< Le confessioni di un ottuagenario
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Cap. IX Cap. XI


CAPITOLO DECIMO.


Carlino cancelliere, ovvero l’Età dell’Oro. — Come al principiare del 1796 si giudicasse al castello di Fratta il general Bonaparte. — La Repubblica democratica a Portogruaro e al castello di Fratta. — Mio mirabile dialogo col gran liberatore. — Ho finalmente la certezza che mio padre non è nè morto nè turco. — La Contessa m’invita da parte sua a raggiungerlo a Venezia.


Il conte Rinaldo era un giovine studioso e concentrato che si dava pochissima cura delle cose proprie, e meno ancora di spassarsi come voleva la sua età. Egli rimaneva a lungo rinchiuso nella sua camera; e con me in particolare non parlava quasi mai. Gli è vero che col capitano e colla signora Veronica io partecipava tuttavia all’onore della sua mensa, ma egli mangiava poco e parlava meno. Salutava nell’entrare e nell’uscire lo zio monsignore, e tutto si riduceva lì. Peraltro manieroso, affabile, giusto all’occorrenza; io non ebbi a lagnarmi di lui per cosa alcuna, e ascriveva quella sua salvatichezza o a malattia, o a paura d’un qualche vizio organico; infatti l’era d’una tinta piuttosto infelice, come di coloro che patiscono nel fegato. Io del resto menava i miei giorni l’uno dopo l’altro sempre tranquilli, sempre eguali come i grani d’un rosario. Di rado andava a Portogruaro a visitare i Frumier per paura del padre Pendola, massime dappoichè la Diocesi avea cominciato a mormorare della sua mascherata prepotenza, e la Curia, e il Capitolo, e il vescovo stesso a risentirsi dell’esser menati dolcemente pel naso. L’ottimo padre pativa le gran convulsioni, ed io non voleva assistere a sì doloroso spettacolo. Piuttosto praticava sovente a Cordovado in casa Provedoni, ove avea stretto grande amicizia coi giovani; e la Bradamante e l’Aquilina incalorivano la conversazione con quella donnesca magia che ne fa noi uomini essere doppiamente vivi, doppiamente Iesti e giocondi quando ci troviamo insieme con donne. Per me almeno fu sempre così; fuori dei colloquii obbligati a un prefisso argomento, quello che si chiama proprio il vero spontaneo e brioso chiacchierio non ho mai potuto farmelo venire in bocca trattenendomi con uomini; fossero anche amici, più naturalmente taceva se avessi nulla a dire di nuovo o d’importante, sicchè avrò anche fatto le mille volte la figura dello stupido. Ma fosse venuta a mettercisi di mezzo una donna! subito si aprivano le rosee porte della fantasia, e gli usci segreti dei sentimenti, e immagini e pensieri, e confidenze scherzose le correvano incontro ridendo, come ad una buona amica.

Notate però ch’io non ebbi mai una eccessiva facilità d’innamorarmi; e non dirò che tutte le donne mi facessero questo effetto lusinghiero, ma lo provai da parecchie, nè giovani nè belle. Bastava che un raggio di bontà o un barlume ideale splendesse loro sul viso; il resto lo faceva quella necessità che gli inferiori sentono di figurar bene dinanzi ai superiori per esserne favorevolmente giudicati. Le donne superiori a noi! Sì, fratellini miei; consentite questa strenua sentenza in bocca d’un vecchio che ne ha vedute molte. Sono superiori a noi nella costanza dei sacrifizii, nella fede, nella rassegnazione; muojono meglio di noi, ci son superiori insomma nella cosa più importante, nella scienza pratica della vita, che, come sapete, è un correre alla morte. Al di qua delle Alpi poi le donne ci son superiori anche perchè gli uomini non fanno nulla senza ispirarsi da loro: un’occhiata alla nostra storia, alla nostra letteratura vi persuada se dico il vero. E questo valga a lode e a conforto delle donne, ed anche a loro smacco in tutti quei secoli nei quali succede nulla di buono. La colpa originale è di esse soltanto. Se ne ravvedano a tempo, e l’Appennino mugolante partorirà non più sorci, ma eroi.

Qualche volta mi spingeva fino a Venchieredo a trovar Leopardo sempre più istupidito dalla tirannia e dalla frivolezza della moglie. Mi ricorda averlo veduto qualche domenica ai convegni vespertini intorno alla fontana. E dire che là gli avea balenato per la prima volta il sorriso della felicità e dell’amore! Allora invece andava col capo chino a braccio della Doretta; e tutti sogghignavano loro dietro; solito conforto dei mariti burlati. Ma aveva almeno la fortuna di non accorgersi di nulla, tanto quella vipera di donna gli teneva in servitù perfino l’intendimento. Oh colei non era certamente l’esemplare d’una di quelle donne superiori a noi, che accennava poco fa! Guai se la femmina traligna! È vecchio il proverbio; la si cangia in diavolo. Raimondo veniva talvolta anche lui alla fontana. Se conversava o scherzava colla Doretta lo faceva senza alcun riserbo, e in modo quasi da mover lo stomaco; se poi non si curava di lei per badare ad altre forosette o civettuole dei dintorni, allora la sfacciata non si schivava dal perseguitarlo, sempre a rimorchio del marito. E dava in tali atti di malgarbo di sdegno e di gelosia, che i capi ameni delle brigate ne facevano il gran baccano alle spalle del buon Leopardo. Gli altri Provedon, che si trovavano presenti a caso, scantonavano per vergogna; ed io stesso doveva allontanarmi; perchè la vista d’una confidenza sì piena e sì indegnamente tradita mi moveva la nausea. Pur troppo peraltro è vero che lo spettacolo delle sventure altrui è conforto alle nostre: per questo avanzando nella vita sembriamo indurirsi alle percosse del dolore, ma non è per abitudine; bensì perchè l’occhio allargandosi d’intorno ci scopre ad ogni momento altri infelici oppressi e bersagliati peggio di noi. La compassione dei mali che vedeva, mi armava di pazienza per quelli che sentiva. La Pisana mi avea promesso di scrivermi di tanto in tanto; io l’avea lasciata promettere, e sapeva fin d’allora quanto dovessi fidarmi alla sua parola. Infatti trascorsero parecchi mesi senza ch’io avessi sentore di lei, e soltanto sul cader della state mi pervenne una lettera strana, assurda, scarabocchiata, nella quale la veemenza dell’affetto e l’umiltà delle espressioni mi compensavano un poco della passata trascuranza. Ma sarebbe stato compenso per tutt’altri che per me. Io conosceva quella testolina vulcanica; e sapeva che sfogato quel suo impeto di pentimento e di tenerezza, sarebbe tornata per Dio sa quanto tempo all’indifferenza di prima. Alcuni versi di Dante mi stavano fitti in capo come tanti coltelli avvelenati....


. . . . . . . . . . . indi s’apprende
Quanto in femmina il foco d’amor dura
Se l’occhio o il tatto spesso nol raccende.


Quel piccolo Dantino io l’avea pescato nel mare magnum di libracci, di zibaldoni e di registri donde la Clara anni prima avea raccolto la sua piccola biblioteca. E a lei quel libricciuolo roso e tarlato, pieno di versi misteriosi, di abbreviature più misteriose ancora, e di immagini di dannati e di diavolerie, non avea messo nessunissima voglia. A me invece che l’avea sentito lodare e citare a Portogruaro ed a Padova più o meno a sproposito, parve trovare un gran tesoro; e cominciai ad aguzzarvi entro i denti, e per la prima volta giunsi fino al canto di Francesca, che il diletto era minore d’assai della fatica. Ma in quel punto cominciai ad innamorarmene. Piantai i piedi al muro, lo lessi fino alla fine; lo rilessi godendo di ciò che capiva allora, e prima mi era paruto non intelligibile. Insomma finii col venerare in Dante una specie di Nume domestico; e giurava tanto in suo nome, che perfino quei due versi citati poco fa mi sembravano articoli del credo. Notate che allora non s’impazziva ancora pel trecento; e che nè il Monti avea scritto la Basvilliana, nè le Visioni del Varano piacevano se non agli eruditi. Voi già vi beffate di me; ma vi siete accorti che questa religione dantesca, creata da me solo, giovinetto non filologo, non erudito, io me la reco a non piccola gloria. E avrete anco ragione. Ed io me ne glorio di più ancora, giacchè più che i versi, più che la poesia, amava l’anima e il cuore di Dante. Quanto alle sue passioni, erano grandi forti intellettuali, e mi piacevano in ragione di queste qualità, fatte omai tanto rare.

Tuttociò s’appicca poco a proposito col proverbio, lontan dagli occhi, lontan dal cuore; ma a Dante è piaciuto applicar quel proverbio alla fedeltà delle donne, ed io ho tirato in campo lui, ed i miei studii scervellati di sessanta anni fa, come le memorie mi venivano. Pur troppo in chi racconta la propria vita s’hanno a compatire sovente di cotali digressioni. Io poi per tirare innanzi ho proprio bisogno della vostra generosità, o amici lettori; ma su questo particolare delle mie glorie letterarie dovete usarmi indulgenza doppia, perchè le meno e le rimeno, come si dice, appunto perchè ne conosco la pochezza. I nostri grandi autori li ho piuttosto indovinati che compresi, piuttosto amati che studiati; e se ve la devo dire, la maggior parte mi allegavano i denti. Sicuro che il difetto sarà stato mio; ma pur mi lusingo che pel futuro anche chi scrive si ricorderà di esser solito a parlare, e che lo scopo del parlare è appunto quello di farsi intendere. Farsi intendere da molti, oh non è forse meglio che farsi intendere da pochi? In Francia si stampano, si vendono e si leggono più libri non per altro che per la universalità della lingua e la chiarezza del discorso. Da noi abbiamo due o tre vocabolarii, e i dotti hanno costume di appigliarsi al più disusato. Quanto poi alla logica la adoperano come un trampolo, a spiccare continui salti d’ottava e di decima. Quelli che son soliti a salire gradino per gradino restano indietro le mezze miglia, e perduto che hanno di vista la guida, siedono comodamente ad aspettarne un’altra che forse non verrà mai. Animo dunque! non dico male di nessuno, ma scrivendo pensate che molti vi abbiano a leggere. E così allora si vedrà la nostra letteratura porgere maggior aiuto che non abbia dato finora al rinnovamento nazionale.

