< Le confessioni di un ottuagenario
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Cap. X Cap. XII


CAPITOLO DECIMOPRIMO.


Come a Venezia si accorgessero che gli Stati della Serenissima facevano parte dell’Italia e del mondo. — Mio ingresso nel Maggior Consiglio come patrizio veneziano al dì primo di maggio 1797. — Macchinazioni contro il governo fomentate dagli amici e dai nemici della patria. — Cade la Repubblica di San Marco come il gigante di Nabucco, ed io divento segretario della Nuova Municipalità.


La prima persona che vidi e che abbracciai a Venezia fu la Pisana; la prima che mi parlò fu la signora contessa, la quale dal fondo dell’appartamento correndo verso di me s’affaccendava a gridarmi: — Bravo il mio Carlino, bravo!... Come ti vedo volentieri!... Su dunque, un bel bacione da vero nipote!... — Io passai di malissima voglia dai baci della Pisana a quelli della contessa, ancor più gialla e uncinata che per l’addietro. Ma anche in quel tumulto di affetti che mi turbava allora, rimase un buon cantuccio per la meraviglia d’un sì inusato accoglimento. Mi rassegnai a chiarirmene in seguito, e intanto la contessa mandò fuori la Rosa in cerca di mio padre. Questa missione della fida cameriera mi sorprese anche un poco, tanto più che essa non più giovane ma sempre bisbetica com’era stata, vi si disponeva con assai borbottamenti. Tali incarichi appartenevano agli staffieri; e cominciai a dubitare che il seguito della contessa non fosse molto numeroso. Infatti stando lì ad aspettare, osservai nella camera quello che non parrebbe possibile, un grandissimo disordine nella stessa nudità: polvere e ragnateli componevano gli addobbi; qualche mobile, qualche specchio infisso nel muro; poche seggiole sparute e tisicuzze qua e là; insomma la vera miseria abitante in un palazzo. Ma quello che distoglieva la mente da queste melanconie era l’aspetto della Pisana. Più bella, più fresca, più gioconda io non l’aveva veduta mai; e tale ella sapeva di essere, benchè con mille vezzi imparati novellamente a Venezia cercasse di offuscare lo splendore di quei pregi. Ma fosse dono di natura, o cecità mia, perfino gli artifizii prendevano nelle sue fattezze un incanto di leggiadria. Peraltro la ritrovai ancor più taciturna e meno espansiva del solito; la mi guardava a tratti coll’anima negli occhi, indi chinava gli sguardi arrossendo, e le mie parole sembravano dilettarle voluttuosamente l’orecchio, senzachè colla mente arrivasse a comprenderle. A tutto ciò io badava mentre la contessa zia mi annegava in un subisso di chiacchiere, ed io non ne capiva un iota; soltanto mi ferì spesse volte il nome di mio padre, e mi parve accorgermi ch’ella pure fosse molto lieta del suo inaspettato e miracoloso ritorno.

— O non torna mai quella sciocca di Rosa! — borbottava la signora. — Io non ho voluto che ci andassi tu, perchè voglio proprio ridonartelo io il tuo papà, ed esser presente alla gioja del vostro riconoscimento. Oh che buon papà che hai, il mio Carlino!... —

Mi parve che a quelle parole la Pisana arrossasse più del solito, e fosse turbata dagli sguardi ch’io teneva fermi continuamente in lei. Finalmente tornò la Rosa a dire, che il mio signor padre finito un affare in piazza sarebbe stato da noi, e allora io voleva uscire in traccia di lui per anticiparmi la gioja di quel soave momento, ma la contessa mi sforzò tanto che dovetti rimanere. Un’ora dopo squillò il campanello, e un ometto rubizzo, sciancato d’una gamba, mezzo turco e mezzo cristiano al vestito, entrò saltellando nell’anticamera. Io gli era corso incontro fin là; la contessa, venutami dietro, si pose a gridare: — Carlino, è tuo padre!... abbraccia tuo padre! — Io infatti mi abbandonai fra le braccia del nuovo arrivato, versando fra le pieghe della sua zimarra armena le prime lagrime di gioja che spargessi mai. Mio padre non fu verso di me nè molto affettuoso, nè troppo discorsivo; si maravigliò assaissimo che col nome che portava, mi fossi nicchiato in un così oscuro bugigattolo come era una cancelleria di campagna, e mi promise, che inscritto che io fossi come suo legittimo figliolo nel libro d’oro, avrei fatto la mia gran figura nel Maggior Consiglio. Quell’accorto vecchietto parlava di cotali cose con un certo fare, che non si sapeva se fosse da burla o da senno; e ad ogni punto e virgola, quasi per corroborare l’argomento, usava battere col rovescio della mano sul taschino del sottabito, da dove rispondevagli un lusinghiero tintinnio di zecchini e di doble. Ad ognuno di questi accordi metallici, il riso giallognolo della contessa s’irraggiava d’un roseo riflesso, come il cielo scuriccio d’un temporale all’occhiata di traverso che gli manda il sole. Io poi ascoltava e guardava quasi trasognato. Quel signor padre capitatomi di Turchia, colla ricchezza in una mano, la potenza nell’altra, e una larghissima dose di canzonatura in tutte le sue maniere, mi faceva un effetto maraviglioso. Io non mi stancava di osservare quei suoi occhietti bigi un po’ sanguigni, un po’ loschi, che per tanti anni avevano guardato il sole d’oriente, e quelle rughe capricciose e profonde formatesi sotto il turbante al lavorio corrosivo di Dio sa quali pensieri, e quei gesti un po’ autorevoli, un po’ marinareschi, che armeggiavano sempre per commentare la zoppicante oscurità di un gergo più arabo che veneziano. Si vedeva un uomo avvezzo alla vita; il che vuol dire che non si fa più caso di nulla, che crede a poco, che spera meno ancora, e che sacrificatosi per lungo tempo alla speranza d’una futura comodità, trova tutto agiato, tutto comodo perchè tutto mena all’ugual fine. Così i mezzi sono alle volte scuola, ed esercizio a disprezzare il fine. In tal modo almeno io giudicai mio padre; e confesso sinceramente che mi misi intorno a lui fin da principio con maggior curiosità che amore. Mi pareva che tali dovessero essere stati que’ vecchi mercatanti veneziani della Tana o di Smirne, che a furia di furberia, di chiacchiere e d’attività, facevano perdonare o dimenticare dai Tartari la differenza di fede. Turchi a Costantinopoli, Cristiani a S. Marco, e mercanti dovunque, aveano essi fatto di Venezia la mediatrice dei due mondi d’allora. Perfino una certa barbetta rada, grigia, e stizzosa accostava la fisionomia di mio padre alla maschera di Pantalone; ma egli veniva tardi sulla scena del mondo. Mi pareva uno di quei personaggi comici ancor travestiti da Persiani o da Mamalucchi, che dopo calato il sipario escono ad annunziar la commedia per l’indomani. Tuttociò senza alcun pregiudizio della paterna autorità.

Intrattenutici un pochino, con molte interiezioni di cordialità e di maraviglia della signora contessa, e qualche sospiro represso della Pisana, il signor padre m’invitò ad uscire con lui: e mi menò infatti a San Zaccaria dove aveva preso alloggio in una bella casa, e addobbatala quasi alla turchesca, con tappeti, divani e pipe a bizzeffe. Vi si desideravano le tavole, e qualche forziere da riporre le robe, ma vi era per compenso un gran numero di armadii donde si cavava, come per incanto, ogni cosa che si potesse desiderare. Una mulatta scurissima di oltre quarant’anni ammanniva il caffè da mane a sera, e tra lei e il padrone se l’intendevano a cenni e a monosillabi, che era un trastullo a vederli; non credo che parlassero nessuna lingua di questo mondo, e potrebbe darsi che i diavoli favellassero come loro nelle escursioni terrestri. Il signor padre depose il cappello a tre corni, si tirò sulle orecchie un berrettone moresco, accese la pipa, si fece versare il caffè, e volle che sedessi come lui, incrocicchiando le gambe sopra un tappeto. Ecco un futuro patrizio del Maggior Consiglio, occupato a compitare il galateo di Bagdad. Mi disse che era grato a sua moglie, di avergli essa lasciato una sì bella eredità come io era, in compenso forse delle poche delizie procacciategli col matrimonio; mi lasciò travedere che egli chiudeva un occhio sopra alcuni rancidi sospetti, che aveano guastato la loro concordia e ricondotto mia madre a Venezia; finì col confessare che io gli somigliava, massime negli occhi e nell’apertura delle narici; tanto bastava per ricongiungerlo d’un affetto immortale al suo figliuolo unigenito. Io lo ringraziai a mia volta di così benigni sentimenti a mio riguardo; lo pregai di scusarmi dove trovasse difettiva la mia educazione, per la condizione di orfano nella quale era vissuto; ma volli aprirgli gli occhi sulla maniera poco onorevole della protezione accordatami dagli zii fino alla sua venuta; e col modesto contegno m’accaparrai, credo, la sua stima fin da quel primo colloquio. Egli mi osservava colla coda dell’occhio, e quanto sembrava poco attento alle parole, tanto notava in me tutti gli altri segni, dai quali per lunga esperienza aveva imparato a conoscere gli uomini.

