suol, da la patema
quercia io li scrissi dalle molte lingue.
Questa mi disse che nel tempo adesso
presente e vivo, degli affanni miei
si sarebbe per me compiuto il termine.
Ond’io credea che predicesse prospera
sorte; e null’altro predicea che morte:
ché vanno immuni da travagli i morti.
Ed or che chiaro quel responso compiesi,
figlio, soccorso al padre arreca, il labbro
mio non lasciar che s’inasprisca, cedi,
l’opera mia seconda, e legge reputa
su ogni altra bella al padre essere docile.
ILLO
Poi che il discorso a questo giunse, io trepido,
padre; ma in ciò che vuoi t’obbedirò.
ERCOLE
Nella mia destra pria la destra poni.

ILLO
Questo segno di fede a che m’ingiungi?
ERCOLE
Ubbidir non mi vuoi, subito porgerla?
ILLO
Nulla contro io ti dico: ecco, la porgo.
ERCOLE
Giura or pel capo di mio padre Giove.
ILLO
Di far che cosa? Il tuo discorso compi.
ERCOLE
Di compier tutto ciò, ch’io ti dirò.
ILLO
E dunque, giuro; e mi sia teste Giove.
ERCOLE
Su te, se mancherai, sciagure impreca.
ILLO
Non ne avrò, manterrò; ma pure, impreco.

ERCOLE
Sai tu dell’Eta il picco, a Giove sacro?
ILLO
Certo: ivi spesso io sacrificio offersi.
ERCOLE
Il corpo mio, con le tue mani stesse
sollevar devi; e quanti amici occorrano
presi con te, colà recami. E molta
legna di querce dalle salde radiche
recidi, e molta di selvaggio ulivo
stroncane, e il corpo mio gittavi sopra.
Impugna poi la vampa d’una fiaccola
resinosa, e me brucia. E pianto esprimere
né gemito non devi; ma senza ululi,
senza lagrime, sia l’opera tua,
se figlio pur sei di quest’uomo. E se
tu non farai cosí, fin di sotterra
m’avrai nemico, e ti maledirò.
ILLO
Ahimè, padre, che dici? A che m’astringi?
ERCOLE
A ciò che far si deve; e se no, figlio
mio non sii detto, e un altro padre cercati.

ILLO
Anche una volta, ahimè! Che mi comandi!
Ch’io l’assassino tuo sia, che t’uccida!
ERCOLE
Non l’assassino! Il sanator dei mali
ond’io son torturato, e il solo medico.
ILLO
Come? Guarire il corpo tuo bruciandolo?
ERCOLE
Fa’, se ciò ti sgomenta, almeno il resto.
ILLO
Di là recarti, oh, non farò diniego.
ERCOLE
Né di comporre, come ho detto, il rogo?
ILLO
Tranne che di mia man toccarlo: appormi
pel resto non potrai; tutto farò.
ERCOLE
Anche ciò basterà; ma devi aggiungere
una piccola grazia all’altre grandi.

ILLO
Anche se grande assai, sarà compiuta.
ERCOLE
Sai la fanciulla, la figliuola d’Èurito?
ILLO
Iole, se posso argomentar, tu dici.
ERCOLE
L’hai detto. Ora io, figlio, ti prego. Quando
morto sarò, se pur brami esser pio,
e i giuri fatti a me serbare, sposala,
obbedïenza non negarmi. Niuno,
all’infuori di te, s’abbia la donna
che giacque al fianco mio. Tu stesso, o figlio,
sali il suo letto. Ché se, poi, tu docile
sei nelle grazie grandi, e nelle piccole
relutti, il prisco merito distruggi.
ILLO
fra sé.
Turpe adirarsi con chi soffre; eppure,
come frenarsi, udendo i suoi disegni?
ERCOLE
Come se tu voglia negarti mormori.

ILLO
Quella che sola causa della morte
fu di mia madre, e del martirio in cui,
padre, tu giaci, quella donna, chi,
se posseduto da malvagi Dèmoni
non fosse, far potrebbe sua? Morire,
meglio per me, padre, sarebbe, che
vivere coi miei più fieri nemici.
ERCOLE
Io muoio, ed una grazia a me tu neghi.
Ma se relutti, sopra te del Nume
la maledizione piomberà.
ILLO
Ora del tuo malor segno darai,
ERCOLE
Sopito era il malor: tu lo ridesti.
ILLO
Fra quanti dubbii, me misero, m’agito!
ERCOLE
Perché dar ti rifiuti al padre ascolto?
ILLO
Apprender devo il sacrilegio, o padre?

ERCOLE
Sacrilegio non è, se tu m’appaghi.
ILLO
Pura giustizia è ciò che tu m’imponi?
ERCOLE
Certo: ne invoco testimonî i Súperi.
ILLO
E dunque, sia: non opporrò rifiuto.
L’opera i Numi veggano: ché tristo
mai non parrò, perché t’obbedii, padre.
ERCOLE
Bene, figlio, concludi. E una sollecita
grazia ora aggiungi: su la pira ponimi,
prima che un nuovo accesso, un nuovo spasimo
piombi su me. Via, dunque, sollevatemi,
affrettatevi. Il termine dei mali
era tal per quest’uomo: il giorno estremo.
ILLO
Quando costringi, quando ordini, padre,
nulla vieta compir ciò che tu brami.
Sulla soglia della reggia appare Iole.
ERCOLE
Ora, su, pria che il morbo di nuovo
si ridesti, o mio spirito duro.

dammi un morso d’acciaio, di pietra,
ch’io lo stringa alla fauce, ch’io soffochi
ogni grido, sicché questa impresa
non cercata, si compia in letizia.
ILLO
Sollevatelo, amici, ed abbiate
tolleranza dell’opera mia.
E vedete dei Numi la somma
sconoscenza da ciò che qui segue.
Ché dànno alla luce figliuoli,
che padri son detti,
e permetton che soffrano tanto.
Il futuro, nessuno lo scorge;
ma il presente è per noi doloroso,
vergognoso per essi, e terribile
per quegli che soffre
quanto mai nessun uomo sofferse.
Illo si allontana coi servi che portano Ercole.
CORO
a Iole.
O fanciulla, e tu pure, lontana
non restar dalla casa, ché visto
hai tu pur questa morte recente,
e le nuove e le orrende sventure.
Ed a Giove di ciò nulla sfugge.
Si allontanano tutti.

  1. [p. 250 modifica]Il figlio dell’orrida Echidna è Cerbero, che, secondo Esiodo, è appunto figlio di Echidna e di Tifone.
  2. [p. 250 modifica]Il drago che custodiva gli aurei pomi del giardino delle Esperidi.
  3. [p. 250 modifica]Tirinto, antichissima città dell’Argolide.
  4. [p. 250 modifica]Per i Selli cfr. addietro la nota a p. 126, vv. 189-190

Note

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