E la lettera della Pisana dove l’ho lasciata? — Fidatevi: sono un girellone, ma dàlli dàlli, alle lunghe ci torno. La lettera della Pisana l’ho ancora qui insieme alle altre nel cassetto più profondo del mio scrittoio; e se ne avessi voglia potrei farvi assaggiare qualche fioretto di lingua d’un gusto molto bizzarro; ma vi basterà sapere che la mi dava notizia della Clara sempre novizia in convento e un po’ anche di Lucilio, il quale faceva molto parlare di sè a Venezia col suo fanatismo pei Francesi. Se costoro davano volta gli si pronosticava una brutta fine.

Ma di dar volta non se la sognavano nemmeno quegli invasati Francesi d’allora! La guerra contro di loro s’era impiccolita: soltanto l’Austria e il Piemonte duravano in campo; e così ridotta essi la sostenevano con miglior animo e con maggiori speranze di prima. Peraltro non accaddero grandi novità fino all’inverno, e allora chi le ebbe se le tenne; quello che doveva inventar la guerra d’ogni mese non aveva fatto ancora capolino dalle Alpi, e le nevi intimarono il solito armistizio. Quell’inverno fu il più lungo e il più tranquillo che passassi in mia vita. Le cure del mio uffizio mi tenevano occupato assiduamente. Fuori di quelle, il pensiero della Pisana mi martellava sempre; ma la sua lontananza se aggiungeva melanconia, toglieva anche acerbità al mio cordoglio, sempre per trovare qualche ristoro nell’idea di aver fatto e di fare il mio dovere. Giulio Del Ponte mi scrisse un paio di volte; lettere balzane e sibilline, vere lettere d’un innamorato ad un amico. Dalle quali comprendeva benissimo ch’egli non era felice pienamente; anzi che quella sua mezza felicità dell’ultimo anno s’era venuta a Venezia assottigliando di molto, sia pel bizzarro amore della Pisana, sia pel crescere dei desiderii. Quelle lettere pertanto mi angustiavano per lui, e per me quasi mi rallegravano. Da una parte capiva che se fossi stato a Venezia anch’io, non ci avrei forse goduto maggior felicità che a Fratta, e dall’altra credete voi che le contentezze d’un rivale, per quanto degno ed amico, ci diano in fondo un gusto proprio sincero? — Non vedendo i patimenti di Giulio così da vicino, io era più disposto a perdonarli a chi glieli infliggeva; non voglio darmi per un santo; la cosa era proprio tal quale ve la confesso. Del resto nella nostra solitudine nulla s’era cambiato. Il contino sempre nella sua stanza; la contessa che chiedeva denari con ogni corriere, e la vecchia nonna sempre confitta nel suo letto e affidata alla sorveglianza della signora Veronica e della Faustina. Intorno al camino erano rimasti il capitano e monsignor Orlando, che litigavano ogni sera per accomodare il fuoco. Ciascuno volea brandire l’attizzatoio, ciascuno voleva disporlo a proprio modo, e finivano col bruciar la coda al vecchio Marocco che si ricoverava malcontento sotto il secchiajo. Ad ogni gazzetta vecchia che vi capitasse, il capitano trionfava di vedere quei maledetti Francesi arenati fra gli Appennini e le Alpi. Non più quattro, ma sei ed otto anni di tempo avrebbe lor dato per passarle. Intanto, diceva egli, si può far venire sul Mincio tutta armata la Schiavonia, e mi saprebbero essi dire come andrebbe il giuoco!

Marchetto, Fulgenzio e la cuoca, che soli formavano l’uditorio, non aveano certo la pretesa di smantellare i bei castelli in aria del capitano; e il cappellano, quando c’era, lo aiutava a fabbricarli colla sua credula ignoranza. Io poi dimenava il capo, e non mi ricordo bene cosa ne pensassi. Certo le opinioni del capitano non dovevano entrarmi gran fatto, appunto perchè erano sue. Sul più bello giunse un giorno la notizia che un generale giovane e affatto nuovo doveva capitanare l’esercito francese dell’Alpi, un certo Napoleone Bonaparte.

— Napoleone! che razza di nome è? — chiese il cappellano — certo costui sarà un qualche scismatico.

— Sarà un di quei nomi che vennero di moda da poco a Parigi; — rispose il capitano. — Di quei nomi che somigliano a quelli del signor Antonio Provedoni, come per esempio Bruto, Alcibiade, Milziade, Cimone; tutti nomi di dannati che manderanno, spero, in tanta malora coloro che li portano.

— Bonaparte! Bonaparte! — mormorava monsignor Orlando. — Sembrerebbe quasi un cognome dei nostri!

— Eh! c’intendiamo! Mascherate, mascherate, tutte mascherate! — soggiunse il capitano. — Avranno fatto per imbonir noi a buttare avanti quel cognome; oppure quei gran generaloni si vergognano di dover fare una sì trista figura e hanno preso un nome finto, un nome che nessuno conosce perchè la mala voce sia per lui. È così! è così certamente. È una scappatoia della vergogna!... Napoleone Bonaparte!... Ci si sente entro l’artifizio soltanto a pronunciarlo, perchè già niente è più difficile d’immaginar un nome ed un cognome che suonino naturali. Per esempio avessero detto Giorgio Sandracca, ovvero sia Giacomo Andreini, o Carlo Altoviti, tutti nomi facili e di forma consueta; nossignori, sono incappati in quel Napoleone Bonaparte che fa proprio vedere la frode! —

Si decise adunque al castello di Fratta che il generale Bonaparte era un essere immaginario, una copertina di qualche vecchio capitano che non volea disonorarsi in guerre disperate di vittoria, un nome vano immaginato dal Direttorio a lusinga delle orecchie italiane. Ma due mesi dopo quell’essere immaginario, dopo vinte quattro battaglie, e costretto a chieder pace il re di Sardegna, entrava in Milano applaudito, festeggiato da quelli che il Botta chiama utopisti italiani. In giugno stretta Mantova d’assedio, avea già in sua mano la sorte di tutta Italia; dappertutto era un supplicar d’alleanze, un chieder di tregue; Venezia ancor deliberante quando era tempo d’aver già fatto, s’appigliò per l’ultima volta alla neutralità disarmata. Il generale francese se ne prevalse a sua comodità. Scorrazzò, invase, taglieggiò provincie, città, castelli. Ruppe due eserciti di Wurmser e d’Alvinzi sul Garda, sul Brenta, sull’Adige; un terzo di Provera presso a Mantova e nel febbraio del 97 la fortezza si arrende. A Fratta si dubitava ancora; ma a Venezia tremavano davvero; quasi quasi s’aveva udito a San Marco il tuonar dei cannoni; non era più tempo da ciarle. Pur seguitavano a sperare e a credere che come eran vissuti, così sarebbero scampati per sorte, per accidente, secondo la celebre espressione del doge Renier. La contessa peraltro in mezzo a quei subbugli non si vedeva tranquilla; neppur le pareva buon partito rifugiarsi in terraferma quando tutti partivano per ricoverarsi a Venezia. I Frumier vi erano già tornati con gran rammarico della eletta società di Portogruaro; la contessa adunque scrisse a suo figlio che avrebbe adoperato ottimamente di recarsi egli pure presso di lei, giacchè un uomo in famiglia era una gran malleveria, e gli raccomandava di portar seco quanto più danaro poteva per ogni emergenza. Il conte Rinaldo giunse a Venezia quando appunto la guerra napoleonica rumoreggiava alle porte del Friuli, e persuadeva al capitano Sandracca che il giovine generale côrso non era nè un essere ipotetico nè un nome romanzesco inventato dal Direttorio. Il capitano tanto più temette reale e presente il generale di Francia, quanto più lo avea schernito lontano e imaginario. Tutto ad un tratto si sparge la nuova che l’arciduca Carlo scende al Tagliamento con un nuovo esercito, che i Francesi gli vengono addosso, che sarà un massacro, un saccheggio, una rovina universale. Le case rimanevano abbandonate, i castelli si asserragliavano contro le soperchierie degli sbandati e dei disertori; si sotterravano i tesori delle chiese; i preti si vestivano da contadini, o fuggivano nelle lagune. Già da Brescia, da Verona, da Bergamo le crudeltà, gli stupri, le violenze si scrivevano, si lamentavano, si esageravano; l’odio e lo spavento s’alternavano nell’ugual misura, ma il secondo invigliacchiva il primo. Tutti fuggivano senza ritegno, senza pudore, senza provvidenza di sè e della famiglia. Il capitano e la signora Veronica scappavano, credo, a Lugugnana, dove si nascosero presso un pescatore in un isolotto della laguna. Monsignore non andò più in là di Portogruaro, perchè il digiuno lo spaventava più ancora di Bonaparte. Fulgenzio e i suoi figliuoli erano scomparsi, Marchetto essendo malato s’era fatto trasportare all’Ospedale. Ebbi un bel dire e un bel che fare a trattenere la Faustina che non la mi lasciasse solo colla vecchia contessa; mi restavano poi l’ortolano e il castaldo, che non avendo forse nulla da perdere non s’affrettavano tanto a mettersi in salvo. Ma così non poteva stare; tanto più che i birbaccioni dei dintorni, assicurati dal comune spavento imbaldanzivano, e mettevano a ruba or questo or quello dei luoghi più appartati e mal difesi. D’altra parte non era sicuro nè dell’ortolano, nè del castaldo, nè meno che meno della Faustina; e così risolsi, prima che il pericolo stringesse maggiormente, di far una corsa a Portogruaro a chiedervi soccorso. Sperava che il vice-capitano mi avrebbe concesso una dozzina di quegli Schiavoni che capitavano tutti i giorni, avviati a Venezia, e che monsignor Orlando mi avrebbe procurato una donna, un’infermiera da porre al letto di sua madre. Misi dunque la sella al cavallo di Marchetto che poltriva nella scuderia da una settimana, e via di galoppo a Portogruaro.