Ebbi dal suo criterio una sentenza piuttosto favorevole. Almeno così dovetti inferire dal maggiore affetto dimostratomi in seguito. Indi volle ch’io gli narrassi della contessina Clara, come si era fatta monaca; e mi nominò sovente il dottor Lucilio col massimo segno di rispetto, maravigliandosi come la famiglia di Fratta non si tenesse onorata di imparentarsi con lui. L’ugualità mussulmana temperava in lui l’aristocrazia naturale; almeno lo credetti, e più mi confermai in questa opinione, quand’egli tirò innanzi beffandosi dell’illustrissimo Partistagno, che voleva tener indietro il secolo collo spadone di suo nonno. Io mi stupii di trovar mio padre istruito ai pari di me in cotali faccende, e che egli ne chiedesse contezza agli altri dove tanta ne aveva lui. Peraltro le cose vai meglio saperle da due bocche che da una; ed egli si regolava, giusta il sapiente dettato di questo proverbio. Mi parlò poi così, in via di discorso, della Pisana e dei gran corteggiatori che aveva a Venezia, e del suo torto marcio di non appigliarsi al più ricco per ristorare la dignità della casa e la fortuna della mamma. — Ahi, ahi! — pensai fra me; — ecco l’aristocrazia che rigermoglia! — Giulio Del Ponte sopratutto gli pareva, per usar la sua frase, un saltamartino. La Pisana adoperava male a non torselo d’infra i piedi, che l’era un cantastorie pieno di tossi, di miserie e di melanconia. Le belle ragazze devono badare ai bei giovani, e quei mezzi omiciattoli in Levante si mandavano a vender bagiggi per le contrade. Io mi scaldava tutto a questi aforismi del signor padre; e quasi sarei stato lì lì per fargli una confessione generale. Non mi tratteneva più la compassione per Giulio, ma una certa vergogna di mostrarmi ragazzo e innamorato ad un uomo così esperto e ragionatore. Egli continuava a odiarmi, e intanto narrava le dilapidazioni della contessa, e la ruinosa indifferenza del conte Rinaldo che si perdeva a far lunarii nelle bibilioteche, mentre la bassetta e il faraone strappavano di mano a sua madre le ultime razzolature del loro scrigno. Mi confessò con maligna compiacenza che la contessa avea cercato di sentire il peso delle sue doble, ma che non avea potuto vederne neppur il colore; e in questo batteva la mano al taschino sulla solita sonagliera di monete. Tale guardinga taccagneria non mi andò a’ versi affatto, e son quasi certo che egli se ne avvide. Ma non usò per questo la cortesia di cambiar registro; anzi vi ribadì sopra come uomo incaponito nella propria opinione, che il danaro sia la cosa meglio apprezzata ed apprezzabile. Io invece, dei pochi ducati che aveva in tasca, ne avrei data la metà al primo accattone che me li chiedesse; e forse la pensava così, perchè ne aveva sempre avuti pochi. La povertà mi fu maestra di generosità; ed i suoi precetti mi giovarono anche quando io non l’ebbi più per aja e per compagna. Peraltro ebbi campo indi a poco a rilevare che mio padre non era uno spilorcio. Egli mi trasse quel giorno alle migliori botteghe, perchè vi provvedessi da raffazzonarmi come il più compito damerino di San Marco. Indi mi condusse alla mia stanza che aveva una porta libera sulla scala, e mi lasciò colla promessa ch’egli avrebbe fatto di me il secondo capostipite della famiglia Altoviti.

— I nostri antenati furono tra i fondatori di Venezia, — mi diss’egli prima di partire; — venivano da Aquileja, ed erano Romani della stirpe Metella. Ora che Venezia tende a rifarsi, bisogna che un Altovito ci ponga le mani. Lascia fare a me! —

Il signor padre sbruffava in tali parole tutta la boria proverbiale della povera nobiltà di Torcello; ma le doble levantine s’adoperarono tanto, che il mio diritto all’iscrizione nel libro d’oro fu riconosciuto immantinente, ed io comparvi per la prima volta come patrizio votante al Maggior Consiglio nella seduta del 2 aprile 1797. Quanto a lui egli non voleva immischiarsene; pareva non si tenesse degno di porsi in cima al rinnovamento del casato, e che stesse contento di fornirmene i mezzi. Quei pochi giorni vissuti signorilmente a Venezia, e per mezzo della contessa di Fratta e degli eccellentissimi Frumier nelle migliori conversazioni, mi avevano fruttato una fama straordinaria. Non ero spiacevole di figura, le mie maniere si toglievano dalle solite leziosaggini, la coltura non mancava affatto, ma non soffocava neppure colle pedanterie quel modesto brio concessomi da natura; più di tutto poi credo che la voce di dovizioso mi accreditasse come ottimo partito presso tutte le zitelle, e presso le madri che ne avevano. Carlino di qua, Carlino di là, tutti mi chiamavano, tutti mi volevano. Anche qualche sposina non faceva la disdegnosa; e insomma io non ebbi che a scegliere fra molte maniere di felicità. Per allora non ne scelsi alcuna, e la novità mi occupò talmente, che fin la Pisana, una volta fuori degli occhi, non mi dava più da pensare. Ella forse se ne stizziva: ma per essere in una fase di superbia non si degnava di mostrarlo, e soltanto si accontentava di sfogar quella stizza contro il povero Giulio. Mi ricorda che a quel tempo lo vidi parecchie volte, e sarei anche tornato ad averne compassione, se le mie occupazioni me ne porgevano il tempo nulla nulla. Il povero giovine stava sempre fra la vita e la morte, e dàlli una volta e dàlli due, s’era ridotto a tale che ad ogni mosca che ronzasse intorno alla Pisana sdilinquiva di paura.

Intanto le cose d’Italia si stravolgevano sempre più. Già da più di sei mesi Modena, Bologna e Ferrara aveano dato l’esempio di una servile imitazione di Francia dietro eccitamento dei Francesi: aveano improvvisato come una bolla di sapone la Repubblica Cispadana. Carlo Emanuele succedeva a Vittorio Amedeo nel regno di Sardegna già occupato e ridotto in provincia militare francese. Tutta Italia s’insudiciava i ginocchi dietro le orme trionfali di Bonaparte, ed egli ingannava questi, sbeffeggiava quelli con alleanze, con lusinghe, con mezzi termini. Gli Stati veneziani di terraferma, da lui astutamente stuzzicati, si levavano a romore contro lo stendardo del leone: sorgevano per tutto alberi della libertà; egli solo sapeva con quanta radice. E fu un momento ch’egli dubitò della propria fortuna pel gran nugolo di nemici che aveva dinanzi a combattere, per la grande distanza di provincie non tanto fedeli nè pienamente illuse, che lo divideva da Francia; ma rifiutatigli i proposti negoziati, buttò via ogni timore, e andò fino a Lesben ad imporre all’Austria i preliminari di pace. La Serenissima Signoria aveva veduto passarsi dinanzi quel turbine di guerra, come l’agonizzante che travede nell’annebbiata fantasia lo spettro della morte. Altro non avea fatto che avvilirsi, pazientare, pregare e supplicare, dinanzi al nemico prepotente che la schiacciava oncia ad oncia, disonorandola cogli inganni e col vitupero. Francesco Battaja, Provveditore straordinario in terraferma, fu l’interprete più degno di cotali vilissimi sensi di servitù; e infamò peggiormente la sua codarda obbedienza coll’inobbedienza e col tradimento più codardi ancora. Alle umilianti proteste contro l’invasione delle città, l’occupazione dei castelli e delle fortezze, il sollevamento delle popolazioni, lo spoglio delle pubbliche casse e la devastazione universale, Bonaparte rispondeva con beffarde proposte d’alleanza, con ironici lamenti, e con domande di tributi. Il procuratore Francesco Pesaro e Giambattista Corner, Savio di terraferma, si erano abboccati con lui a Gorizia per protestare contro la parte presa da officiali francesi nelle rivoluzioni di Brescia e di Bergamo, nonchè contro le piraterie degli armatori francesi negli intimi recessi del golfo. Ne ebbero tale risposta, che sulla chiusa del loro rapporto i due inviati non esitarono ad affermare, che soltanto dalla divina assistenza bisognava sperare alla loro negoziazione quell’esito, che dalle durissime circostanze non era permesso in alcun modo di attendere. Francesco Pesaro ebbe animo retto e chiara antiveggenza; ma gli mancavano la costanza e l’entusiasmo, come mostrò dappoi; per questo nè fu capace di salvar la Repubblica, nè d’imprimere alla sua caduta un suggello di grandezza.

I turbolenti intanto rumoreggiavano, i paurosi davano ansa al partito, e fu veduto nel Maggior Consiglio lo strano caso, che la filosofia e la paura votassero contro la stabilità ed il coraggio. Ma la vera filosofia a quei giorni avrebbe dovuto consigliare di cercar la salute nella propria dignità, non di chiederla in ginocchione alla sapienza politica d’un condottiero. Io per me fui degli illusi, e me ne pento e me ne dolgo; ma operava a fin di bene, e d’altra parte l’amicizia di Amilcare ancora prigione, Lucilio intrinseco affatto dell’ambasciatore francese, e mio padre più di tutti, fiduciosi nel prossimo rinnovamento di Venezia, mi spingevano per quella via. O terribile insegnamento! Ripudiare, schernire le virtù antiche senza prima essersi ricinti il cuore colle nuove, e implorare la libertà col lievito della servitù già gonfia nell’animo! Vi sono diritti che sol meritati possono chiamarsi tali; la libertà non si domanda ma si vuole: a chi la domanda vilmente è giusto rispondere cogli sputi: e Bonaparte aveva ragione, e Venezia torto. Soltanto anche un eroe che ha ragione, può esser codardo nei modi di farsela. Il partito democratico che allora poteva chiamarsi ed era infatti francese, non predominava forse a Venezia per numero; sibbene per gagliardia d’animo, per forza d’azione, e sopratutto per potenza d’aiuti. I contrari non formavano partito, ma un volume inerte di viltà e d’importanza, che dalla grandezza non riceveva alcun accrescimento di forza. I nervi ubbidiscono all’anima, le braccia all’idea, e dove non vi sono nè idea nè anima, o intorpidisce il letargo o la vita stoltizza. I parrucconi veneziani erano nel primo caso. La legazione francese, non il Senato nè il Collegio dei Savii, governava allora. Essa, sotto l’occhio stesso e a marcio dispetto dell’inquisizione, preparava i fili della trama che dovea precipitare dal trono la sfibrata aristocrazia; e buona parte della gente di lettere e di garbo le dava mano in cotali macchinazioni. I Piombi ed i Pozzi erano vani spauracchi; un monitorio dell’ambasciator Vallement spalancava ai rei di Stato quelle porte che non si riaprivano di solito che ai condannati del capo e ai cadaveri. Il dottor Lucilio si facea notare per la sua fervorosa devozione alla causa dei Francesi; e forse l’addentellato a questo zelo virile si trovava da lungo tempo disposto nelle misteriose turbolenze della sua gioventù. Si sa già ch’egli era, come allor si diceva, filosofo; e fra i filosofi principalmente si cernevano i caporioni delle società secrete, che serpeggiavano fin d’allora cupe e corrosive sotto la vernice screpolante della vecchia società. Ad ogni modo nel suo apostolato liberalesco ei ci metteva tutto il calore, tutta l’accortezza di cui era capace; e i patrizi che io incontravano in piazza, tremavano come i peccatori alla notturna apparizione d’un demonio. Gli è vero che se uno d’essi ammalava non era restio dal ricorrere a questo demonio, perchè trovasse il bandolo di guarirlo. Allora quel medico tastava quei polsi, guardava quelle faccie con un certo ghigno che lo vendicava dell’odio sofferto. Pareva che dicesse: — io vi disprezzo tanto che voglio anche guarirvi, e so che mi siete nemici, ma non me ne cale. —

