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XIII.
Rinunciai alla vita mondana, avendo riconosciuto che non era la vita, ma una parvenza, e che le condizioni di abbondanza in cui viviamo ci impediscono di comprendere la vita.
Infatti, per comprendere la vita, non devo tener conto delle eccezioni, di noi, parassiti della vita, ma della vita del popolo semplice, dei lavoratori, di quelli che producono la vita e le dànno un senso.
Il popolo semplice, i lavoratori che mi circondavano, era il popolo russo, e mi rivolsi a lui, al senso ch’egli attribuisce alla vita. Questo senso, se può esser espresso, è il seguente: ogni uomo viene al mondo per la volontà di Dio. Dio crea l’uomo in tal modo che ciascuno può salvar la sua anima o perderla. Lo scopo dell’uomo nella vita è di salvarsi.
Per salvar la propria anima, deve vivere secondo Dio e, per vivere secondo Dio, deve rinunziare a tutti i piaceri della vita, lavorare, umiliarsi, soffrire, esser buono. Questo senso il popolo l’attinge nella fede, che gli è stata trasmessa dai sacerdoti e dalle tradizioni che il popolo mantiene. Questo senso m’era palese ed era caro al mio cuore. Ma a questo senso della fede, presso il nostro popolo non scismatico, in mezzo al quale vivevo, si trovavano legate indissolubilmente molte cose che mi urtavano e mi parevano incomprensibili: i sacramenti, le cerimonie religiose, le quaresime, l’adorazione delle reliquie e delle immagini.
Il popolo non può separar queste cose l’una dall’altra, ed io pure non lo potevo. Per quanto strana fosse per me una buona parte di ciò che costituiva la religione del popolo, io accettai tutto; seguii gli uffici, recitai la mia preghiera il mattino e la sera, digiunai, feci le mie devozioni e, in principio, la mia intelligenza non vi si oppose. Ciò che una volta mi pareva impossibile, non eccitava più in me resistenza alcuna.
Il mio modo di considerare la fede era ora ben diverso da ciò che fosse altra volta. Prima la vita stessa mi pareva piena di senso, e la fede un’affermazione arbitraria di alcuni argomenti completamente inutili, irragionevoli e indipendenti dalla vita. M’ero chiesto allora qual fosse il senso di questi argomenti; poi, avendo acquistato la convinzione che non ne avevano, li avevo respinti. Ora, al contrario, sapevo senza alcun dubbio che la mia vita non aveva e non poteva avere senso alcuno, e gli argomenti della fede, non solo non mi parevano più inutili, ma, per un’esperienza indiscutibile, ero condotto alla convinzione ch’essi soli dessero il senso della vita. Prima li consideravo come un gergo incomprensibile, assolutamente inutile, ora, al contrario, se non li comprendevo, mi dicevo che avevano un senso e che bisognava imparare a comprenderli. Facevo il ragionamento seguente.
Mi dicevo: la conoscenza della fede prende la sua sorgente, come tutta l’intelligenza umana, in un’origine misteriosa. Questa origine è Dio, il principio del corpo umano come della sua intelligenza. Come il mio corpo viene da Dio, così mi vengono da lui la mia intelligenza e la mia comprensione della vita; per conseguenza tutti i gradi dello svolgimento di questa comprensione della vita non possono essere falsi. Tutto ciò in cui gli uomini credono veramente dev’essere la verità; questa può essere diversamente espressa, ma non può esser menzogna. Se mi appar menzogna, vuol dire soltanto che non la comprendo.