Le notizie, signori miei, non avevano a quel tempo nè vapori, nè telegrafi da far il giro del mondo in un batter d’occhio. A Fratta poi esse giungevano sull’asino del mugnaio, o nella bisaccia del cursore; laonde non fu meraviglia se appena lontano tre miglia dal castello trovassi della gran novità. A Portogruaro era a dir poco un parapiglia del diavolo; sfaccendati che gridavano; contadini a frotte che minacciavano; preti che persuadevano; birri che scantonavano, e in mezzo a tutto, al luogo del solito stendardo, un famoso albero della libertà, il primo ch’io m’abbia veduto, e che non mi fece anche un grande effetto in quei momenti e in quel posto. Tuttavia ero giovine, ero stato a Padova, era sfuggito alle arti del padre Pendola, non adorava per nulla l’inquisizione di Stato, e quel vociare a piena gola come pareva e piaceva, mi parve di botto un bel progresso. Mi persuadetti quasi che i soliti fannulloni fossero divenuti uomini d’Atene e di Sparta, e cercava nella folla taluno, che al crocchio del senatore soleva levar a cielo le legislazioni di Licurgo e di Dracone. Non ne vidi uno che l’era uno. Tutti quei gridatori erano gente nuova, usciti non si sa dove; gente a cui il giorno prima si avrebbe litigato il diritto di ragionare, e allora imponevano legge con quattro sberrettate e quattro salti intorno a un palo di legno. Balzava da terra se non armata, certo arrogante e presuntuosa una nuova potenza; lo spavento e la dappocaggine dei caduti faceva la sua forza; era il trionfo del Dio ignoto, il baccanale dei liberti che senza saperlo si sentivano uomini. Che avessero la virtù di diventar tali io non lo so; ma la coscienza di poterlo, di doverlo essere era già qualche cosa. Io pure dall’alto del mio cavalluccio mi diedi a strepitare con quanto fiato aveva in corpo; e certo fui giudicato un caporione del tumulto, perchè tosto mi si ragunò intorno una calca scamiciata e frenetica che teneva bordone alle mie grida, e mi accompagnava come in processione. Tanto può in certi momenti un cavallo. Lo confesso che quell’aura di popolarità mi scompigliò il cervello, e ci presi un gusto matto a vedermi seguito e festeggiato da tante persone, nessuna delle quali conosceva me, come io non conosceva loro. Lo ripeto, il mio cavallo ci ebbe un gran merito, e fors’anco il bell’abito turchino di cui ero vestito; la gente, checchè se ne dica, va pazza delle splendide livree, e a tutti quegli uomini sbracciati e cenciosi parve d’aver guadagnato un terno al lotto, col trovare un caporione così bene in arnese, e per giunta anche a cavallo. Fra quel contadiname riottoso che guardava di sbieco l’albero della libertà, e pareva disposto ad accoglier male i suoi coltivatori, v’avea taluno della giurisdizione di Fratta che mi conosceva per la mia imparzialità, e pel mio amore della giustizia. Costoro credettero certo che io m’intromettessi ad accomodar tutto per lo meglio, e si misero a gridare:

— Gli è il nostro Cancelliere! — Gli è il signor Carlino! — Viva il nostro Cancelliere! — Viva il signor Carlino! — La folla dei veri turbolenti, cui non parea vero di accomunarsi in un uguale entusiasmo con quella gentaglia sospettosa e quasi nimica, trovò di suo grado se non il cancelliere almeno il signor Carlino; ed eccoli allora a gridar tutti insieme: — Viva il signor Carlino! — Largo al signor Carlino! — Parli il signor Carlino! —

Quanto al ringraziarli di quegli ossequi e all’andar innanzi io me la cavava ottimamente; ma in punto a parlare affè che non avrei saputo che cosa dire: fortuna che il gran fracasso me ne dispensava. Ma vi fu lo sciagurato che cominciò a zittire, a intimar silenzio; e a pregare che si fermassero ad ascoltarmi, chè dall’alto del mio ronzino, e inspirato dal mio bell’abito prometteva di esser per narrare loro delle bellissime cose. Infatti si fermano i primi; i secondi non possono andar innanzi; gli ultimi domandano, cos’è stato? — È il signor Carlino che vuol parlare! — Silenzio! Fermi! Attenti!... — Parli il signor Carlino! — Oramai il cavallo era assediato da una folla silenziosa, irrequieta, e sitibonda di mie parole. Io sentiva lo spirito di Demostene che mi tirava la lingua; apersi le labbra... Ps, ps!... Zitti! Egli parla! — Pel primo esperimento non fui molto felice; rinchiusi le labbra senza aver detto nulla.

— Avete sentito?... Cosa ha detto? — Ha detto che si taccia! — Silenzio dunque!... Viva il signor Carlino! —

Rassicurato da sì benigno compatimento apersi ancora la bocca e questa volta parlai davvero.

— Cittadini (era la parola prediletta di Amilcare), cittadini, che cosa chiedete voi? —

L’interrogazione era superba più del bisogno: io distruggeva d’un soffio Doge, Senato, Maggior Consiglio, Podesteria e Inquisizione; mi metteva di sbalzo al posto della Provvidenza, un gradino di più in su d’ogni umana autorità. Il castello di Fratta e la Cancelleria non li discerneva più da quel vertice sublime; diventava una specie di dittatore, un Washington a cavallo fra un tafferuglio di pedoni senza cervello.

— Cosa chiediamo? — Cosa ha detto? — Ha domandato cosa si vuole! — Vogliamo la libertà!... Viva la libertà!... Pane, pane!... Polenta, polenta! — gridavano i contadini. — Questa gridata del pane e della polenta finì di mettere un pieno accordo fra villani di campagna e mestieranti di città. Il Leone e San Marco ci perdettero le ultime speranze. — Pane! pane! Libertà!... Polenta!... La corda ai mercanti! Si aprano i granaj!... Zitto! zitto!... Il signor Carlino parla!... Silenzio! —

Era vero che un turbine d’eloquenza mi si levava nel capo, e che ad ogni costo voleva parlare anch’io giacchè erano tanto ben disposti ad ascoltarmi.

— Cittadini — ripresi con voce altisonante — cittadini, il pane della libertà è il più salubre di tutti; ognuno ha diritto d’averlo perchè cosa sarà mai l’uomo senza pane e senza libertà?... Dico io, senza pane e senza libertà cos’è mai l’uomo? —

Questa domanda la ripeteva a me stesso perchè davvero era imbrogliato a rispondervi; ma la necessità mi trascinava; un silenzio più profondo, un’attenzione più generale mi comandava di far presto; nella fretta non cercai tanto pel sottile; e volli trovare una metafora che facesse colpo.

— L’uomo — continuai — resta come un cane rabbioso, come un cane senza padrone!

— Viva! viva! — Benissimo! — Polenta; polenta! — Siamo rabbiosi come cani! Viva il signor Carlino!... — Il signor Carlino parla bene! — Il signor Carlino sa tutto, vede tutto!

Il signor Carlino non avrebbe saputo chiarir bene come un uomo senza libertà, cioè con un padrone almeno, somigliasse ad un cane che non ha padrone e che ha per conseguenza la maggior libertà possibile; ma quello non era il momento da perdersi in sofisticherie.

— Cittadini — ripresi — voi volete la libertà; per conseguenza l’avrete. Quanto al pane e alla polenta io non posso darvene: se l’avessi vi inviterei tutti a pranzo ben volentieri. Ma c’è la Provvidenza che pensa a tutto: raccomandiamoci a lei! —

Un mormorio lungo e diverso, che dinotava qualche disparità di pareri accolse questa mia proposta. Poi successe un tumulto di voci, di gridate, di minaccie e di proposte, che dissentivanno alquanto dalle mie.

— Ai granaj, ai granaj! — Eleggiamo un podestà! — Si corra al campanile! — Si chiami fuori monsignor vescovo! — No no! Dal vice-capitano! — Si metta in berlina il vice-capitano! —

Vinse l’impeto di coloro che volevano ricorrere a monsignore; ed io sempre col mio cavallo fui spinto e tirato fin dinanzi all’Episcopio.

— Parli il signor Carlino! — Fuori monsignore! — Fuori monsignor vescovo! —

Si vede che la mia parlata, senza ottenere un effetto decisivo sottomettendoli in tutto e per tutto ai decreti della Provvidenza, li aveva almeno persuasi a confidare nel suo legittimo rappresentante. Ma nell’Episcopio intanto non si stava molto tranquilli. Preti, canonici e curiali ognuno dava il suo parere, e nessuno avea trovato quello che facesse veramente all’uopo. Il padre Pendola, che vacillava da un pezzo sul suo trono, credette opportuno il momento per saldarvisi meglio. Deliberato di tentare il gran colpo, egli tese una mano al di dentro in segno di fidanza, indi aperse coraggiosamente la vetriera, e uscito sul poggiuolo, sporse mezza la persona dal davanzale. Una salva di urli e di fischiate salutò la sua comparsa: lo vidi balbettar qualche parola, impallidire e ritirarsi a precipizio, quando le mani della folla si chinarono a terra per cercar qualche ciottolo. Monsignore di Sant’Andrea giubilò sinceramente di quello smacco toccato all’ottimo padre; e con lui tutti dal primo all’ultimo fecero eco dal fondo del cuore agli urli e alle fischiate della folla. Il vescovo, ch’era un sant’uomo, guardò pietosamente il suo segretario, ma gli era da un pezzo che aveva in animo di congedarlo appunto perchè era un santo, e se non lo ringraziò dell’opera sua lì sui due piedi anche questo fu effetto di santità. Egli si volse con faccia serena a monsignor di S. Andrea, pregandolo a volersi fare interprete dei desiderii di quel popolo che tumultuava. Io guardava sempre al solito poggiuolo, e vidi comparirvi alla fine la figura sinodale del canonico; nessun fischio, nessun urlo alla sua comparsa; un bisbiglio di zitti, zitti, un mormorio di approvazione e nulla più.