Le signore dimostravano a Lucilio quel rispetto timido e vergognoso che pare uno stregamento, e suole ad una sola occhiata, ad un sol cenno trasformarsi più che in amore, in venerazione ed in servitù. Dicevano ch’egli fosse maestro nell’arte di Mesmer e ne contavano miracoli; certo peraltro di quel suo potere egli usava assai parcamente. E non vi fu donna che potesse dire di aver raccolto da’ suoi occhi il lampo d’un desiderio. Serbava l’indipendenza, la castità, il mistero del mago; ed io solo conosceva forse il segreto di tale sua ritenutezza, poichè i costumi d’allora, e più la sua fama di gran medico, di gran filosofo, non consentivano il sospetto d’un amore che lo preoccupasse tutto. Eppure era; e ve lo posso dir io; e quell’amore allargatosi in un’anima capace come la sua, pigliava oramai la forza e la grandezza d’una passione irresistibile. Direte voi, ch’egli avea lasciato tranquilla la Clara presso sua madre, che non s’era sbizzarrito nel darle la scalata al balcone, o nel cantarla la serenata dalla gondola, che l’avea lasciata entrare in convento e che so io. Ma l’amor suo non apparteneva ai comuni: egli non voleva rapire ma ottenere: sicuro della Clara, e ch’essa lo avrebbe aspettato un secolo senza piegare e senza disperarsi, egli agognava e maturava con ogni fervore d’opere e di sacrificii il momento, quando l’avrebbero pregato di prendersela, tenendosi onorati del suo parentado. L’amore e la religione politica s’erano confusi in un solo sentimento tanto vivace, tanto potente, tanto ostinato, quanto possono esserlo tutte le forze d’un’indole così robusta, strette ed attortigliate in un sol fascio. Quand’egli si abbatteva nel viso adunco e orgoglioso della contessa, o nella faccia nebbiosa, slavata, aristocratica del conte Rinaldo, o in quei risetti mobili, graziosi, sdolcinati di casa Frumier, egli sorrideva di sottecchi. Sentiva che era prossimo a diventare il padrone lui, e allora avrebbe potuto intimare a quei vanerelli i patti qualunque da lui stimati convenevoli. La loro pieghevole natura e la facilità degli spaventi lo assicuravano dal timore d’un’importuna opposizione. Ma la contessa dal canto suo non si stava colle mani alla cintola; essa conosceva Lucilio più forse ch’egli non credesse, e le mura d’un monastero le sembravano debole riparo contro la sua temerità. Perciò aveva raccomandato particolarmente la figliuola ad una certa madre Redenta Navagera, che era la più gran santa e astuta monaca del convento, perchè con altri argomenti le afforzasse l’anima contro le tentazioni del demonio. Infatti costei ci si mise di gran lena, e non dirò che a quel tempo fosse ita molto innanzi, ma avea fatto già uscir del capo alla Clara, se non Lucilio, certo tutte le altre cose del mondo. Non era poco; molti fili erano tagliati; restava il capo grosso, la gomena maestra, ma scoti, sega e risega, non disperava di recidere anche quella, e di ridurre quella diletta anima al beato isolamento dell’estasi claustrale. La Clara per mezzo d’una servigiale del monastero riceveva qualche notizia di Lucilio; ma ciò succedeva di rado, e negli intervalli chiedeva conforto alle reminiscenze ed alla devozione.

Ma la devozione spostò a poco a poco le reminiscenze, massime quando il confessore e la madre Redenta la ebbero persuasa a non divagar troppo in immagini mondane, e ad abbondare nella preghiera, allora che se ne avea tanto bisogno per gli urgenti pericoli della Repubblica e della religione. Per quelle monache, quasi tutte patrizie, Repubblica di san Marco e religione cristiana formavano un solo impasto; e a udirle parlare delle cose di Francia e dei Francesi, sarebbe stato il gusto più matto del mondo. Nominar Parigi o l’inferno era per esse l’egual cosa; e le più vecchie tremavano di raccapriccio, pensando le orrende cose che avrebbero potuto commettere quei diavoli incarnati una volta entrati in Venezia. Le più giovani dicevano: non bisogna spaventarsi, Iddio ci ajuterà! — E taluna fors’anco, che avea fatto i voti per ubbidienza o per distrazione, sperava di abbisognare quandochessia di questo soccorso divino. Qui non è il caso di dire che sarebbe stato il soccorso di Pisa; ma ad ogni modo chi non ebbe una decisa vocazione, non è poi obbligata a cercare e ad adorare la necessità e fingere d’averla avuta. La Clara, più sincera e meno bigotta, si scandalizzava di queste mezze eresie. Quanto ai Francesi ella stava colle vecchie, massime dopo l’orrenda tragedia della nonna, che sebbene contata a lei con tutti i debiti riguardi, pure l’aveva fatta piangere lunghi giorni e lunghissime notti. Ella li credeva con tutta buona fede eretici, bestiali, indemoniati; e nelle litanie dei santi, dopo aver pregato il Signore per l’allontanamento di ogni male, lo supplicava mentalmente di liberar Venezia dai Francesi che le sembravano il male più grosso.

Per Venezia infatti, se non il più grosso erano certo il male più nuovo ed imminente. Le altre disgrazie già incancrenite non davano più sentore di sè. Quella era la piaga viva e sanguinosa che si dilatava nello Stato, facendone rifluire al cuore gli umori guasti e stagnanti. Ogni giorno recava l’annunzio d’una nuova defezione, d’un nuovo tradimento, d’un’altra ribellione. Il Doge si scomponeva il corno sul capo anche nelle grandi cerimonie, i Savi perdevano la testa e commettevano al Nobile di Parigi che comperasse da qualche portiere i segreti del Direttorio. Tentarono anche di giungere al cuore di Buonaparte per una lunga trafila d’amici, di cui il primo capo era un banchiere francese stabilito a Venezia, e pagato perciò, credo, alcune migliaia di ducati. Figuratevi che puntelli da sostenere un governo pericolante! — La storia della Repubblica di Venezia si trovò nel caso eguale degli spettacoli comici d’inverno; una tragedia non basta ad occupare le ore troppo lunghe; ci vuole dopo la farsa. E la farsa ci fu, ma non tutta da ridere. Molti giovinastri, non per liberalità d’opinione ma per ruzzata da bravi, si perdevano a far la satira di que’ parrucconi senza cervello; come succede a tutti i grandi diventati piccoli, a tutti i potenti ridotti inetti che s’hanno subito addosso le maledizioni, il danno e le beffe. I libelli, i versacci, le cantafere che andarono attorno a que’ giorni, servirono lungo tempo dappoi a incartocciar sardelle; ma sembra impossibile il merito che allor si faceva agli autori di quelle sconcie e vili parodie. Giulio Del Ponte, letteratuzzo sparvierato, non gli parve vero d’impiegare il proprio ingegno a sì alta usura, e si mescolò per bene in tali pettegolezzi. Egli godeva di vedersi segnato a dito; e bisogna anche dire che le sue composizioni si stoglievano dalle solite; e taluna non mancava nè di forza, nè di brio, nè quasi anche d’opportunità. La Pisana, nel vederlo tanto stimato e temuto, gli concedeva qualcheduna delle sue occhiate d’una volta, e a merito di queste egli sfidava gli atti villani, e perfino i rabbuffi della contessa. Io poi, anch’io era andato in uggia alla signora zia pei miei grilli democratici, ma le doble del signor padre me la tenevano buona; e spesso ella lavorava di gomito nelle coste alla figliuola perchè mi usasse maggior cortesia. Queste gomitate e il mio svagamento continuo davano la stizza alla Pisana, e la allontanavano col pensiero da me: rimaneva però sempre qualche sguardo fuggitivo, qualche subito rossore, che ad osservarlo come andava osservato, m’avrebbe potuto lusingare. Giulio Del Ponte se ne accorgeva e ne diventava giallo di bile; ma cercava un compenso nella vanità, e correva a’ suoi amici che lo incensavano mattina e sera, come il Persio o il Giovenale o l’Aristofane del suo tempo. Soltanto il dottor Lucilio, benchè simile d’opinioni, gli avea parlato chiaro dimostrandogli il pericolo di infervorarsi a un alto ministero civile non già per salda persuasione, e per istudio del pubblico bene, ma per frivolezza ed albagia.

— Che ne sapete voi? — gli rispondeva Giulio. — Posso ben avere anch’io come pretendete averla voi la vera virtù del cittadino!... Devo proprio prendere a prestito tutte le idee dall’orgoglio e dall’irrequietezza?...

Lucilio squassava il capo vedendo quel cervellino gonfio di boria sfarfallare in tali gradassate; ma forse impietosiva entro sè a tante belle doti già appassite in una persona esile e diroccata. Il dottore ci vedeva a doppio nell’anima e nel corpo. In Giulio egli ebbe tantosto indovinato i segni d’una passione, ed erano segni fatali, di più s’accorgeva che la calma di quella passione non bastava a cancellarli; e perciò guaj per lui s’ella risorgesse mai con tutta la sua misera violenza! — Il giovinotto invece non badava a tali paure: omai persuaso di valer qualche cosa, se la Pisana lo disdegnava, egli s’arrischiava a punirla con un’ombra d’indifferenza. Poco dopo se ne pentiva, perchè la banderuola era pronta a piegare altrove; e raddoppiava allora di premura e di brio per rendersele desiderabile e gradito. E soprattutto, in mio confronto, egli s’affaccendava a primeggiare, perchè nelle maniere usate dalla Pisana verso di me aveva fiutato una vogliuzza non mai sazia, una rimembranza non ancora spenta d’amore. Io non mi rassegnava tanto facilmente a sparir dietro a lui, massime dopo le belle accoglienze ch’era usato a ricevere per tutta Venezia. E a poco a poco ne nacque un astio, una nimicizia scambievole, che scoppiò molte volte perfino dinanzi alla Pisana stessa in rimbrotti e in improperi. Giulio cominciò a tacciarmi di aristocratico e di sammarchino; io presi dal canto mio a trascendere nei sentimenti di libertà e d’uguaglianza; la Pisana in tali dispute si scaldava anch’ella, e in breve ella diventò, al pari di noi, la più sfrenata e incorreggibile libertina. Credo che simili contese, nelle quali tutti andavano d’accordo e ognuno anzi non faceva che correre innanzi al compagno nei disegni e nelle speranze, non possano rinnovarsi così di leggieri. I Francesi erano il tema prediletto de’ nostri discorsi; e senza di essi non vedevamo salute. Giulio li cantava in verso, io li invocava in prosa, la Pisana ne sognava fuori tanti paladini della libertà, colla fiamma dell’eroismo accesa sulla fronte. E sì, che giorni prima praticando nel convento di sua sorella, essa era giunta a vincer le monache nel loro odio contro di essi.

