< Le confessioni
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Lev Tolstoj - Le confessioni (1879-1881) (1882)
Traduzione dal russo di Anonimo (1913)
XIV
XIII XV


XIV.


In quest’epoca m’era così necessario di credere per vivere, che inconsciamente, nascondevo a me stesso le contraddizioni e le oscurità dell’insegnamento religioso. Ma l’attenzione che portavo al culto aveva dei limiti. Se la liturgia diventava sempre più chiara per me nelle sue espressioni principali, se mi spiegavo, bene o male, le parole: «Consacreremo tutta la nostra vita al Dio Cristo», dopo aver menzionato la Santa Vergine e tutti i santi, se mi spiegavo la ripetizione perpetua delle preghiere per l’Imperatore e i suoi parenti, perchè son più soggetti alla tentazione degli altri, e hanno maggior bisogno di preghiere; se mi spiegavo le preghiere per ottener la sottomissione degli avversari e dei nemici, poichè l’inimicizia è un male, se mi spiegavo queste preghiere ed altre, come l’inno cherubico e le preghiere dell’offertorio, ecc., tuttavia quasi i due terzi di tutti gli uffici rimanevano per me inspiegabili o sentivo che, dando loro una spiegazione, mentivo e con ciò distruggevo completamente la mia unione con Dio, perdendo ogni possibilità di giungere alla fede.

Provavo la stessa impressione alla celebrazione delle feste principali. Ricordarmi del sabato, cioè consacrare un giorno ad essere in rapporto con Dio, m’era comprensibile, ma la gran festa della Risurrezione, questo grande avvenimento di cui non potevo rappresentarmi l’autenticità, restava per me incomprensibile. Con questa parola Risurrezione1 i Russi indicano il giorno festivo di ogni settimana, e in quel giorno veniva celebrato il sacramento dell’Eucaristia, che m’era impossibile comprendere. Tutte le altre dodici feste, Natale eccettuato, commemoravano dei miracoli, ai quali cercavo di non pensare per non negarli: l’Assunzione, la Pentecoste, l’Ascensione, l’Intercessione della Santa Vergine.

Alla celebrazione di queste feste, sentendo che si attribuiva un’importanza a ciò che per me non ne aveva, inventavo delle spiegazioni che mi tranquillizzassero o chiudevo gli occhi per non vedere ciò che mi scandalizzava.

Sentivo ciò più vivamente che mai quando assistevo ai sacramenti più comuni e che passavano per i più importanti: il battesimo e la comunione. Qui mi trovavo in presenza di atti non incomprensibili, ma, al contrario, assolutamente comprensibili. Questi atti mi sembravano scandalosi ed ero condotto al dilemma; mentire o respingerli.

Non dimenticherò mai il sentimento doloroso da me provato il giorno in cui mi comunicai per la prima volta dopo parecchi anni. Il servizio del culto, la confessione, i regolamenti m’erano comprensibili e producevano in me la coscienza gioconda che il senso della vita mi si svelava. Mi spiegavo la comunione come un atto compiuto in memoria di Cristo e indicante la purificazione dal peccato e l’accettazione completa della dottrina cristiana. Non m’accorgevo se questa spiegazione fosse artificiosa o no. Ero così contento di umiliarmi davanti al confessore, un prete semplice, timido, di mettere alla luce tutto il fango della mia anima, pentendomi dei miei vizi; ero così contento di confondermi col pensiero, per l’umiltà, coi Padri che avevano scritto le preghiere; così contento di sentirmi in unione con tutti i credenti, che non vedevo l’artifizio della mia spiegazione. Ma quando m’avvicinai alle porte del santuario e il prete m’obbligò a ripetere ch’io credevo che ciò che stavo per ingoiare fosse il vero corpo e il vero sangue di Cristo, fu per me come un colpo di coltello nel cuore. Vedevo là, non solamente qualche cosa di falso, ma, un’esigenza crudele imposta da qualcuno che evidentemente non aveva mai saputo egli stesso che cosa fosse la fede.

Ora mi permetto di dire che fosse un’esigenza crudele, ma allora non osai pensarlo. Sentivo soltanto una sofferenza indicibile. Non mi trovavo più nella stessa situazione che in gioventù, quando pensavo che nella vita tutto è chiaro. Ero venuto alla fede, perchè all’infuori della fede non trovavo nulla, assolutamente nulla, tranne la morte. Per questo m’era impossibile respingere questa fede, e mi sottomisi.

Trovai nella mia anima un sentimento che mi aiutò a sopportar questo: l’umiltà e la sottomissione. Mi sono umiliato, ho ingoiato questo sangue e questo corpo senza nessun sentimento sacrilego, col desiderio di credere. Ma il colpo era già portato. E sapendo in anticipo ciò che mi attendeva, non avrei più potuto tornare a quella cerimonia.

Continuai a partecipare alle cerimonie della Chiesa, poichè credevo sempre che la fede ch’io confessavo fosse la verità; e mi accadde qualcosa che vedo chiaramente oggi, ma che allora mi parve strana.

Ascoltavo il racconto di un contadino illetterato, di un pellegrino, su Dio, sulla religione, sulla vita, sulla salvezza, e la conoscenza della fede si rivelava in me.

Mi avvicinavo al popolo, ascoltando i suoi ragionamenti sulla vita, sulla religione, e sempre più comprendevo la verità. Ciò mi accadde anche leggendo la vita dei Santi e le Leggende. Questa divenne la mia lettura favorita. Astrazion fatta dai miracoli che consideravo come un apologo esprimente l’idea predominante, questa lettura mi rivelava il senso della vita. V’era la vita di Macario il Grande, del principe Joassav (la storia di Budda); v’erano anche le parabole di Giovanni Grisostomo, quella del pellegrino caduto nel pozzo, del monaco che ha trovato l’oro, di Pietro il pubblicano. V’era ancora la storia dei Martiri, i quali dichiaravan tutti che la morte non esclude la vita, poi la storia degl’ignoranti salvati, dei poveri di spirito e di quelli che non sapevano nulla dell’insegnamento della Chiesa.

Ma non appena mi univo ai saggi credenti, o prendevo i loro libri, qualche dubbio su me stesso, qualche scontento, qualche discussione irritante si elevavano, e sentivo che, più approfondivo le loro parole, più mi allontanavo dalla verità e camminavo verso l’abisso.

  1. La domenica si chiama, in russo, Risurrezione.

Note

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