— Fratelli,— cominciò egli — monsignor vescovo vi domanda per mio mezzo quali desiderii vi menano a romoreggiare sotto le sue finestre!... —

Successe un silenzio di sbalordimento, perchè nessuno e neppur io sapeva meglio degli altri il perchè fossimo venuti. Ma alfine una voce proruppe: — Vogliamo vedere monsignor vescovo! — e allora seguì una nuova tempesta di grida. — Fuori monsignor vescovo! vogliamo monsignor vescovo!

Il canonico si ritirò, e già fervevano intorno a monsignore due diversi partiti circa la convenienza o no, ch’egli si esponesse agli atti turbolenti di quell’assembramento. Egli, il vescovo, s’appigliò al più coraggioso; si fece strada con dolce violenza fra i renitenti, e seguito da chi approvava si presentò sul poggiuolo. Il suo volto calmo e sereno, la dignità di cui era vestito, la santità che traluceva da tutto il suo aspetto commosse la folla, e mutò quasi in vergogna i suoi sentimenti di odio e di sfrenatezza. Quando fu sedato il tumulto promosso dalla sua presenza, egli volse al basso uno sguardo tranquillo ma severo, poi con voce quasi di paterno rimprovero domandò:

— Figliuoli miei, che cosa volete dal padre vostro spirituale? —

Un silenzio come quello che aveva accolto le parole del canonico, seguì a una tale dimanda: ma il pentimento soverchiava lo stupore, e già qualcheduno piegava le ginocchia, altri levavano le braccia in segno di preghiera, quando una voce unanime scoppiò da mille bocche che parvero una sola.

— La benedizione, la benedizione!...

Tutti s’inginocchiarono, io chinai il capo sulla criniera arruffata del mio ronzino, e la benedizione domandata scese sopra di noi. Allora, prima anche che il vescovo potesse soggiungere, come voleva, qualche parola di pace, la folla diè volta urlando che si doveva andare dal vice-capitano, e colla folla io e il mio cavallo fummo trascinati dinanzi alla podesteria. Quattro Schiavoni che sedevano alla porta si precipitarono nell’atrio chiudendo e sbarrando le imposte; indi dopo molte chiamate e molte consultazioni, il signor vice–capitano si decise a presentarsi sulla Loggia. La turba non aveva schioppi nè pistole, e il degno magistrato ebbe cuore di fidarsi:

— Cos’è questa novità, figliuoli miei?... — cominciò con voce tremolante. — Oggi è giorno di lavoro, ognuno di voi ha famiglia, come l’ho anch’io; si dovrebbe attendere ciascuno ai propri doveri, e invece... —

Un evviva alla libertà di quei pazzi indemoniati, soffocò a questo punto la voce dell’arringatore.

— La libertà ve la siete presa, mi pare; — continuò con un piglio di vera umiltà. — Godetevela, figliuoli miei; in queste cose io non ci posso entrare...

— Via gli Schiavoni!... Alla corda gli Schiavoni! — sorsero urlando parecchi.

— I Francesi! viva i Francesi! vogliamo la libertà! — risposero altri.

Questi signori Francesi mi vennero allora in mente per la prima volta in quel subbuglio, e misero qualche chiarezza, nelle mie idee. In pari tempo mi ricordai di Fratta e del perchè fossi venuto a Portogruaro; ma quel signor vice-capitano non mi pareva in così buone acque da poter pensare a soccorrere gli altri oltrecchè se stesso. Egli mostrava una grandissima voglia di ritirarsi dalla loggia, e ci volevano le continue gridate della folla per fare ch’ei rimanesse.

— Ma signori miei; — balbettava egli — non so qual utile io rechi a me ed a voi collo starmene qui sulla pergola in esposizione!... Io non sono che un ufficiale, uno strumento cieco dell’eccellentissimo signor luogotenente; dipendo affatto da lui... —

— No, no!... Deve dipendere da noi! — Non abbiamo più padroni! — Viva la libertà! — Abbasso il luogotenente!...

— Badino bene, signori! loro non sono autorità costituite, loro non hanno legittimi magistrati...

— Bene!... — Ci costituiremo! — Nominiamo un Avogadore! — Ai voti ai voti l'Avogadore! — Ella ubbidirà al nostro Avogadore!...

— Ma per carità — si opponeva disperatamente il vice-capitano; — questa è vera ribellione. Eleggere l'Avogadore va benissimo, ma diano prima il tempo di scriverne all’eccellentissimo luogotenente, che ne passi parola al serenissimo Collegio... —

— Morte al Collegio! — Vogliamo l'Avogadore! — Fermi! fermi! Pena la vita al vice-capitano se osa muoversi! — Ai voti l'Avogadore! ai voti! —

La confusione cresceva sempre e con essa lo schiamazzo; e da questo e da quello si bisbigliavano dieci nomi per la votazione; ma non v’è merito degli assenti che vinca l’autorità dei presenti. Un villano anche questa volta si pose a gridare: — Nominiamo il signor Carlino! — E tutti dietro lui a strepitare: — Ecco l'Avogadore del popolo! — Viva il signor Carlino! Abbasso il vice-capitano!... — In verità io non m’era avventurato in quel rimescolio con mire tanto ambiziose; ma perchè mi vidi tanto in alto, non mi bastò il cuore di scendere; rimane poi sempre in dubbio se lo avrei potuto. Cominciarono a stringermisi intorno, a sollevar quasi sulle spalle la pancia del cavallo, a sventolarmi il viso con moccichini sudici, con cappelli e con berrette, a battermi le mani come ad un attore che abbia ben rappresentato la propria parte. Il vice-capitano mi guardava dalla loggia, come un can grosso alla catena guarderebbe il botoletto sguinzagliato; ma ogni volta ch’egli facesse atto di ritirarsi, subito mille facce da galera gli si voltavano contro, minacciando di appiccar fuoco alla casa s’egli non obbediva al nuovo Avogadore.

— Sissignori, si ritirino loro, mandino di sopra il signor Avogadore... e ce la intenderemo fra noi. —

La folla tumultuava senza sapere il perchè, e già molti dei curiosi se l’erano cavata, e alcuni fra i contadini, stanchi di quella commedia, avevano ripreso il cammino verso casa. Per me io non sapeva in qual mondo mi fossi, perchè mi avessero nominato Avogadore, e qual costrutto dovesse avere l’abboccamento cui m’invitava il vice-capitano. Ma mi piaceva quell’essere diventato uomo di rilievo, e tutto sacrificai alla speranza della gloria.

— Apra, apra le porte!..... Lasci entrar l’Avogadore! — gridava la folla.

— Signori miei, — rispose il capitano — ho moglie e figliuoli, e non ho voglia di farli morire dallo spavento... Aprirò le porte quando loro si sieno allontanati... Veggono che non ho tutto il torto... Patti chiari e amicizia lunga! —

La gente non se la sentiva di allontanarsi, ed io tra perchè era stanco di stare a cavallo, tra perchè mi tardava l’ora di trattar da paro a paro con un vice-capitano, mi accinsi a persuadernela.

— Cittadini, — presi a dire — vi ringrazio; vi sarò grato eternamente! Sono commosso ed onorato da tanti contrassegni d’affetto e di stima. Tuttavia il signor vice-capitano non ha torto. Bisogna dimostrargli confidenza perch’egli si fidi di noi... Sparpagliatevi, state tranquilli... Aspettatemi in piazza... Intanto io difenderò le vostre ragioni...

— Viva l’Avogadore!... Bene! benissimo!... in piazza in piazza!... Vogliamo che si apra il granaio della podesteria!... Vogliamo la cassa del dazio macina!... Quello è il sangue dei poveri!...

— Sì, state tranquilli... fidatevi di me!... giustizia sarà fatta... ma nel frattempo restate in piazza tranquilli ad aspettarmi.

— In piazza, in piazza!... Viva il signor Carlino! viva l’Avogadore!... Abbasso san Marco!... Viva la libertà! —

In tali grida la folla rovinò tumultuosa verso la piazza, a saccheggiare qualche botteguccia di panettiere e d’erbivendola; ma il chiasso era maggiore della fame e non ci furono guai. Alcuni de’ più diffidenti rimasero per vedere se il vice-capitano atteneva le sue promesse: io scavalcai con tutto il piacere, consegnai il ronzino ad uno di loro, e attesi alla porta che mi aprissero. Infatti con ogni accorgimento di prudenza un caporale di Schiavone aperse una fessura, ed io v’entrai di sbieco; e poi si rimisero le sbarre e i catenacci come se proprio volessero tenermi prigione. Quel fracasso di serramenti e di chiavistelli mi diede un qualche sospetto, ma poi mi ricordai di essere un personaggio importante, un avogadore, e salii le scale a testa ritta e col braccio inarcato sul fianco, come appunto se avessi in tasca tutto il mio popolo pronto a difendermi. Il capitano rientrato premurosamente dalla loggia, mi aspettava in una sala fra una combriccola di scrivani e di sbirri, che non mi andò a sangue per nulla. Egli non aveva più quella cera umile e compiacente mostrata alla turba un cinque minuti prima. La fronte arcigna, il labbro arrovesciato, e il piglio sbrigativo del vice-capitano non ricordavano per nulla il pallore verdognolo, gli sguardi errabondi, e il gesto tremante della vittima. Mi venne incontro baldanzosamente chiedendomi:

— Di grazia, qual è il suo nome? —

Io lo ringraziai fra me di avermi sollevato dalla pena di interrogare il primo, giacchè proprio non avrei saputo a qual chiodo appiccarmi. Così stuzzicato nel mio amor proprio, alzai la cresta come un galletto.