Un giorno capita la notizia dell’entrata dei Francesi in Verona, creduta fino allora la città più restia a far novità. I villici armati s’eran dispersi, le truppe raccolte per ridurre Bergamo e Brescia ritirate a Padova e a Vicenza. Fu una gran baldoria pei fautori di Francia. Alcuni giorni dopo succede lo spavento della tremenda Pasqua Veronese, con tutte le atrocità sopra i Francesi che la contaminarono. Giungono le furiose proteste di Bonaparte, e l’intimazione di guerra in tutta regola. Senatori, Savii, Consiglieri, e tutti, cominciano a credere che quello che ha durato molto possa anche finire; essi di buon accordo si danno attorno per provvedere di viveri la serenissima dominante; quanto alla difesa ci pensano poco, perchè a dirla chiara nessuno ci crede. Finalmente il generale Baraguay d’Hilliers cinge col suo campo l’estuario; le comunicazioni sono intercettate; Donà e Justinian, inviati al general Bonaparte, svelano le intenzioni di questo, che una nuova forma più libera e più larga sia introdotta nel Governo della Repubblica. Egli impone di più che l’ammiraglio del porto e gli inquisitori di Stato siano consegnati nelle sue mani, come colpevoli di atti ostili contro una nave francese, che voleva sforzare l’ingresso del porto di Lido. I signori Savii capirono l’avvertimento e si disposero umilmente a scrivere al generale di barba e di parrucca, come si dice a Venezia. Parve a loro che le deliberazioni del Maggior Consiglio fossero troppo lente alla stretta del bisogno, e improvvisarono una specie di magistratura funeraria, un collegio di becchini per la moribonda Repubblica, il quale si componeva di tutte le cariche componenti la Signoria, dei Savii di Consiglio, dei tre capi del Consiglio dei Dieci, e dei tre Avogadori del Comune, in tutto quarant’una persona, e il serenissimo Doge a capo, col titolo comodissimo di Conferenza. Intanto si ciarlava per Venezia che sedicimila congiurati coi loro pugnali fossero già appostati in città per rinnovare su tutti i nobili la strage degli innocenti. Figuratevi che conforto per la Conferenza! — Mi ricordo che con modi da furbo io domandai Lucilio di quello ch’egli credesse esservi di vero in quella voce, e che il dottore mi rispose squassando le spalle. — Oh Carlino mio! credete che siano pazzi i Francesi ad assoldare sedicimila congiurati reali, mentre facendoli balenare affatto immaginarii si ottiene lo stesso effetto?... Credetemi che in tuttociò non c’è di vero la punta d’un chiodo, eppure sarà come fosse vero; perchè questi patrizii non è necessario ammazzarli; e’ sono già belli e morti!

La Conferenza si radunò la prima volta la sera del trenta aprile nelle camere private del Doge. Questi spifferò un esordio che principiava: — La gravità e l’angustia delle presenti circostanze. — Ma le sciocchezze che vi si dissero poi, se designarono bassamente l’angustia, non corrisposero affatto all’accennata gravità delle circostanze. Si tornò a proporre di toccare il cuore del general Bonaparte per mezzo di certo Haller suo amicissimo. E il cavaliere Dolfin fu ritrovatore d’un sì decisivo consiglio. Il Procuratore Antonio Cappello, da me conosciuto in casa Frumier, si levò a deriderne la puerilità, e con lui si strinse il Pesaro per far deliberare sulla costanza nella difesa e nulla più. Infatti le intenzioni dei Francesi non avevano oramai bisogno d’esser chiarite, ed era inutile illudersi con vane chimere. Ma i Savii adoperarono in modo che si perdesse il filo di questo discorso; quando sul più bello giunse al Savio di settimana un piego dell’ammiraglio Tommaso Condulmer, che riferiva l’avanzarsi dei francesi sulla laguna coll’ajuto di botti galleggianti. La costernazione fu subitanea e quasi generale; alcuni cercavano cavarsela, altri proponevano si trattasse, o meglio si offrisse la resa. Fu in quella circostanza che il Serenissimo Doge Lodovico Manin passeggiando su e giù per la stanza, e tirandosi le brachesse sul ventre, pronunciò quelle memorabili parole — Sta notte no semo sicuri gnanca nel nostro letto. — Il procurator Cappello mi assicurava che la maggior parte dei consiglieri uguagliava sua serenità in altezza d’animo ed in coraggio. Fu deciso a rompicollo che si proporrebbe al Maggior Consiglio la parte, per cui ai due deputati fosse concesso di trattare col Bonaparte sui cambiamenti nella forma del governo. Il Pesaro, indignato di sì vigliacca deliberazione, proruppe colle lagrime agli occhi in parole di compassione sulla rovina della patria, già sicura; e dichiarò di voler partire quella notte stessa da Venezia per ritirarsi fra gli Svizzeri. Il che egli non fece poi: e credo che andasse per la posta a Vienna. Davvero che a me non basta l’animo di palliare per un misero orgoglio nazionale la viltà buffonesca di tutte queste scene. Raccolgono esse un grande e severo insegnamento. Siate uomini se volete essere cittadini; credete alla virtù vostra se ne avete, non all’altrui che vi può mancare, non all’indulgenza o alla giustizia d’un vincitore, che non ha più freno di paure e di leggi.

Il primo di maggio colla mia toga e la mia parrucca io entrai nel Maggior Consiglio a braccetto del nobiluomo Agostino Frumier, secondogenito del senatore. Il primo apparteneva al partito di Pesaro e sdegnava far comunella con noi. Quel giorno il consesso era scarso; appena giungeva al numero di 600 votanti, senza il quale, per legge, nessuna deliberazione era valida. I vecchi erano pallidi non di dolore ma di paura, i giovani ostentavano un portamento altero e contento; ma molti sapevano dentro a sé di essere costretti a darsi la zappa sui piedi, e quell’allegria non era sincera. Si lesse il decreto che dava facoltà ai negoziatori di mutare a lor grado la Repubblica, e che prometteva al Bonaparte la liberazione di tutti gli arrestati politici dal primo ingresso delle armate francesi in Italia. In questa ultima clausola io conobbi l’influenza del dottor Lucilio, pensai ad Amilcare, e fui forse il solo che ne gioisse non indecorosamente. Del resto era un capo d’oca a non intendere la vigliaccheria di quella promessa, e a trovarla giusta per un sentimento affatto privato. Il decreto fu approvato con soli sette voti contrarii; altri quattordici ne furono di non sinceri, cioè di quelli che né accoglievano né rigettavano la proposta, ma ne negavano la presente opportunità. E appena esso fu noto in piazza, subito i favoreggiatori dei Francesi che vi tumultuavano, corsero con grande impeto alle carceri. Coi buoni uscirono i galeotti, coi fanatici i tristi, e la favola dei sedici mila congiurati ottenne maggior fede di prima. I patrizii credettero aver dato prova di sommo coraggio col non deliberare sulla consegna richiesta dell’ammiraglio del Lido, e dei tre inquisitori. Ma ecco che il generale Bonaparte torna da capo col dichiarare al Donà e al Justinian che non gli accoglierà come inviati del Maggior Consiglio, se prima quei quattro magistrati non siano imprigionati e puniti. L’umilissimo Maggior Consiglio si inchinò un’altra volta non più con cinquecento, ma con settecento voti: e il capitano del porto e i tre inquisitori furono carcerati quel giorno stesso per lo strano delitto di aver ubbidito meno infedelmente degli altri alle leggi della patria. Francesco Battaja, il traditore, fu tra gli avogadori di Comune incaricato dell’esecuzione di quel sacrilego decreto. Ma questo non bastava nè all’impazienza dei novatori, nè alla spaventata condiscendenza dei nobili. La solita conferenza ammannì un altro decreto, nel quale veniva ordinato al Condulmer di non resistere colla forza alle operazioni militari dei Francesi, ma soltanto di persuaderli a non entrare nella Serenissima Dominante, finchè si avesse il tempo di allontanar gli Schiavoni a scanso di spiacevoli conseguenze. Volevano tosarsi perfino le unghie, per non dare in isbaglio qualche graffiatura a chi si apprestava a soffocarli. Se questa non fu mansuetudine meravigliosa, anzi unica al mondo, io sfido chiunque ad inventarne una migliore. Mio padre era proprio tornato di Turchia a tempo, per far me poverello partecipe, senza saperlo, di tali castronerie. E d’altra parte che cosa valeva il sapere? Il dottor Lucilio fu invischiato peggio di me in quella brutta pece. Guai anche ai sapienti, cui non corrisponde la virtù dei contemporanei: sorretti dalla confidenza nelle proprie dottrine, essi salgono facilmente ad abitare le nuvole: e se non disperano prima per discrezione di criterio, disperano poi per necessità d’esperienza. Amilcare intanto era uscito di prigione, e secolui avevamo rappiccato l’antica amicizia; un altro invasato anche lui, che vedeva nei Francesi i liberatori del mondo, e fin lì forse il ragionamento si reggeva; ma zoppicava poi, quando li credeva i liberatori di Venezia. Ciò non toglie che Amilcare non cooperasse ad infervorare e persuadere maggiormente anche me; poichè il suo ardore non era chiuso come quello di Lucilio, ma tendeva a dilatarsi con tutta l’espansione della gioventù. Insieme ad Amilcare, indovinate mo’ chi fu liberato dagli artigli dell’inquisizione? — Il signor di Venchieredo. Non ve l’aspettavate forse, perchè il suo delitto non era certo di favoreggiare i Francesi. Ma io credo che, o avesse dal carcere intelligenza con questi, o che la grazia fosse concessa anche a lui per isbadataggine, o che la sua pena fosse prossima a finire, il fatto sta che Lucilio mi diede sue novelle, aggiungendo misteriosamente che dalla Rocca d’Anfo egli era corso a Milano, dove era allora la stanza del generale Bonaparte, e dove si agitavano diplomaticamente i destini della Repubblica veneta.

