< Le Trachinie (Sofocle - Romagnoli)
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Sofocle - Le Trachinie (438 a.C. / 429 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1926)
Terzo episodio
Secondo stasimo Terzo stasimo



Dalla reggia esce, tutta sconvolta, Deianira.


DEIANIRA
Deh, come temo, amiche mie, che troppo
in tutto ciò che feci, io sia trascorsa!
CORIFEA
Deianira, d’Enèo figlia, che c’è?
DEIANIRA
Non so: temo che presto appaia un male
grande, ch’io feci, a bella speme illusa.
CORIFEA
Forse pei doni che inviasti ad Ercole?
DEIANIRA
Certo; e ardir non avrei piú, ch’esortare
potessi alcuno ad opera men chiara.

CORIFEA
Dicci, se dir lo puoi, di che paventi.
DEIANIRA
Tal fatto avvenne, che, se a voi lo narro,
udrete, amiche, meraviglia nova.
Quel bianco fiocco di lanosa pecora
onde il bel peplo adesso adesso aspersi,
ecco, è sparito; e niuno dei domestici
lo distrusse; da sé si divorò,
del pavimento su la pietra, in polvere
si sbriciolò. Ma perché sappia il tutto
come segui, parlar debbo piú a lungo.
Delle norme che a me diede il Centauro1,
quando patía, dalla saetta amara
trafitto il fianco, non una io scordai,
anzi le rammentai, come su tavola
di bronzo incisa scritta incancellabile.
Questo a me fu prescritto, e questo io feci.
Lungi dal fuoco, in adito riposto,
questo filtro io serbar dovea, dai raggi
lungi del sol, sin ch’io non lo adottassi
a novella unzïone; e cosí feci.
E quando giunse il tempo, a una domestica
pecora svelsi un bioccolo, in un angolo
della casa segreto, unsi la tunica,
la ripiegai, la chiusi entro in un cofano,
al riparo del sol, come vedeste.
Ma, rientrando in casa, uno spettacolo
indicibile vidi, inesplicabile
a mente umana: il bioccolo di lana

onde unsi il peplo, a caso, ove batteva
del sole un raggio, alla sua vampa ardente
gittato avevo; e, come si scaldava,
ecco, sparia, senza vederne causa,
sul pavimento si sfaceva in polvere,
tale a veder, quale del legno, quando
la sega il fende, le minuzie appaiono.
Cosí giace, ove cadde; e dalla terra
ove giacea, schiume di grumi bollono,
come allorché si versa dalla bacchica
vite, il pingue color dei glauchi grappoli.
Ond’io non so, me sciagurata, in quali
pensieri cader debba: un orribile
atto compiei, lo credo. E perché mai
la moribonda fiera, per qual causa,
benevola con me fu, che l’origine
fui di sua morte? Oh, non è già possibile!
Chi colpito l’avea, volle distruggere,
e nell’inganno m’irretí: lo vedo
or troppo tardi, quando piú non c’è
riparo; io stessa, ov’io mal non m’apponga,
sterminato l’avrò: poiché lo strale
che colpi Nesso, io ben lo so, die’ cruccio
anche a Chirone, ed era un Nume; e ovunque
giunga a ferire, ogni animante strugge.
E se sgorgò dalle sue piaghe questo
tossico d’atro sangue, or come ad Ercole
potrà morte non dare? Oh, ne son certa!
E se quegli morrà, ben fermo è ch’io
con lui muoia ad un passo: intollerabile
cosa, per chi non esser tristo pregia
sopra ogni bene, in trista fama vivere.

CORIFEA
Nei tristi eventi, è da temer; ma biasimo
a Speranza non dar, prima dell’esito.
DEIANIRA
Ma nei consigli sciagurati, attesa
non v’è che possa dar coraggio alcuno.
CORIFEA
Ma contro chi senza voler peccò,
mite è lo sdegno; e tu cosí peccasti.
DEIANIRA
Questo può dire chi non è partecipe
del male, e in casa sua cruccio non ha.
CORIFEA
Parlare oltre non devi, ove non voglia
al figlio tuo parlar: ché adesso è qui
quei che a cercare il padre suo già mosse.
Giunge correndo Ilio.
ILLO
Oh madre, o come di tre cose l’una
io bramerei, che tu non fossi piú
viva, o, pur viva, detta fossi madre
d’un altro, oppure sentimenti in cambio
di quelli ch’ài, molto migliori avessi!