— Mi chiamo Carlo Altoviti, gentiluomo di Torcello, cancelliere di Fratta, e da poco in qua avogadore degli Uomini di Portogruaro. —

— Avogadore, avogadore! — borbottò il vice-capitano. — È lei che lo dice: ma spero che non vorrà torre sul serio lo scherzo d’una folla ubriaca: sarebbe troppo rischio per lei. —

Quella masnada di sgherri assentì del capo alle parole del principale; io sentii una scalmana venirmi su pel capo, e poco mancò che non dessi fuori in qualche enormezza, per dar loro a divedere quanto poco mi calesse di tali minaccie. Un alto sentimento della mia dignità mi trattenne dallo scoppiare, e risposi al vice-capitano che certamente io non era degno del grande onore impartitomi, ma che non intendeva scadere di più mostrandomi più dappoco che non fossi infatti. Or dunque vedesse lui quali concessioni fosse disposto a fare, perchè il popolo mio cliente s’avvantaggiasse della libertà nuovamente acquistata.

— Che concessioni, che libertà? io non ne so nulla, — rispose il vice-capitano. — Da Venezia non son venuti ordini; e la libertà è tanto antica nella serenissima Repubblica, da non esserci nessun bisogno che il popolo di Portogruaro l’inventi oggi stesso.

— Piano, piano con questa libertà della serenissima! — replicai io già addestrato a simili dispute pel mio noviziato padovano. — Se lei per libertà intende il libero arbitrio dei tre inquisitori di Stato son pronto a darle ragione; essi possono fare alto e basso come loro aggrada. Ma in quanto agli altri sudditi dell’eccellentissima signoria, le domando umilmente in qual lunario ha ella scoperto che si possano chiamar liberi?

— L’inquisizione di Stato è una magistratura provata ottima da secoli; — soggiunse il vice-capitano con una vocina malsicura, nella quale l’antica venerazione si contemperava colla peritanza attuale.

— Fu trovata ottima pei secoli andati — soggiunsi io. — Quanto al presente siamo di diverso parere. Il popolo la trova pessima, e giovandosi del suo diritto di sovranità, la libera per sempre dall’incomodo di servirla.

— Signor... signor Carlino, mi pare; — riprese il vice-capitano — le faccio osservare che questa sovranità nessuno l’ha ancora data al popolo di Portogruaro, e che questo popolo nulla ha fatto per conquistarla. Io sono ancora l’officiale della serenissima signoria, e non posso certo permettere...

— Eh via! — lo interruppi io — cosa non hanno permesso gli officiali della serenissima a Verona, a Brescia, a Padova, e dappertutto dove hanno voluto entrare i Francesi? —

— Fuoco di paglia, signor mio! — sclamò imprudentemente il vice-capitano. — Si finge alle volte di concedere per riprendere meglio più tardi. So da buona fonte che il nobile Ottolin tiene pronti trentamila armati nelle valli Bergamasche, e mi sapranno dire se il ritorno dei signori Francesi somiglierà all’andata. —

— Insomma, signor mio, — ripigliai — qui non si tratta di sapere che cosa avverrà domani: si tratta di esaudire o no le inchieste d’un popolo libero. Si tratta di rendergli quello che gli fu estorto con quel tirannico dazio delle macine, più di aprire a suo profitto quei granaj dell’erario che ormai sono diventati inutili, perchè gli Schiavoni possono tornare a casa quando loro aggrada. —

Un mormorio di scontento corse per le bocche di tutti, ma il capitano che era delicato d’orecchio, e udiva ingrossare di fuori un nuovo tumulto, fu più moderato degli altri.

— Io sono il vice-capitano delle milizie e delle carceri, — mi rispose egli. — Questi (e m’additava un omaccio grosso e bernoccoluto) questi è il cassiere dei Dazii; quest’altro (un figuro lungo e magro come la fame) è il conservatore dei pubblici granaj. Investiti dalla Signoria delle nostre cariche, noi non possiamo certamente riconoscere in lei un legittimo magistrato, nè obbedire al piacer suo senza un rescritto della Signoria stessa. —

— Corpo e sangue! — io gridai. — Son dunque Avogadore per nulla? —

Quella gente si guardò in viso allibita per tanta baldanza; laonde io più impegnato che mai a sostener la mia parte, uscii affatto dai gangheri.

— Io, signori, ho promesso di tutelare gli interessi del popolo e li tutelerò. Più devo tornare a Fratta prima di sera, e prima di sera voglio dar ordine a tutte queste faccende. Mi hanno capito, signori? Altrimenti io ricorro al popolo e lascio fare a lui.

— Ho capito; — rispose con maggior tenacità ch’io non m’aspettassi il vice-capitano. — Ma senza un ordine della Signoria io non riconoscerò altri superiori che l’eccellentissimo luogotenente. E quanto al popolo, esso non vorrà fare il matto, finchè noi terremo lei per ostaggio in nostra compagnia.

— Come, io tenuto per ostaggio?... Un avogadore!...

— Lei non è avogadore per niente affatto! Son io il vice-capitano. —

— Grazie! vedremo anche questa.

— La vedremo di sicuro: ma non la consiglio ad aver fretta. Già ne sappiamo alquanto sul conto suo, e come ella tratta con poco rispetto i fidatissimi dell’inquisizione.

— Ah ne sanno alquanto!... Me l’immagino! Il loro fidatissimo appena tornato a Fratta lo farò impiccare!... Sappiamo anche questa!

— Olà! d’ordine dell’eccellentissima Signoria questa persona è arrestata come rea di lesa maestà!.... —

A questa tirata affatto tragica del vice-capitano la sua masnada mi si schierò intorno, come per impedirmi di fuggire; ma lo domando adesso per allora, qual bisogno c’era di questa precauzione se tutte le porte erano serrate? Se fossi stato Pompeo mi avrei messo il lembo della toga sul capo; invece incrociai le braccia sul petto, e diedi a quella ciurma vigliacca il sublime spettacolo d’un avogadore senza popolo e senza paura. Quel quadro plastico non durava da un minuto, che uno scalpitìo di cavalli, un accorrere e un urlare di popolo nella sottopposta contrada attrasse l’attenzione dei miei carcerieri. Tutti si precipitavano alle finestre quando s’intesero più distinte le grida di quel nuovo tumulto.

— I Francesi! I Francesi! Viva la libertà!... Largo ai Francesi! —

Rimasero come tante statue del convito di Medusa, chi qua, chi là, per la stanza. Io solo fui d’un salto alla finestra, e vidi giunto alla porta del capitaniato un drappello di cavalleggieri colle loro lancie, e intorno ad essi un tramestio, una confusione di pazzi, di curiosi, di fanatici, che parevano disposti a fracassarsi la testa l’uno contro l’altro per le diverse passioni che li agitavano.

— Vivano i Francesi!... Largo ai signori Francesi! —

Non c’era dubbio: quei cavalleggieri erano francesi, e si misero a picchiare colle loro lancie nella porta del capitaniato, urlando e bestemmiando con tutte le peste e i sacrebleu del loro vocabolario. Io gridai dall’alto che si sarebbe aperto sul momento; e le mie parole furono accolte da un raddoppio di grida ed entusiasmo nella folla.

— Bravo il signor avogadore!... Avanti il signor avogadore! —

Commosso da tanta bontà io m’inchinai, e corsi poi dentro per fare che si aprisse. Ma dentro nessuno mi udiva, tutti fuggivano all’impazzata qua e là per le stanze; alcuni si rimpiattavano negli armadi vuoti dell’archivio; altri cercavano le chiavi delle carceri per mescolarsi ai prigionieri; gli Schiavoni di scolta se l’erano data a gambe per la porticciuola del vicolo, e dovetti scendere io stesso per togliere le sbarre alla porta. Si salvi chi può; appena socchiuse le imposte si precipitò nell’atrio col cavallo e colla lancia, un dannato sergente, che per poco non m’infilzò da parte a parte; e dietro a lui tutti quegli altri spiritati, benchè davanti alle soglie ci fosse una gradinata di sette scalini: e poi nell’atrio volteggiavano di gran trotto alla rinfusa quasi per infilare la scala e salir Dio sa dove. Il vice-capitano e i suoi satelliti udendo sotto i piedi quel baccano che facea tremar le muraglie, si raccomandavano alla beata Vergine del terremoto. Io poi cercava farmi intendere dal sergente e persuaderlo a scendere da cavallo, se intendeva salir le scale come pareva sua idea. Il sergente con grande mia meraviglia mi rispose in buon italiano che cercava del sopraintendente ai granai, che cercava del vice-capitano, e che se costoro non gli comparivano tosto dinanzi, li avrebbe fatti impiccare all’albero della libertà. Un evviva frenetico alla libertà sancì da parte del popolo questa sentenza; l’atrio era già invaso dalla turba, e fra i cavalli dei francesi e il gridare dei cittadini succedette un bell’inferno. Finalmente il sergente vedendo di non poter salire le scale a cavallo e che il vice-capitano non si dava alcuna premura di scendere balzò di sella, e mi disse che lo accompagnassi presso quei signori magistrati. Al veder me avviato del pari coll’officiale francese, un’altra gridata scrollò il capitaniato dalle fondamenta.