Una sera (già si correva precipitosamente all’abisso del 12 maggio) mio padre mi chiamò nella sua camera, dicendo che aveva grande cosa a comunicarmi, e che stessi bene attento e ponderassi tutto, perchè dalla mia destrezza dipendeva la fortuna mia e lo splendore della famiglia.

— Domani — egli mi disse — si compirà la rivoluzione a Venezia. —

Io diedi uno strabalzo di sorpresa, perchè colla duttile arrendevolezza del Maggior Consiglio, e i negoziati pendenti ancora a Milano, non mi entrava quel bisogno di rivoluzione. —

— Sì, — egli riprese — non fartene le meraviglie: poiché stasera sarai chiarito di tutto. Intanto io voglio metterti sulla buona via, perchè non ti perda poi nel momento decisivo. Sai tu, figliuol mio, che cosa voglia dire una Repubblica democratica?

— Oh certo, — io sclamai coll’ingenuo entusiasmo d’un giovane di ventiquattro anni. — Essa è la concordia della giuistizia ideale colla vita pratica, è il regno non di questo o di quell’uomo, ma del pensiero libero e collettivo di tutta la società. Chi pensa rettamente ha diritto di governare, e governerà bene. Ecco il suo motto.

— Va bene, va bene, Carlino; — riprese biasciando mio padre. — Questo sarà un bel concetto scientifico, e mettilo da una parte perchè il signor Giulio se ne faccia bello in qualche canzonetta. Ma un governo di tutti, cercato da pochi, imposto da pochissimi, e creato da un generale còrso; un governo libero di gente che non vuole e non può esser libera, sai tu qual piega sia disposto a prendere? —

Io mi guardai intorno confuso, perché in tali materie usava far i conti senza pensare agli uomini: e sommava e moltiplicava, e divideva come se tutto fosse oro, ma alla fine invece di trovarmi innanzi una somma netta e liquida di zecchini, poteva darsi benissimo che rimanessi con un ciarpame di soldacci e di quattrinelli. Io, come dissi, non ci pensava, e perciò mi confusi affatto alla domanda di mio padre.

— Ascolta; — continuò egli col fare paziente del maestro che riprende l’insegnamento dal bel principio. — Queste cose che tu abbellisci di sogni e di illusioni, io le ho prevedute da anni, tali quali devono essere. Non capisco per verità, né pretendo capire a fondo le tue immaginazioni, ma ci veggo per entro una buona dose di gioventù e d’inesperienza. Se fosti stato per qualche tempo alle prese con un bascià o col gran visir, credo che sputeresti meno filosofia, ma ci vedresti meglio e più da lontano. La grossa furberia dei mamalucchi c’insegna a conoscere quella sottilissima dei cristiani. Credilo a me che l’ho provato. E non l’ho provato per nulla; giacchè lavorava al mio buon fine, ed ora sarei in ballo io, se tornando a Venezia non mi fossi risovvenuto di te. Figurati che allora ho pensato: Per Allah! che la Provvidenza ti manda la palla in buon punto! Tu eri vecchio, ed essa ti ringiovanisce di quarant’anni con un giochetto di mano. Coraggio, Bey. Cedi il posto al cavallo più giovine, e giungerete prima! — In poche parole, Carlino, io ti ho preso per mio figlio certo e legittimo, e ho voluto cederti, anche prima di morire, l’eredità delle mie speranze. Sarai tu tale da raccoglierla?... Ecco quello che si vedrà in breve.

— Parlate, padre mio; — soggiunsi io vedendo prolungarsi la pausa dopo quella gran chiacchierata mezzo maomettana.

— Parlare, parlare!... non è tanto facile quanto credi. Son cose da capirsi a volo. Ma pure, veduta la tua ignoranza, guarderò di spiegarmi meglio. Sappi dunque che io ho qualche merito con questi signori infranciosati, e cogli stessi Francesi che reggono ora le cose d’Italia. Meriti arcani, lontanetti se vuoi, ma pur sempre meriti. Di più mi fanno corona alcuni milioni di piastre che non corteggiano male coi loro raggi brillantati il fuoco centrale della mia gloria. Carlino, io ti cedo tutto, io dono tutto a te, purchè tu mi assicuri un divano, una pipa, e dieci tazzine di caffè al giorno. Ti cedo tutto pel maggior lustro di casa Altoviti. Che cosa vuoi? È la mia idea fissa! Avere un Doge in famiglia! — Ti assicuro che ci riesciremo se vorrai fidarti di me!

— Che? io... io Doge? — sclamai colla voce sospesa e non osando quasi respirare. — Vorreste che di punto in bianco io diventassi Doge?

— Ottimamente, Carlino, tu pigli le cose a frullo come non avrei sperato. Il mestiero del Doge diventerà tanto più proficuo, quanto meno seccante e pericoloso. Tu guadagnerai ducati, io li farò fruttare. Dopo sei anni compreremo tutto Torcello, e la famiglia Altoviti diventerà una dinastia.

— Padre mio, padre mio, cosa dite mai!... — (V’accerto proprio ch’io lo credetti agli ultimi guizzi per diventar matto.)

— Ma già, — egli riprese — e’ non c’è da stupirsene. Coi nuovi ordinamenti che ci incastreranno, ognuno che ha meriti dovrebbe soverchiare chi non ne ha. Questo in via di astrazione. Ma nel concreto, colle vostre abitudini, coi vostri costumi credi tu che il più ricco e il più furbo non abbia ad esser giudicato il più meritevole?... Ogni tempo ha i suoi fortunati, figliuol mio; e saremmo corbelli a non farcene il nostro pro!...

— Per carità, come vedete tutto brutto e corrotto! Qual trista parte mi date a sostenere a me, che m’accingeva a combattere per la libertà e la giustizia!

— Benone, Carlino! Per accingersi a questo non c’è che la mia strada; perchè del resto se rimani al disotto ti sfido io a combattere; sarai schiacciato. Dunque per far trionfare il vero ed il buono bisogna farsi posto fra i primi, a gomitate anche, non importa. Ma figurati il gran danno che ne verrebbe, se in quei posti ci spuntassero dei tristi e dei fannulloni! Or dunque avanti, figliuolo, per far poi ire innanzi gli altri; e l’intenzione scusi la maniera. Non dico che tu voglia farti Doge domani o dopo; ma pazienza un pochino, e le nespole matureranno più presto di quello che si crede!... Intanto io ti voglio avvertire perchè tu assecondi le mire de’ tuoi amici, e non ti abbia a tirare indietro per falsa modestia. Credi tu di aver retto animo e buone e sode intenzioni?... Credi tu che sia utilissimo mettere a capo della cosa pubblica uno che ami il proprio paese, e non scenda a patti coi suoi nemici.

— Oh sì! padre mio, lo credo!

— Animo dunque, Carlino! Stasera il signor Lucilio ti parlerà più chiaro. Allora intenderai, vedrai, deciderai. Tienti daccosto a lui. Non tentennare, non indietreggiare. Chi ha cuore e coscienza dee farsi innanzi coraggiosamente, generosamente, non per proprio orgoglio ma per l’utilità di tutti.

— Non temete, padre mio. Mi farò innanzi.

— Basta per ora che tu ti lasci spingere. Intanto siamo intesi. Tu sarai spalleggiato dai nobili, ed hai il favore dei democratici: la fortuna non può fallirti. Io vado dal signor Villetard, per mettere in ordine qualche ultima clausola. Ci rivedremo stasera.

Dopo un tale colloquio io rimasi tanto strabiliato e perplesso, che non sapeva a qual muro dare del capo. Il maggior malanno si era che ci intendeva ben poco. Io salire ai primi posti, al più alto seggio forse della Repubblica?... Che cosa volevan dire cotali sogni? — Certo mio padre avea recato seco dall’Oriente qualche volume di appendice alle Mille e una notte. E che cosa volevan dire quelle sue vaghe parole di rivoluzione, di clausole, di che so io? — Il signor Villetard era un giovine segretario della legazione francese, ma quale autorità aveva il mio signor padre d’ingerirsi con lui in faccende di Stato? — Più ci pensava, e più i miei pensieri volavano fra le nuvole. Non ne sarei disceso più, se non veniva Lucilio a orizzontarmi. Egli m’invitò a seguirlo in un luogo ove si aveva a deliberare sopra cose importantissime al pubblico bene: nel calle ci unimmo ad altre persone sconosciute che lo aspettavano, e tutti insieme prendemmo via verso uno dei sestieri più deserti della città, dietro il Ponte dell’arsenale. Dopo una camminata lunga, sollecita e silenziosa, entrammo in un casone bujo e spopolato; salimmo la scala al dubbio chiarore di un lumicino a olio; nessuno ci aperse, nessuno ci introdusse; somigliavamo una coorte di fantasmi che andasse a spaventare i sonni d’un malandrino. Finalmente entrati in una sala umida e ignuda, ci fu concessa una luce meno avara: e al lume di quattro candele poggiate sopra una tavola, vidi ad una ad una tutte le persone della radunanza e ne distinsi bene o male le fattezze. Eravamo in trenta all’incirca, la maggior parte giovani: ravvisai fra questi Amilcare e Giulio Del Ponte, il primo acceso in volto e coll’impazienza negli occhi, il secondo pallidissimo e con un fare neghittoso che sconsolava. V’era l’Agostino Frumier: v’era anche il Barzoni, giovine robusto, impetuoso, innamorato di Plutarco e de’ suoi Eroi, che scrisse poi un libello contro i Francesi intitolandolo I Romani in Grecia. Tra i più attempati conobbi l’Avogadore Francesco Battaja, il droghiere Zorzi, il vecchio general Salimbeni, un Giuliani da Desenzano, Vidiman, il più onesto e liberale patrizio di Venezia, e un certo Dandolo che aveva acquistato gran fama di sussurrone nei crocchi più tempestosi; gli altri mi erano quasi sconosciuti, benché di taluno non mi comparissero nuove le sembianze. Costoro si stringevano con grande impegno intorno ad un omiciattolo lattimoso e rossigno, che parlava poco e sottovoce, ma agitava le braccia come un primo ballerino. Il dottor Lucilio s’aggirava per la sala muto e pensoso; tutti gli facevano largo rispettosamente e pareva attendessero i comandi da lui solo. Vi fu un momento che il Battaja tentò primeggiar lui colla voce, e attirare a se l’attenzione di tutti; ma non gli badarono; uno scantonò di qua e l’altro di là; chi si raschiava in gola e chi tossiva nel fazzoletto; nessuno si fidava ed egli restò come il corvo dopo ch’ebbe cantato. Così si rimase lungo tempo senza che io potessi capir nulla né dalle mie previsioni, nè dalle parole tronche di Amilcare, nè dai sospiri di Giulio: finalmente un altro perruccone giallo, sfinito e livido di paura si precipitò nella stanza, e Lucilio gli era ito incontro fin sulla soglia, e alla sua comparsa tutta l’adunanza si dispose in cerchio come per udire qualche grande ed aspettata novella.