Mi dicevo inoltre: l’essenza di ogni religione consiste nel fatto ch’essa attribuisce alla vita un senso che non è distrutto dalla morte. Perchè la fede possa rispondere alla domanda di un re morente nel lusso, di un vecchio schiavo spossato dal lavoro, di un bimbo ingenuo, di un vecchio saggio, d’una vecchia mezza pazza, d’una giovane donna felice, di un adolescente appassionato, di tutti gli uomini, nelle più differenti condizioni di vita e di educazione, questa risposta, se v’ha risposta a quest’unica ed eterna questione della vita: «Perchè io vivo? Che risulterà dalla mia vita?» questa risposta, benchè unica nella sua essenza, dev’essere infinitamente varia nelle sue manifestazioni. Più essa è unica, più è vera e profonda; più essa deve sembrar strana e mostruosa, se cerca ad esprimersi conformemente all’educazione e alla situazione di ciascuno. Ma questi ragionamenti che giustificavano per me la stranezza delle pratiche religiose erano però insufficienti per permettermi di compiere, con la fede che era il sostegno della mia vita, degli atti dei quali dubitavo.
Con tutte le forze della mia anima desideravo essere in grado di unirmi al popolo in tutti i riti della sua religione; ma non potevo farlo; sentivo che avrei mentito a me stesso, che avrei canzonato ciò che m’era sacro, se l’avessi fatto.
Allora mi vennero in aiuto le opere recenti dei teologi russi. Seguendo questi teologi, il dogma fondamentale della fede è l’infallibilità della Chiesa. Dal riconoscere questo dogma viene per necessaria conseguenza la verità di tutto ciò che la Chiesa confessa. La Chiesa, come riunione di credenti uniti dall’amore e possedenti per questo appunto la vera scienza, divenne la base della mia fede.
Mi dicevo che la verità divina non poteva essere accessibile a un solo uomo, essa non s’apre che alla totalità degli uomini uniti dall’amore. Per concepir la verità bisogna rimaner uniti e per rimaner uniti bisogna amare quelli appunto con cui si è in disaccordo, riconciliarsi con essi. La verità s’aprirà all’amore. Se tu non ti sottometti alle cerimonie della Chiesa, violi l’amore e, facendo questo, ti privi della possibilità di conoscere la verità. Non vedevo allora il sofisma racchiuso in questo ragionamento; non vedevo allora che l’unione nell’amore può dare l’amore più grande, ma non la verità divina, espressa con parole nel simbolo di Nicea; non vedevo che l’amore non può sicuramente rendere una certa espressione della verità obbligatoria nell’unione per amore.
Allora non vedevo il difetto di questo ragionamento e, in grazia di questo, mi fu possibile accettare e seguire tutti i riti della Chiesa ortodossa senza comprenderne la maggior parte. Cercai allora di evitare con tutte le mie forze ogni ragionamento contraddittorio, e tentai di spiegare, il più ragionevolmente possibile, quei principî della Chiesa, di fronte ai quali mi trovavo.
Compiendo le cerimonie della Chiesa, dominavo la mia ragione, mi sottomettevo alla tradizione di tutta l’umanità, mi univo ai miei antenati, a coloro che amavo, a mio padre, a mia madre, ai miei avi e alle mie ave. Essi, e tutti quelli che avevan vissuto prima, credevano e vivevano e m’avevan generato. Mi univo anche a tutti quei milioni di uomini del popolo che stimavo. Di più, queste azioni non avevano nulla di cattivo in sè. Trovavo cattivo d’esser schiavo delle proprie passioni.
Alzandomi al mattino presto per andare alle funzioni, sapevo di far bene per questo solo che, per umiliare l’orgoglio del mio spirito e per avvicinarmi ai miei antenati e ai miei contemporanei, in nome della ricerca del senso della vita, sacrificavo il mio benessere fisico.
E così durante le divozioni, durante la lettura quotidiana delle preghiere con le genuflessioni, durante l’osservanza di tutte le quaresime. Questi sacrifici, per piccoli che fossero, pure eran compiuti in nome del bene. Facevo le mie divozioni, digiunavo, osservavo tutte le preghiere tanto a casa come in chiesa. Durante il servizio religioso, mi attaccavo ad ogni parola e le attribuivo un senso, quando potevo. Alla Messa le parole più importanti per me, erano: «Amiamoci l’un l’altro e siamo uniti in una stessa fede». Quanto alle parole: «Confessiamo il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo», io le trascuravo, perchè non potevo comprenderle.