— Viva il signor avogadore! —

Saliti che fummo io ed il sergente, dopo molte indagini ci venne fatto di stanare il cassiere della camera dei dazii, il sopraintendente ai granai e il vice-capitano, i quali si erano stretti a mucchio come tre serpenti in un canto della soffitta. Ma avemmo un bel che fare a salvarli dall’unghie del popolo che ci aveva seguito; e solamente colla mia autorità, spalleggiata da qualche bestemmia del sergente, giunsi ad imporre un po’ di silenzio. Il sergente allora si fece a domandare coi modi più burberi che una sovvenzione di cinquemila ducati gli fosse fatta a titolo di viaria, e che i granai rimanessero aperti in servizio della libertà e dell’esercito francese. Il popolo colse anche questo pretesto per gridare un evviva alla libertà. I tre magistrati tremavano di conserva che parevano tre arboscelli investiti dal zefiro; ma il cassiere ebbe fiato di rispondere che non avevano ordini, che se si fosse usata la forza...

— Che forza o non forza! — gli gridò minacciosamente il sergente. — Il general Buonaparte ha vinto ieri mattina una battaglia al Tagliamento; noi abbiamo sparso il nostro sangue in difesa della libertà, e un popolo libero ci negherà adesso un qualche ristoro? — I cinque mila ducati devono essere sborsati prima di un’ora, e il resto della cassa il generale comanda che lo si metta a disposizione del popolo. Quanto ai granaj, fornito che ne sia il campo a Dignano, si lascino aperti alle famiglie più bisognose. Ecco i benefici intendimenti dei repubblicani francesi!

— Vivano i Francesi! Abbasso i san Marchini! Viva la libertà! — gridava la turba infuriando nelle sale dell’ufficio, fracassando mobili, e gittando carte e scaffali fuori dalle finestre. Gli altri di fuori strepitavano con peggiori urli per la rabbia di non poter fare altrettanto. Allora mi fu meraviglioso il vedere come la paura così pressante e vicina non avesse liberato i tre magistrati dal vecchio e doveroso spavento dell’inquisizione di Stato. Tutti e tre concepirono l’uguale idea, ma il vice-capitano fu il primo che si arrischiò di esporla.

— Signore, — balbettò esso — signor ufficiale pregiatissimo, il popolo, come lei dice, è libero; noi..... noi non c’entriamo per nulla..... I granaj e la cassa si sa dove sono. Qui (e accennava a me), qui c’è appunto l’illustrissimo signor avogadore, creato appunto stamane per servizio del Comune, faccia il piacere di rivolgersi a lui. Quanto a noi... noi abdichiamo nelle mani... nelle mani...

Non sapeva nelle mani di chi abdicare, ma una nuova vociata della turba lo sollevò dal peso di quella dichiarazione.

— Viva la libertà! Vivano i Francesi!... Viva il signor avogadore!... —

Il sergente volse le spalle a quei tre disgraziati, mi prese a braccetto e mi condusse giù per le scale. E mentre parte della folla restava a trastullarsi coi suoi vecchi magistrati imponendo loro la coccarda, e facendoli gridare viva questo e viva quello, un altro codazzo di popolo seguì il drappello dei Francesi, che accerchiando la mia importantissima persona si avviava all’ufficio della cassa. Lungo la via notai al sergente ch’io non aveva le chiavi, ma egli mi rispose con un sorrisetto di compassione, e cacciò gli sproni nel ventre al cavallo per fare più presto. Le porte furono sfondate da due zappatori; il sergente penetrò nella cassa, chiuse le somme ritrovatevi nella sua valigia, dichiarò che non v’erano se non quattromila ducati, e riprese il cammino verso i granaj lasciando anche là la rabbia popolare sfogarsi nei mobili e nelle carte. Sotto i granaj trovammo già pronta una lunga fila di carri, parte soldateschi, parte requisiti dalle cascine dei dintorni, e scortati da buona mano di cacciatori provenzali. Mediante l’opera di costoro, gli orzi, i frumenti, le farine, furono insaccate e caricate in brevissimo spazio di tempo; al popolo fu concesso lo spolverio delle farine che usciva dalle finestre, e nullameno esso gridava sempre. — Vivano i Francesi! Abbasso san Marco!... Viva la libertà!... —

Apprestato il convoglio, il capitano che lo dirigeva, ed avea raccolto i referimenti del sergente, mi chiamò solennemente a sè, onorandomi ad ogni due parole dei titoli di cittadino e di avogadore. Mi proclamò benemerito della libertà, salvatore della patria, e figliuolo adottivo del popolo francese. Indi i carri presero la via in buona regola verso San Vito, i cavalleggieri scomparvero colla valigia in un nembo di polvere, ed io mi rimasi allibito, sorpreso, scornato fra un popolo poco contento e meno ancora satollo. Tuttavia gridavano ancora: — viva i Francesi! Viva la libertà! — solamente si erano dimenticati del loro avogadore, e questo mi procurò il vantaggio di potermela svignare appena cominciò ad imbrunire. Il ronzino non avea tempo di rintracciarlo, e poi non mi bastava il cuore di cimentarmi sovr’esso a qualche nuovo trionfo; capii che miglior prudenza era rimanere a piedi. A piedi adunque, e col rammarico di aver perduto in superbe frascherie tutta quella giornata, ripresi per sentieri e per traghetti il cammino di Fratta. Molte considerazioni politiche e filosofiche sull’instabilità della gloria umana, e del favor popolare, e sulle bizzarre usanze dei paladini della libertà, mi stoglievano la mente dalla paura che qualche disgrazia fosse successa nel frattempo al castello. Peraltro le cascine deserte per le quali ebbi a passare, e le tracce di disordine e di saccheggio che osservai in esse, mi davano qualche pensiero, e fecero sì che affrettassi il passo involontariamente, e che mano a mano che m’avvicinava a casa mi pentissi sempre più di aver trascurato per tante ore la faccenda più importante per la quale mi era mosso. Pur troppo i miei timori erano fondati! — A Fratta trovai letteralmente quello che si dice la casa del diavolo. Le case del villaggio abbandonate; frantumi di botti, di carri, di masserizie, ammonticchiati qua e là; rimasugli di fuochi ancora fumanti: sulla piazza le tracce della più gran gazzarra del mondo. Carnami mezzo crudi, mezzo arrostiti; vino versato a pozzanghere; sacchi di farina rovesciati; avanzi di stoviglie, di piatti, di bicchieri: e in mezzo a questo il bestiame sciolto dalle stalle che pascolava, e il chiaroscuro della notte imminente dava a quella scena l’apparenza d’una visione fantastica. Io mi precipitai nel castello gridando a perdifiato: Giacomo! Lorenzo! Faustina! ma la mia voce si perdeva nei cortili deserti, e solo di sotto all’atrio mi rispose il nitrir d’un cavallo. Era il ronzino di Marchetto, che sbrigliatosi nel parapiglia di Portogruaro era tornato a casa, più fedele e più coraggioso il povero animale di tutti quegli altri animali, che si vantavano forniti di cervello e di cuore. Un dubbio crudele mi squarciò l’anima riguardo alla vecchia contessa, e passai di volo i cortili e i corritoj, a rischio anche di fiaccarmi il collo contro qualche colonna. Là dentro perchè la luna non potea penetrare, non mi caddero sott’occhio i segni della tregenda, ma ne fiutava passando il puzzo stomachevole. Inciampando nelle imposte scassinate, nelle mobilie fracassate, salii mezzo carpone le scale, nella sala fui quasi per ismarrirmi, tanta era la confusione delle cose che la ingombravano. Lo spavento mi rischiarava, giunsi alla camera della vecchia, e mi vi precipitai entro in un buio terribile gridando da forsennato. Mi rispose dalla profonda oscurità un suono spaventevole, come d’un respiro affannato insieme e minaccioso: il sordo ruggito della fiera, il gemito di un fanciullo armonizzavano in quel rantolo cupo e continuo.

— Signora, signora! — sclamai coi capelli irti sul capo. — Son io! son Carlino! Risponda! —

Allora udii il romore d’un corpo che a stento si sollevava, e gli occhi mi si sbarravano fuori delle orbite per pure discernere qualche cosa in quel mistero di tenebre. Avanzarmi per toccare, retrocedere in cerca di lume, erano partiti che non mi passavano neppure pel capo tanto la terribilità di quell’incertezza mi rendeva attonito ed inerte.

— Ascolta; — cominciò allora una voce la quale a stento io riconobbi per quella della contessa vecchia — ascolta, Carlino: giacchè non ho prete voglio confessarmi a te. Sappi... dunque... sappi che la mia volontà non ha mai consentito a male alcuno... che ho fatto tutto, tutto il bene che ho potuto... che ho amato i miei figliuoli, le mie nipoti, i miei parenti... che ho beneficato il prossimo... che ho sperato in Dio... Ed ora ho cent’anni; cent’anni, Carlino! cosa mi serve aver vissuto un secolo?... Ora ho cent’anni, Carlino, e muojo nella solitudine, nel dolore, nella disperazione!... —

Io tremai tutto da capo a fondo; e sviscerando coll’occhio della pietà tutti i misteri di quell’anima ravvivata soltanto per sentire il terror della morte.