— È il Savio supplente di settimana! — mi bisbigliò all’orecchio Amilcare. — Ora vedremo se sono disposti a cedere colle buone. —

Io finsi di capire, e considerai più attentamente il parruccone, che non sembrava per nulla agevolato a sfoggiar d’eloquenza da quella numerosa combriccola che lo circondava. Il Battaja se gli fece ai panni per interrogarlo, ma Lucilio gli tagliò la strada, e tutti stettero zitti ad ascoltare quanto diceva.

— Signor procuratore; — cominciò egli — ella sa il deplorabile stato di questa serenissima Dominante, dappoichè tutte le provincie di terraferma hanno inalberato lo stendardo della vera libertà. Ella sa l’inettitudine del governo dopo l’imbarco dei primi reggimenti di Schiavoni, e la fatica durata finora ad imbrigliare la rabbia del popolo...

— Sì... sissignore, so tutto, — balbettò il Savio di settimana.

— Io ho ritenuto mio dovere di chiarire all’eccellentissimo procuratore tali tristi condizioni della repubblica — soggiunse il Battaja.

Lucilio, senza badare a costui, riprese la parola.

— Ella conosce del pari, signor procuratore, gli estremi sommarii del trattato che si firmerà fra breve a Milano, fra il cessante Maggior Consiglio e il Direttorio di Francia! —

Questo crudele ricordo cavò dagli occhi del procuratore due lagrimoni, che se non accennavano il coraggio, non erano peraltro senza una tal qual dignità di mestizia e di rassegnazione. Esse bagnarono tortuose la cipria di cui aveva spruzzolata la pelle, e ne divenne più giallo e men bello di prima.

— Signor procuratore, — riprese Lucilio — io sono un semplice cittadino; ma cerco il bene, il vero bene di tutti i cittadini! Dico che si farebbe atto di patria carità e prova d’indipendenza, correndo incontro alle ottime intenzioni degli altri; così si risparmierebbero molti disordini interni, che non mancheranno di intorbidare le cose se ancora si tarda la conclusione del trattato. Io per me sono alieno da qualunque ambizione, e lo vedranno dal posto che mi si è voluto concedere nel quadro della futura municipalità. Il signor Villetard (e accennava l’ometto irrequieto e rossigno) ha favorito scrivere le condizioni, a tenor delle quali cambiatesi le forme del governo, un presidio francese entrerà a proteggere il primo stabilimento della vera libertà in Venezia... Sono i soliti articoli (prendeva in ciò dire dalla tavola uno scritto e lo scorreva rapidamente): innalzamento dell’albero della libertà, proclamazione della democrazia con rappresentanti scelti dal popolo, una Municipalità provvisoria di 24 veneziani, alla testa dei quali l’ex doge Manin e Giovanni Spada, ingresso di quattromila francesi come alleati in Venezia, richiamo della flotta, invito alle città di terraferma, di Dalmazia e delle isole ad unirsi colla madre patria, licenziamento definitivo degli Schiavoni, arresto del signor D’Entragnes manutengolo dei Borboni, e cessione delle sue carte al Direttorio pel canale della Legazione Francese. Sono tutte cose note e concesse dall’unanime assenso del popolo. Infatti jeri stesso il Doge si dichiarò pronto, in piena assemblea, a deporre le insegne ducali, e a rimettere le redini del governo in mano dei democratici. Noi chiediamo meno di quello ch’ei sia disposto a concedere. Vogliamo ch’egli resti a capo del nuovo governo, arra di stabilità e d’indipendenza per la futura Repubblica: non è vero, signor Villetard? —

L’omiciattolo accennò di sì con gran lavorio di gesti e di braccia. Lucilio si rivolse allora di bel nuovo al Savio di settimana, e gli porse quello scritto che aveva scorso poco prima.

— Ecco, signor Procuratore, — egli soggiunse — qui stanno i destini della patria: guardi ella di capacitarne l’animo del Serenissimo Doge e degli altri nobili colleghi, altrimenti... Dio protegga Venezia! io avrò fatto per salvarla quanto umanamente poteva. —

Rispose colle lagrime agli occhi il Procuratore:

— Io sono veramente grato a tanta deferenza di loro illustri signori (gli incorruttibili cittadini rabbrividirono a questi titoli scomunicati) il Serenissimo Doge ed i colleghi procuratori, come cariche perpetue della Repubblica, sono pronti a sacrificarsi per la sua salute (sacrificarsi voleva dire cavarsela) tanto più che la fedeltà degli Schiavoni rimasti comincia a tentennare, e non si maraviglierebbe per nulla di vederli unirsi ai nostri nemici... (Il Procuratore s’accorse d’aver detto uno sproposito, e tossì e tossì che ne divenne scarlatto come la sua tonaca) dico di vederli unirsi ai nostri amici, che... che... che... vogliono salvarci... ad ogni costo... Dunque io mi riprometto che queste condizioni (e mostrava il foglio come se stringesse fra le dita una vipera) saranno accettate con tutto il cuore dalla Serenissima Signoria, che il Maggior Consiglio ratificherà i nostri salutari intendimenti, e che presto formeremo una sola famiglia di cittadini uguali e felici. —

La voce moriva in gola al Procuratore come un singhiozzo; ma le sue ultime parole furono coperte da una salva di applausi. Egli ne arrossì, il poveruomo, certo di vergogna, e poi s’affrettò a chiedere che taluno di quella egregia adunanza volesse accompagnarsi con lui per recare quel foglio a Sua Serenità. Fu scelto a voti unanimi il Zorzi: un droghiere da appajarsi ad un procuratore, per intimare l’abdicazione ad un Doge!... Due secoli prima l’intero Consiglio dei Dieci s’era presentato al Foscari, per chiedergli il corno e l’anello. Venezia tutta, silenziosa e tremante, aspettava sulla soglia del palazzo la gran novella dell’ubbidienza o del rifiuto. Il vecchio e glorioso Doge preferì l’ubbidienza e ne morì di dolore: ultima scena terribile e solenne d’un dramma misterioso. Qual divario di tempi!... L’abdicazione del Doge Manin potrebbe entrare come incidente in una commedia del Goldoni senza tema di derogare alla propria gravità.

Intanto partirono il Procuratore e lo Zorzi, partì il Villetard col Battaja e alcuni altri patrizii, stupidamente traditori di se stessi: restammo noi pochi, l’eletta, il fiore della democrazia veneziana. Il Dandolo era quello che parlava di più, io certo quello che ci capiva meno. Lucilio s’era rimesso a passeggiare, a tacere, a pensare. Tutto ad un tratto egli si volse a noi con cera poco contenta, e disse quasi pensando a voce alta:

— Temo che faremo un bel buco nell’acqua!

— Come? — gli diede sulla voce il Dandolo. — Un buco nell’acqua ora che tutto arride alle nostre brame?... Ora che i carcerieri della libertà impugnano essi medesimi lo scalpello per infrangerne i ceppi? Ora che il mondo redento alla giustizia ci prepara un posto degno, onorato, indipendente al gran banchetto dei popoli, e che il liberatore d’Italia, il domatore della tirannide ci porge la mano egli stesso per sollevarci dall’abjezione ove eravamo caduti?

— Io sono medico, — soggiunse pacatamente Lucilio. — Indovinare i mali è mio ministero. Temo che le nostre buone intenzioni non abbiano bastevole radice nel popolo.

— Cittadino, non disperare della virtù al pari di Bruto! — uscì a dire come ruggendo un giovinetto quasi imberbe, e di fisonomia tempestosa. — Bruto disperò morendo; noi siamo per nascere! —

Quel giovinetto era un levantino di Zante, figliuolo d’un chirurgo di vascello della Repubblica, e dopo la morte del padre avea preso stanza a Venezia. Le sue opinioni non erano state le più salde in fino allora, perchè si bisbigliava che soltanto alcuni mesi prima gli fosse passato pel capo di farsi prete; ma comunque la sia, di prete che voleva essere era diventato invece poeta tragico; e una sua tragedia, il Tieste, rappresentata nel gennaio allora decorso sul teatro di S. Angelo avea destato entusiasmo per sette sere di fila. Quel giovinetto ruggitore e stravolto aveva nome Ugo Foscolo. Giulio Del Ponte, che non avea fiatato in tutta la sera, si riscosse a quella sua urlata, e gli mandò di sbieco uno sguardo che somigliava una stilettata. Tra lui e il Foscolo c’era l’invidia dell’ingegno, la più fredda e accanita di tutte le gelosie; ma il povero Giulio s’accorgeva di restar soperchiato, e credeva ricattarsi coll’accrescer veleno al proprio rancore. Il leoncino di Zante non degnava neppur d’uno sguardo codesta pulce che gli pizzicava l’orecchio, o se gli dava qualche zuffata era più per noja che per altro. In fondo in fondo egli aveva una buona dose di presunzione, e non so se la gloria del cantor dei Sepolcri abbia mai uguagliato i desiderii e le speranze dell’autor di Tieste. Allora, meglio che un letterato, egli era il più strano e comico esemplare di cittadino che si potesse vedere; un vero orsacchiotto repubblicano ringhioso e intrattabile; un modello di virtù civica, che volentieri si sarebbe esposto all’ammirazione universale; ma ammirava sè sinceramente come poi disprezzò gli altri, e quel gran principio dell’eguaglianza lo aveva preso sul serio, tantochè avrebbe scritto al tu per tu una lettera di consiglio all’imperatore delle Russie, e si sarebbe stizzito che le imperiali orecchie non lo ascoltassero. Del resto sperava molto, come forse sperò sempre ad onta delle sue tirate lugubri e de’ suoi periodi disperati; giacchè temperamenti uguali al suo, tanto rigogliosi di passione e di vita, non si rassegnano così facilmente nè all’apatia nè alla morte. Per essi la lotta è un bisogno; e senza speranza non può esservi lotta. — Giulio Del Ponte non fu il solo che si scotesse alla romana apostrofe del Foscolo; anche Lucilio la onorò d’un sorriso tra l’amichevole e il pietoso; ma non credette opportuno rispondere direttamente.