DEIANIRA
Figlio, qual cosa in me l’odio tuo suscita?
ILLO
Il tuo consorte, il padre mio, ti dico,
sappi che in questo giorno ucciso hai tu.
DEIANIRA
Quale discorso, o figlio, a me rivolgi?
ILLO
Tal che non può non esser vero. E chi
far potrà che non sia ciò che pur vide?
DEIANIRA
Figlio, che dici? Che udisti, e da chi,
per accusarmi di sí grande infamia?
ILLO
Io, con questi occhi, la sciagura ho vista
del padre, non udii d’altri il racconto.
DEIANIRA
Dove incontrasti e avvicinasti il padre?

ILLO
Tutto, se vuoi saper, d’uopo è ch’io dica.
Poi ch’ebbe la città distrutta d’Èurito,
egli partiva, coi trofei recando
della vittoria le primizie. Sorge
un promontorio nell’Eubea, battuto
dai due lati dall’onde, e detto è Cèneo.
Altari quivi al padre Giove alzò,
e un frondoso recinto; e prima io qui
lo vidi, e sazia la mia brama feci.
E mentre egli a sgozzar le molte vittime
s’apparecchiava, sopraggiunse Lica,
l’araldo suo, dai suoi palagi, e il dono
tuo gli recò, la tunica di morte.
Ei, come tu bramavi, l’indossò,
e dodici immolò tauri perfetti,
del bottino primizie; indi, confusi,
cento capi di gregge insieme spinse.
E con ilare cuore prima, o misero,
degli ornamenti lieto e della veste,
le preci incominciò. Ma, quando viva
brillò la fiamma dei solenni riti
dal sangue effuso e dalla quercia pingue,
sgorgò sudore dalle membra, e, stretta,
quasi scolpita, ai fianchi suoi la tunica,
giuntura per giuntura, s’appigliò,
l'ossa gli corse, a roderle, uno spasimo,
un tòsco, quasi di sanguigna infesta
vipera lo corrose. E chiamò Lica
con un grande urlo allor, che del suo strazio
nessuna colpa avea, per quale trama,
gli chiese, a lui portata avea la tunica.

Ed ei, che nulla pur sapeva, o misero,
disse che sol da te veniva il dono,
ed era tal quale egli l’ebbe. Ed Ercole,
come l'udí, poi che l’orrendo spasimo
gli squarciava i polmoni, l’afferrò
d’un piede al sommo, dove la giuntura
si flette, e l’avventò contro uno scoglio
flagellato dal mare; e il cranio a mezzo
si fende, e sangue fuor ne sprizza, e candido
cervello, misto con le chiome. E il popolo
tutto, alto un grido di dolore alzò,
per l’uno che soffria, per l’altro spento.
E niuno ardia farsi vicino ad Ercole,
ch’or si torceva a terra, ora sorgeva,
ululando, gridando; e rimbombavano
le rocce intorno, e i picchi della Lòcride,
e i promontori degli Eubèi. Poiché
stanco del tanto voltolarsi a terra,
del tanto urlare fu — ché il letto infausto
che divise con te, malediceva,
il parentaggio con Enèo, lo scempio,
ch’egli accettò, della sua vita — alfine
l’occhio stravolto sollevò dal fumo
che l’avvolgea, me fra la turba vide,
che in pianto mi struggevo, e mi guardò,
e mi chiamò: «Vien qui, figlio, e la mia
sciagura non fuggire, anche dovessi
morir con me che muoio. Di qui toglimi,
dove nessun mi veda piú, conducimi.
E se il cuor non ti basta, almeno recami
lungi, prima che puoi, da questa terra,
ch’io qui non muoia». E, come ebbe ciò detto,
noi lo recammo in una nave, mentre

ei muggía fra gli spasimi. E qui vivo
lo vedrete ben presto, o appena estinto.
Ecco l’infamia, onde tu, madre, sei
condro il padre convinta; e l’hai tramata
e compiuta; e la pena a te Giustizia
vendicatrice, a te darà l’Erinni.
E, se lecito m’è, che avvenga io m’auguro.
E lecito è; diritto a me ne desti
quando il miglior fra quanti uomini vivono,
né l’ugual piú vedrai, ponesti a morte.
Senza pronunciare una sola parola, Deianira si precipita
entro la reggia.

CORIFEA
Fuggi e non parli? Perché mai? Tacendo,
con chi t’accusa, tu te stessa accusi.
ILLO
Lasciatela che vada; un vento prospero
la incalzi, mentre essa lontano va
dagli occhi miei. La dignità del nome
di madre, a che serbar, se in nulla adopera
come una madre? Vada ove le piace:
la gioia abbia che al padre essa largí.




  1. [p. 249 modifica]Il Centauro è Nesso.

Note

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