— Signora, — gridai — signora, non crede ella in Dio?... —

— Gli ho creduto finora; — mi rispose con voce che s’andava spegnendo. E indovinai da quelle parole un sorriso senza speranza. Allora non udendola più moversi nè respirare, avanzai fino alla sponda del letto, e toccai rabbrividendo un braccio già aggranchito dalla morte. Fu un momento che mi parve di vederla; mi parve di vederla, benchè le tenebre si affollassero sempre più in quella stanza funeraria, e sentii le punte avvelenate de’ suoi ultimi sguardi figgermisi in cuore senza misericordia, e quasi mi sembrò che l’anima sua abbandonando l’antico compagno mi soffiasse in volto una maledizione. Maledetta questa vita lusinghiera e fugace che ci mena a diporto per golfi ameni e incantevoli, e ci avventa poi naufraghi disperati contro uno scoglio!... Maledetta l’aria che ci accarezza giovani, adulti e decrepiti, per soffocarci moribondi!... Maledetta la famiglia che ci vezzeggia, che ne circonda lieti e felici, e si sparpaglia qua e là e ci abbandona negli istanti supremi e nella solitudine della disperazione! Maledetta la pace che finisce coll’angoscia, la fede che si volge in bestemmia, la carità che raccoglie l’ingratitudine! Maledetto... — La mia mente in questi tetri delirii vacillava fra il furore e la stupidità; quella vita santa e centenaria troncata a quel modo negli spasimi dello spavento mi travolgeva la ragione, e stetti lunga pezza con quel braccio gelato nella mano, che non avrei saputo dire se fossi vivo o morto. Finalmente mi riscossi vedendo farsi luce nella stanza, e vidi essere il cappellano che si maravigliò non poco di trovarmi in quel luogo. Lo Spaccafumo gli veniva dietro recando una candela. In tutt’altro momento la scompostezza delle loro figure, il pallore del viso, l’infossamento degli occhi, il sanguinar delle carni mi avrebbe messo raccapriccio; allora invece non vi badai nemmeno. Il prete s’accostò senza parole al letto della vecchia, e sollevato l’altro suo braccio lo lasciò ricadere.

— Cani di Francesi! — mormorò egli. — Ecco ch’ella è morta senza i conforti della religione!... E sì, io non ne ho colpa, mio Dio?... —

Ciò dicendo egli si guardava la persona tutta pesta e lacerata pei mali trattamenti dei soldati, dei quali avea sfidato la collera col voler rimanere al letto dell’inferma. Lo avevano trascinato fuori di là sbeffeggiandolo e percotendolo, ma egli avea ronzato sempre intorno al castello, e vi tornava allora, non appena i saccheggiatori si erano dileguati. Quanto allo Spaccafumo egli indovinava cento miglia lontano le disgrazie del cappellano e non mancava mai di accorrere in buon punto; era proprio una seconda vista aguzzata dalla gratitudine e dall’amicizia. Io nè potei forse allora, nè volli poi amareggiare il dolore del buon prete raccontandogli la morte della signora. Tacqui dunque, e mi inginocchiai con loro a recitare le preghiere dei morti; nell’animo mio più per conforto ai vivi, che per suffragio alla defunta. Indi ricomponemmo il cadavere in un’attitudine cristiana; ma l’idea impressa dalla morte su quelle sembianze sformate, contrastava spaventosamente colle mani giunte in croce in atto di preghiera. Io che volgeva nell’anima il segreto di quel contrasto mi allontanai poco dopo, lasciando il prete ed il suo compagno recitare con devoto fervore le orazioni dei defunti. Vagai a lungo per la campagna come uno spettro; indi tornato in paese, seppi da qualche fuggiasco la storia terribile di quella scorreria soldatesca, che dopo aver insozzato tutto il territorio s’era rovesciata col furore dell’ubriachezza sul castello di Fratta. I vituperi che una masnada di sicarii doveva aver commesso su quella povera vecchia, che sola era rimasta ad affrontarli, non voleva immaginarmeli. Ma quel poco che ne avea veduto il cappellano, lo stato miserevole del cadavere, il disordine della stanza, attestavano degli scherni spietati ch’ella aveva sofferto. Confesso che il mio entusiasmo pei Francesi si rallentò d’assai; ma poi a ripensarvi, mi parve impossibile che premeditatamente si lasciassero commettere tali mostruosità, e divisando che le dovevano imputarsi al talento bestiale di alcuni soldati, decisi di trarne giustizia. La fama dipingeva il general Buonaparte come un vero repubblicano, il difensore della libertà; mi cacciai in capo di ricorrere a lui, e due giorni dopo, quando il corpo della contessa fu deposto coi soliti onori nella tomba gentilizia, mi misi in viaggio per Udine, dove aveva allora sua stanza lo stato maggiore dell’esercito francese. Dai dati raccolti avea potuto argomentare che i colpevoli appartenessero all’ugual battaglione di bersaglieri che scortava il convoglio dei grani partito quel giorno stesso da Portogruaro: perciò non disperava che verrebbe fatto di rintracciarli e di punirli ad esemplare castigo. La virtù antica del giovine liberatore d’Italia era caparra, secondo me, di pronta giustizia.

Ad Udine trovai la solita confusione. Gli ospiti che comandavano, i padroni che ubbidivano. Le autorità veneziane senza forza, senza dignità, senza consiglio; il popolo e i signori del paese spartiti in diverse opinioni le une più strane e fallaci delle altre. Ma moltissimi che giorni prima aveano gridato evviva agli Usseri d’Ungheria e ai dragoni di Boemia, plaudivano allora ai sanculotti di Parigi. Questo era il frutto della nullaggine politica di tanti secoli: non si credeva più di essere al mondo che per guardare; spettatori e non attori. Gli attori si fanno pagare, e chi sta in poltrona è giusto che compensi quelli che si muovono per lui.

Il generale in capite Napoleone Buonaparte (così lo chiamavano allora) dimorava in casa Florio. Chiesi di abboccarmi con lui, affermando di avere a fare gravissime comunicazioni sopra cose avvenute nella provincia, e siccome egli mestava in fin d’allora nel torbido coi malcontenti veneziani, così mi venne concessa un’udienza. Questo perchè non lo seppi che in appresso. Il generale era nelle mani del suo cameriere che gli radeva la barba; allora non disdegnava di farsi vedere uomo, anzi ostentava una certa semplicità catoniana, cosicchè al primo aspetto rimasi confortato d’assai. Era magro, sparuto, irrequieto; lunghi capelli stesi gli ingombravano la fronte, le tempie e la nuca, fin più oltre al collare del vestito. Somigliava appunto a quel bel ritratto che ce ne ha lasciato l’Appiani, e che si osserva alla villa Melzi a Bellaggio: dono del primo console presidente al vice-presidente, superba lusinga del lupo all’agnello. Solamente a quel tempo era più sfilato ancora, tantochè gli si avrebbero dati pochi anni di vita, ed anzi una tal sembianza di gracilità aggiungeva l’aureola del martire alla gloria del liberatore. Egli sacrificava la sua vita al bene dei popoli; chi non si sarebbe sacrificato per lui?

— Cosa volete, cittadino? — mi diss’egli ricisamente, fregandosi le labbra col pizzo dello sciugatojo.

— Cittadino generale — risposi con un inchino lievissimo, per non offendere la sua repubblicana modestia; — le cose di cui vengo a parlarvi sono della massima importanza e della maggiore delicatezza.

— Parlate pure, — egli soggiunse accennando il cameriere che continuava l’opera sua. — Mercier non ne sa d’italiano più che il mio cavallo.

— Allora — ripresi — mi spiegherò con tutta l’ingenuità d’un uomo, che si affida alla giustizia di chi combatte appunto per la giustizia e per la libertà. Un orrendo delitto fu commesso tre giorni sono al castello di Fratta da alcuni bersaglieri francesi. Mentre il grosso della loro schiera saccheggiava arbitrariamente i pubblici granaj e l’erario di Portogruaro, alcuni sbandati invasero una onorevole casa signorile, e svillaneggiarono e straziarono tanto una vecchia signora inferma più che centenaria, rimasta sola in quella casa, che ella ne morì di disperazione e di crepacuore. —

— Ecco come la serenissima Signoria inacerbisce i miei soldati! — gridò il generale balzando in piedi, poichè il cameriere avea finito di sciacquargli il mento. — Si predica al popolo che sono assassini, che sono eretici; al loro comparire tutti fuggono, tutti abbandonano le case. Come volete che simili accoglienze predispongano gli animi all’umanità e alla moderazione?... Ve lo dico io; bisognerà che mi volga indietro a pulirmi la strada da questi insetti molesti. —

— Cittadino generale, capisco anch’io che la fama bugiarda può aver impedito la cordialità dei primi accoglimenti; ma vi è una maniera di smentir questa fama, mi pare, e se con un esempio luminoso di giustizia.... —

— E sì, parlatemi proprio di giustizia, oggi che siamo alla vigilia d’una battaglia campale sull’Isonzo!... La giustizia bisognava che fosse fatta a noi fin da due o tre anni fa!... Adesso raccolgono quello che hanno mietuto. Ma ho il conforto di vedere che il peggior danno non vien loro da’ miei soldati... Bergamo, Brescia e Crema hanno già divorziato da san Marco; e quella stupida e fraudolenta oligarchia s’accorgerà finalmente che i loro veri nemici non sono i Francesi. L’ora della libertà è suonata; bisogna levarsi in piedi e combattere per essa, o lasciarsi schiacciare. La Repubblica francese porge la mano a tutti i popoli perchè si rifacciano liberi, nel pieno esercizio dei loro diritti innati e imprescrivibili. La libertà val bene qualche sacrifizio! Bisogna rassegnarsi. —

— Ma, cittadino generale; io non parlo di rifiutarmi a nessun utile sacrifizio per la causa della libertà. Soltanto mi sembra che il martirio d’una vecchia contessa... —

— Ve lo ripeto, cittadino; chi ha esacerbato l’animo de’ miei soldati? chi ha volto contro di essi il talento dei preti di campagna e dei contadini?... È stato il Senato, è stata l’Inquisizione di Venezia. Non dubitate che giustizia sarà fatta sopra i veri colpevoli... —

— Pure, mi parrebbe che un esempio per ovviare a simili disordini nel futuro... —

— L’esempio, cittadino, i miei bersaglieri lo daranno sul campo di battaglia. Non dubitate. Giustizia sarà fatta anche sopr’essi; già non pretendereste che li ammazzassi tutti!... Or bene; saranno nella prima fila; laveranno col loro sangue e a pro della libertà l’onta della colpa commessa. Così il male sarà volto in bene, e la causa del popolo si sarà avvantaggiata degli stessi delitti che la deturparono!... —

— Cittadino generale, vi prego di osservare... —

— Basta, cittadino: ho osservato tutto. Il bene della repubblica innanzi ad ogni cosa. Volete essere un eroe?... Dimenticate ogni privato puntiglio e unitevi a noi, unitevi con quegli uomini integri e leali che fanno anche nel vostro paese una guerra lunga, ostinata, sotterranea, ai privilegi dell’imbecillità e della podagra. Di qui a quindici giorni mi rivedrete. Allora la pace, la gloria, la libertà universale avranno cancellato la memoria di questi eccessi momentanei.