— Chi di voi, — soggiunse egli, — chi di voi ha badato questa sera al Villetard mentr’io esponeva le sue condizioni all’ex-Procuratore?

— Ci ho badato io; — soggiunse un uomo alto e ben tarchiato, che seppi esser lo Spada, quello che volea darsi per compagno al Manin, nel nuovo governo. — Egli mi avea viso di traditore!

— Bravo, cittadino Spada! — riprese Lucilio — soltanto egli crederà di essere niente più che un buon servitore del proprio paese, un ministro accorto e fortunato. Già è qualche tempo che sulle bandiere di Francia la gloria ha preso il posto della libertà!

— E che volete farci? — sclamò rozzamente lo Spada.

― Nulla, — continuò Lucilio, — perchè non ci possiamo nulla. Soltanto per chi ancor nol sapesse, voglio dichiarare la mente nostra nell’operare questa rivoluzione, prima che ce ne venga il comando formale da Milano. Gli è appunto che la diffidenza è un’ottima virtù sopratutto pei deboli, ma temo che non basti. Si vorrebbe che i Francesi fossero ajuto e non esecutori; ecco l’idea. Vorremmo mutarci da noi, non farci mutare da altri come gente che ha perduto la facoltà di moversi. I Francesi ci dovranno venire perchè lo possono e lo vogliono; ma trovino almeno tutto fatto, e non ci si incastrino nei fianchi come padroni!...

— Vengano i Francesi a risparmiarci la guerra civile, e le proscrizioni di Silla! — sclamò il Foscolo. — Il Barzoni, che non avea mai parlato, alzò il capo per fulminar d’una occhiata l’imprudente oratore.

— Ben detto; — riprese tuttavia Lucilio; — ma dovevi dire, vengano a risparmiarci un altro secolo di torpore uguale ai decorsi e con diverse apparenze. Vengano a scuoterci, a spaventarci, a farci vergognare di noi, a sollecitare colla paura della loro tirannia lo svegliarsi operoso e sublime di nostra libertà!... Ecco quello che dovevi aggiungere!... Se noi saremo tali da prenderli per emuli non per padroni, lo sapremo di qui a qualche mese. Villetard ne dubita, e ne teme, e ciò mi fa supporre che più in alto di lui si desideri altrimenti!

— Che importa questo? — lo interruppe Amilcare. - Noi rispettiamo le tue parole, cittadino Vianello, ma sentiamo i nostri polsi intolleranti di schiavitù, e ci ridiamo di Villetard e di chi sta sopra lui, come ci ridiamo di San Marco, degli Schiavoni e del procurator Pesaro! —

Lucilio stornò la mente da tali considerazioni, forse troppo tristi o tardive per lui, e si volse a me con un fare quasi paterno.

— Cittadino Altoviti, — egli disse — vostro padre si è adoperato moltissimo a vantaggio della libertà; gli si deve una ricompensa ch’egli vuol cedere a voi. Non se gli avrebbe badato, se la vostra indole e la vostra condotta non davano lusinga di veder continuati in voi gli esempi famigliari. Voi siete uno dei membri più giovani del Maggior Consiglio, siete uno fra i pochi, anzi fra i pochissimi che voterete per la libertà non per codardia ma per altezza di animo. Vi notifico adunque che foste scelto per primo segretario del nuovo governo. ―

Un mormorio di maraviglia dei giovani lì presenti accolse tali parole.

— Sì, — proseguì Lucilio: — e chi ha speso qualche milione a Costantinopoli per volgere la Turchia a danno della Sacra Alleanza, chi ha sacrificato molti anni della propria vita a rannodare nel lontano Oriente le trame di quest’opera di redenzione, che ci farà forse liberi e certo uomini, chi ha fatto questo pretenda altrettanto pel figliuol suo!... Lo dico io, lo posso dir io che all’indomane del trionfo tornerò nell’ospitale a salassare i miei malati! —

Un applauso unanime scoppiò da tutta la radunanza, e dieci paja di braccia si litigarono il dottor Vianello per istringerlo al cuore. Io scomparvi affatto in questa frenesia d’entusiasmo, e restai da un canto pensieroso, colla pietra di mulino sul petto del mio segretariato. Allora il discorrere diventò generale; si parlava della flotta, della Dalmazia, del modo più sicuro per ottener l’adesione del general Bonaparte alla nuova forma di governo. Si buttò via molto fiato fino a mezzanotte, quando lo Zorzi rientrò nella sala, col portamento autorevole d’un bottegaio che ha rovesciato un governo di tredici secoli.

— E così? — gli domandarono tutti.

— E così, — rispose lo Zorzi — il Doge mi ha pregato di recarmi dal Villetard per ottenere le sue condizioni in iscritto; non sapeva Sua Serenità che noi le avevamo già in tasca. Domani adunque sarà proposta nel Maggior Consiglio la parte, di adottare sul momento per la Repubblica di Venezia il sistema democratico del nuovo governo provvisorio da noi ideato.

— Viva la libertà! — gridarono tutti. — E fu un tal fremito di gioja e d’entusiasmo, che io pure mi sentii scorrere per le vene come una striscia di fuoco. Se in quel momento mi avessero comandato di credere alla risurrezione di Roma coi Camilli e coi Manlii, non ci avrei trovato nulla di strano ad ubbidire. Indi a poco ci separammo, e benchè l’ora fosse tardissima, il galateo veneziano permise a me ed a Giulio di passare in casa della contessa. Io era fuori di me addirittura senza saperne il perchè: tale deve sentirsi un cavallo generoso al suonar della tromba. Giulio all’incontro pareva malcontento della parte troppo modesta, da lui sostenuta nell’adunanza di quella sera; e sì che doveva essere avvezzo a tali combriccole; perchè tanto egli che il Foscolo erano stati imputati di immischiarsi in tali faccende, e la madre di quest’ultimo, dicevasi averlo consigliato a perire piuttosto che svelare alcuno de’ suoi compagni. Così tornavano allora di moda le madri spartane. Il fatto sta che la Pisana in quella sera non ebbe occhi che per me, ma io era troppo addentro nel pensiero del nuovo governo, del Maggior Consiglio della dimane e dei pronostici di mio padre, per fermarmi in quelle amorosità. La guardava sì, ma come un’attenta ascoltatrice delle mie declamazioni, e questo mio contegno non le garbava punto. Quanto a Giulio, al vederlo così uggioso appena lo sopportava, e le sue affaticate galanterie non ottenevano il premio della quarta parte di ciò che gli costavano. Bene è vero che la contessa ne lo rimunerava con un subisso d’interrogazioni sulle novelle della giornata, ma il letteratucolo non la intendeva a quel modo, e si arrischiava più volentieri alla taccia d’ingrato che al martirio della noja. L’accorta vecchia, mano a mano che il mal tempo cresceva, andava raccogliendo le vele, e ormai era ridotta a parole una mezza sanculotta. Di dentro poi Dio sa quanto odio e quanta bile covasse!

— Che cosa dice, signor Giulio? Verranno questi Francesi?... Si casseranno i crediti ipotecati sopra le rendite feudali?... E i patrizii che sieno sicuri d’una pensione o d’una carica? e San Marco che sia conservato sugli stendardi? —

Giulio sospirava, sbadigliava, digrignava, si storceva, ma l’inesorabile contessa voleva pur cavarne qualche risposta, e credo ch’egli con maggior buona grazia si sarebbe lasciato cavare un dente. Io intanto non poteva resistere al piacere di pavoneggiarmi dinanzi alla Pisana colle mie future splendidezze, e lasciava travedere che nel nuovo governo ci sarebbe stato un bel seggio anche per me.

— Davvero, Carlino? — mi chiese cheta cheta la donzella. — Ma non siamo intesi che dobbiate metter sul trono l’eguaglianza? —