In queste parole il gran Napoleone aveva finito di vestirsi, e si mosse verso la camera vicina ove lo attendevano alcuni officiali superiori. Vedendo ch’egli nè era molto contento della mia visita, nè pareva disposto a badarmi oltre, io m’avviai mogio mogio giù per la scala, riandando il tenore di tutto quel colloquio. Non ci capii per verità molto addentro; ma pure que’ suoi gran paroloni di popolo e di libertà, e quel suo piglio riciso ed austero m’avevano annebbiato l’intelletto, e mi partii a conti fatti, che l’odio contro i patrizii veneziani superava d’assai perfino il risentimento contro i bersaglieri francesi. La tremenda disgrazia della contessa mi parve una goccia d’acqua, in confronto al mare di beatitudine che ci sarebbe venuto addosso pel valido patrocinio dell’esercito repubblicano. Quel cittadino Bonaparte mi pareva un po’ aspro, un po’ sordo, un po’ anche senza cuore, ma lo scusai pensando che il suo mestiere lo voleva pel momento così. E a questo modo lasciai a poco a poco darsi pace la morta, e tornai col pensiero ai vivi: cosicchè nella lettera che scrissi a Venezia per partecipare il triste caso alla famiglia ne affibbiai forse più la colpa all’improvvidenza delle venete magistrature e alla sciocca paura del popolo, che alla barbara sfrenatezza degli invasori. Il cappellano fu molto meravigliato di vedermi tornare a Fratta colle mani piene di mosche, e tuttavia più tranquillo e contento di quando n’era partito. Monsignore e il capitano, che s’erano raccovacciati in castello, udirono con terrore il racconto del mio colloquio col generale Buonaparte.

— L’avete proprio veduto? — mi chiese il capitano.

— Capperi se l’ho veduto! si faceva anzi la barba.

— Ah! si rade anche la barba? io invece avrei creduto che la portasse lunga.

— A proposito, — saltò su Monsignore — dopo la morte della mamma (un lungo sospiro) non mi son più raso nè il mento nè la chierica. Faustina, dico, (anche costei era tornata) mettete su la cocoma dell’acqua!... —

Così sentiva i proprii dolori e le pubbliche miserie monsignor Orlando di Fratta. Son io a dirlo che le bestie si mostrarono le più sensibili fra tutti gli abitanti del castello in quella congiuntura: non eccettuato me medesimo, che un tardo e vano pentimento non varrà certo a purgare dall’odiosa smemorataggine di quella tremenda giornata. Non contando il ronzino di Marchetto, che lasciò il tafferuglio per tornarsene a casa come doveva far io, ci fu il cane del capitano, il vecchio Marocco, che sdegnò di accompagnarsi al padrone nella sua fuga verso Lugugnana. Ed egli rimase vagante pel deserto castello, fiutando qua e là come in cerca d’un’anima migliore della sua; ma non gli venne fatto di trovarla, e un francesino scapestrato si divertì a forarlo parte a parte colla bajonetta nel bel mezzo del cortile. Reduce a casa quella frotta di vigliacchi restò tanto attonita e confusa, che non sentirono neppure il puzzo di quella carogna che appestava l’aria da tre giorni. Toccò accorgermene a me tornato che fui da Udine; e allora diedi ordine a un contadino perchè fosse gettata in qualche fogna. Ma il contadino uscito per questa pia opera mi chiamò indi a poco, acciocchè contemplassi anch’io una cosa meravigliosa. Sul cadavere già verminoso di Marocco aveva preso stanza il gattone soriano suo compagno di tanti anni, e non c’era verso di poternelo snidare. Carezze, minacce e strappate non valsero, tantochè me ne impietosii, e presi anche in qualche venerazione quel povero morto, che avea saputo destare in un gatto una sì profonda amicizia. Lo feci staccare a forza; e comandai che Marocco fosse seppellito là dove aveva ricevuto il funesto premio della sua fedeltà. Il contadino gli affondò per tre braccia la buca e poi gli buttò sopra la terra, e credette di aver fornito la bisogna. Ma per mesi e mesi continui bisognò ogni mattino rimettere quella terra al suo posto, perchè il gatto fedele occupava le sue notti a rasparla fuori per riposare ancora sugli avanzi dell’amico. Che cosa volete? io rispettai il dolore di quella bestia, nè mi bastò il cuore di trafugargli quelle spoglie tanto dilette a lui, e così lungamente incomode all’olfato dei castellani. Le feci coprire con una pietra. Allora il gatto vi posò sopra giorno e notte lamentandosi continuamente, e girando intorno al sepolcro con un miagolio melanconico. Là visse ancora qualche mese, e poi morì; e lo so di sicuro perchè non mancai poscia d’informarmi come fosse finita quella tragica amicizia. Diranno poi che i gatti non hanno la loro porzioncella d’anima! Quanto ai cani, la loro fama in proposito è bastevolmente assicurata. Il loro affetto ha posto tra gli affetti familiari; l’ultimo posto certo, ma il più costante. Il primo che fece festa al ritorno del figliuol prodigo scommetto io che fu il cane di casa! E quando mi si gracchia intorno sull’inutilità ed il pericolo di questa numerosa famiglia canina che litiga all’umana il nutrimento, e le inocula talvolta una malattia spaventosa e incurabile, io non posso far a meno di sclamare. — Rispettate i cani! — Forse adesso si può star in bilico, ma forse anche, e Dio non voglia! verrà un tempo che si giudicheranno migliori affatto di noi. Di questi tempi ne furono altre volte nella storia dell’umanità. Noi bipedi tentenniamo fra l’eroe ed il carnefice, fra l’angelo e belzebù. Il cane è sempre lo stesso; non cambia mai come la stella polare. Sempre amoroso, paziente, e devoto fino alla morte. Ne vorreste di più, voi che non avreste cuore di distruggere neppure una tribù di cannibali?...

Intanto io deggio confessare che, quanto a me, la dimora di Fratta non mi pareva più nè così tranquilla, nè così degna come un mese prima. I Francesi mi frullavano pel capo; sognava di diventare qualche cosa d’importanza; questa mi sembrava la miglior via per racquistare l’amore della Pisana. Pensava sempre a Venezia, alla caduta di San Marco, al nuovo ordinamento che ne sarebbe sorto, alla libertà, alla uguaglianza dei popoli. Quel tal general Bonaparte di poco era più attempato di me. Perchè non poteva anch’io mutarmi di sbalzo in un vincitore di battaglie, in un salvatore di popoli? L’ambizione mi adescava a braccetto dell’amore: e non sentiva più quel pietoso rispetto per la dolorosa passione di Giulio Del Ponte. Trascurava le faccende di cancelleria, e il più del mio tempo lo perdeva a dottrineggiare di politica con Donato, o a lottare di scherma o al tiro al bersaglio con Bruto Provedoni. Bruto era il più infervorato dei giovani fratelli per la causa della libertà e spesso la Bradamante e l’Aquilina ce ne davano la baja. Esse aveano veduto i Francesi senza concepirne per verità la favorevole opinione che ne avevamo concepita noi, e noi dal canto nostro andavamo in collera, quando esse per divertirci da questo incantesimo, ci tornavano a mente alcune delle nefandità commesse da quei propagatori dell’incivilimento. Soprattutto lo strazio della vecchia contessa di Fratta non voleva udirlo nominare. Sentiva che avevano ragione, ma non voleva concederlo; e per questo inveleniva a tre doppi. Non so come avrei finito se le cose andavano per la solita strada; ma la fortuna s’intromise a farla vincere a me, coi miei grilli d’ambizione e di superbia.

Un bel giorno (eravamo agli ultimi di marzo) mi capita da Venezia una lettera della signora contessa. Leggo e rileggo la sottoscrizione. Non c’è caso, l’è proprio lei. Mi reca sommo stupore ch’ella mi scriva, e più ancora che la incominci in capo a pagina con un caro nipote. Fui per gettar via la testa dalla maraviglia, ma ebbi il buon senso di tenermela per capire il resto. Figuratevi chi era giunto a Venezia?... Mio padre! nientemeno che mio padre!... Ma doveva crederlo?... Un uomo che si credeva morto, che non si era fatto vedere per venticinque anni! La ragione quasi si rifiutava, ma il cuore avido d’amare diceva di sì, e già egli volava sulla via di Venezia che non era giunto al fine della lettera. Gli è vero che a leggerla tutta credo d’avervi impiegato una mezza giornata, e poi durante il viaggio la riscorreva ogni tanto, per paura di aver frainteso e di essermi lusingato indarno. Consegnata la cancelleria a quel buon capo di Fulgenzio, io partii il giorno stesso. Aveva il cuore che non voleva star cheto; e nel cervello poi mi sobbollivano tante speranze condite di memorie, di passioni, di desiderii, d’impossibile, che non ebbi più pace. La contessa mi ammoniva di prepararmi a riprendere nella società il posto concesso ad un rappresentante del patrizio casato degli Altoviti; aggiungeva che mio padre non scriveva lui perchè avea disimparato l’alfabeto italiano, che smontassi intanto presso di lei non più in casa Frumier, ma in casa Perabini in Cannaregio, e finiva col mandare al diletto nipote i baci suoi e della cugina Pisana. Mio padre e la Pisana mi stavano sul cuore assai più della zia.

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