Io alzai le spalle dispettosamente. Andate dunque a filosofeggiare con donne! Non so peraltro se tacqui per disdegno, o per non sapere che cosa rispondere. Il fatto sta che per quella sera l’ambizione scavalcò affatto l’amore, e che mi partii dalla Pisana, che non avrei nemmen saputo dire di qual colore avesse gli occhi. Salutai Giulio soprappensiero in Frezzeria, e m’avviai soletto e ballonzolando d’impazienza per la riva degli Schiavoni. Mi ricorderò sempre di quella sera memorabile dell’undici maggio!... Era una sera così bella, così tiepida e serena, che parea fatta pei colloquii d’amore, per le solinghe fantasie, per le allegre serenate e nulla più. Invece fra tanta calma di cielo e di terra, in un incanto sì poetico di vita e di primavera una gran Repubblica si sfasciava, come un corpo marcio di scorbuto; moriva una gran regina di quattordici secoli senza lagrime, senza dignità, senza funerali. I suoi figliuoli o dormivano indifferenti, o tremavano di paura; essa, ombra vergognosa, vagolava pel Canal Grande in un fantastico bucintoro, e a poco a poco l’onda si alzava, e bucintoro e fantasma scomparivano in quel liquido sepolcro. Fosse stato almeno così!... Invece quella morta larva rimase esposta per alcuni mesi, tronca e sfigurata, alle contumelie del mondo; il mare, l’antico sposo, rifiutò le sue ceneri; e un caporale di Francia le sperperò ai quattro venti, dono fatale a chi osava raccoglierle! Ci fu un momento ch’io alzai involontariamente gli occhi al Palazzo Ducale, e vidi la luna che abbelliva d’una vernice di poesia le sue lunghe loggie e i bizzarri finestroni. Mi pareva che migliaja di teste, coperte dell’antico cappuccio marinaresco o della guerresca celata, sporgessero per l’ultima volta da quei mille trafori i loro vacui sguardi di fantasma; poi un sibilo d’aria veniva pel mare che somigliava un lamento. Vi assicuro che tremai; e sì ch’io odiava l’aristocrazia, e sperava dal suo sterminio il trionfo della libertà e della giustizia. Non c’è caso; vedere le grandi cose adombrarsi nel passato e scomparire per sempre, è una grave e inesprimibile mestizia. Ma quanto più son grandi queste cose umane, tanto più esse resistono anche colle compagini fiacche e inanimate all’alito distruttore del tempo; finché sopraggiunga quel piccolo urto che polverizza il cadavere, e gli toglie le apparenze e perfin la memoria della vita. Chi s’accorse della caduta dell’impero d’Occidente con Romolo Augustolo? — Egli era caduto coll’abdicazione di Diocleziano. — Chi notò nel 1806 la fine del Sacro Romano Impero di Germania? — Egli era scomparso dalla vista dei popoli coll’abdicazione di Carlo V. — Chi pianse all’ingresso dei Francesi in Venezia la rovina d’una grande Repubblica, erede della civiltà e della sapienza romana, e mediatrice della cristianità per tutto il Medio Evo? — Essa si era tolta volontariamente all’attenzione del mondo dopo l’abdicazione di Foscari. Le abdicazioni seguono il tracollo degli Stati; perché il pilota nè abbandona, nè è costretto ad abbandonare il timone d’una nave, che sia guernita d’ogni sua manovra e di ciurme esperte e disciplinate. Le disperazioni, gli abbattimenti, l’indifferenza, la sfiducia precedono di poco lo sfasciarsi e il naufragio. Io volsi dunque gli occhi al palazzo ducale, e tremai. Perché non distruggere quella mole superba e misteriosa, allora che l’ultimo spirito che la animava si perdeva per l’aria?... In quei marmi rigidi, eterni, io presentiva più che una memoria un rimorso. E intanto vedeva più in giù sulla riva i fedeli Schiavoni, che mesti e silenziosi s’imbarcavano; forse le loro lagrime consolarono sole la moribonda deità di Venezia. Allora mi sorse nell’animo una paura più distinta. Quella nuova libertà, quella felice eguaglianza, quella imparziale giustizia coi Francesi per casa, cominciò ad andarmi un po’ di traverso. Avea bene avvisato Lucilio di operare la rivoluzione prima che il Bonaparte ce ne mandasse da Milano l’ordine e le istruzioni; ma ciò non toglieva che i Francesi sarebbero venuti da Mestre: e una volta venuti, chi sa!!... Fui pronto ad evocare la magnanima superbia d’Amilcare per liberarmi da queste paure.

— Oh beila! — pensai — siam poi uomini come gli altri; e questo nuovo fuoco di libertà che ci anima sarà all’uopo fecondo di prodigii. Di più l’Europa non potrà esserci ingrata; il suo proprio interesse non gliel consente. Colla costanza, colla buona volontà torneremo ad esser noi: e gli ajuti non devono mancare o da poggia o da orza!...

Con tali conforti tornai verso casa, ove mio padre mi significò che era molto contento del posto a me riserbato nella futura Municipalità; e che badassi a condurmi bene, e ad assecondare i suoi consigli, se voleva andare più in sù. Non mi ricordo che cosa gli risposi; so che andai a letto e che non chiusi occhio fino alla mattina. Potevano essere le otto e tre quarti quando sonò la campana del Maggior Consiglio, ed io m’avviai verso la scala dei Giganti. Per quanto avessero fretta i signori Nobili di commettere il gran matricidio, le delizie del letto non consentirono che si anticipasse più d’un quarto d’ora sul solito orario. I comparsi furono cinquecento trentasette; numero illegale, giacché per inviolabile statuto ogni deliberazione che non si fosse discussa in un’adunanza di almeno seicento membri, si considerava illegittima e nulla. La maggior parte tremava di paura e d’impazienza; avevano fretta di sbrigarsi, di tornare a casa, di svestir quella toga, omai troppo pericolosa insegna d’un impero decaduto. Alcuni ostentavano sicurezza e gioja; erano i traditori: altri sfavillavano d’un vero contento, d’un orgoglio bello e generoso pel sacrifizio, che cassandoli dal libro d’oro li rendeva liberi e cittadini. Fra questi io ed Agostino Frumier sedevamo stringendoci per mano. In un canto della sala, venti patrizi al più stavano ravvolti nelle loro toghe, rigidi e silenziosi. Alcuni vecchioni venerandi che non comparivano da più anni al Consiglio, e vi venivano quella mattina ad onorare la patria del loro ultimo e impotente suffragio; qualche giovinetto fra loro, qualche uomo onesto che s’inspirava dai magnanimi sentimenti dell’avo, del suocero, del padre. Mi stupii non poco di vedore in mezzo a questi il Senatore Frumier e il suo figlio primogenito Alfonso; giacché li sapeva devoti a San Marco, ma non tanto coraggiosamente, come mi fu chiaro allora. Stavano uniti e quasi stretti a crocchio fra loro; guardavano i compagni non colla burbanza dello sprezzo, nè col livore dell’odio, ma colla fermezza e la mansuetadine del martirio. Benedetta la religione della patria e del giuramento! Là essa risplendeva d’un ultimo raggio senza speranza, e tuttavia ripieno di fede e di maestà. Non erano gli aristocratici, non erano i tiranni né gli inquisitori; erano i nipoti dei Zeno e dei Dandolo, che ricordavano per l’ultima volta alle aule regali le glorie, i sacrifizii e le virtù degli avi. Li guardai allora stupito ed ostile; li ricordo ora meravigliato e commosso; almeno io posso ridere in faccia alle storie bugiarde, e non evocare dall’ultimo Maggior Consiglio di Venezia una maledizione all’umana natura.

In tutta la sala era un sussurrio, un fremito indistinto; solo in quel canto oscuro e riposto regnavano la mestizia e il silenzio. Fuori il popolo tumultuava; le navi che tornavano dal disarmamento dell’estuario, alcuni ultimi drappelli di Schiavoni che s’imbarcavano, le guardie che contro ogni costume custodivano gli aditi del palazzo ducale, tutti presagii funesti. Oh è ben duro il sonno della morte, se non si svegliarono allora, se non uscirono dai loro sepolcri gli eroi, i dogi, i capitani dell’antica Repubblica!...

Il Doge s’alzò in piedi pallido e tremante, dinanzi alla sovranità del Maggior Consiglio di cui egli era il rappresentante, e alla quale osava proporre una viltà senza esempio. Egli avea letto le condizioni proposte dal Villetard per farsi incontro ai desiderii del Direttorio Francese, e placar meglio i furori del generale Bonaparte. Le approvava per ignoranza, le sosteneva per dappocaggine, e non sapeva che il Villetard, traditore per forza, aveva promesso quello che nessuno aveva in animo di mantenere: Bonaparte meno di tutti gli altri. Lodovico Manin balbettò alcune parole sulla necessità di accettare quelle condizioni, sulla resistenza inutile, anzi impossibile; sulla magnanimità del general Bonaparte, sulle lusinghe che si avevano di fortuna migliore per mezzo delle consigliate riforme. Infine propose sfacciatamente l’abolizione delle vecchie forme di governo, e lo stabilimento della democrazia. Per la metà di un tale delitto Marin Faliero era morto sul patibolo; Lodovico Manin seguitava a disonorare coi suoi balbettamenti sè, il Maggior Consiglio, la patria, e non vi fu mano d’uomo che osasse strappargli dalle spalle il manto ducale, e stritolare la sua testa su quel pavimento, dove avevano piegato il capo i ministri dei Re e i legati dei Pontefici! — Io stesso ne ebbi pietà; io che, nell’avvilimento e nella paura d’un Doge, non vedeva altro allora che il trionfo della libertà e dell’eguaglianza.

Tutto ad un tratto rimbombano alcune scariche di moschetteria: il Doge si ferma costernato, e vuol discendere i gradini del trono; una folla di patrizi spaventata se gli accalca intorno gridando: alla parte! ai voti! — Il popolo urla di fuori; di dentro crescono la confusione e lo sgomento. Sono gli Schiavoni ribelli! (gli ultimi partivano allora, e salutavano con quegli spari l’ingrata Venezia). Sono i sedici mila congiurati! (i sogni di Lucilio). È il popolo che vuole sbramarsi nel sangue dei nobili! (il popolo nonchè preferire l’obbedienza a que’ nobili alla più dura servitù che lo minacciava, amava anzi quell’obbedienza e non voleva dimenticarla). Insomma fra le grida, gli urti, la fretta, la paura, si venne al suffragio. Cinquecento dodici voti approvarono la parte non ancor letta, che conteneva l’abdicazione della nobiltà, e lo stabilimento d’un Governo Provvisorio Democratico, semprechè s’incontrassero con esso i desiderii del general Bonaparte. Del non aspettarsi da Milano i supremi voleri del medesimo, e il trattato che si stava stipulando, davasi per motivo l’urgenza dell’interno pericolo. Venti soli voti si opposero a questo vile precipizio; cinque ne furono di non sinceri. Lo spettacolo di quella deliberazione mi rimarrà sempre vivo nella memoria: molte fisonomie che vidi allora in quella torma di uomini avviliti, tremanti, vergognosi, le veggo anche ora dopo sessant’anni con profondo avvilimento. Ancora ricordo le sembianze cadaveriche sformate di alcuni, l’aspetto smarrito e come ubbriaco di altri, e l’angosciosa fretta dei molti che si sarebbero, cred’io, gettati dalle finestre per abbandonare più presto la scena della loro viltà. Il Doge corse alle sue stanze svestendosi per via delle sue insegne, e ordinando che si togliessero dalle pareti gli apparamenti ducali; molti si raccoglievano intorno a lui, quasi a scordare il proprio vitupero nello spettacolo d’un vitupero maggiore. Chi usciva in piazza avea cura prima di gettare la parrucca e la toga patrizia. Noi soli, pochi e illusi adoratori della libertà in quel pecorame di servi (eravamo cinque o sei) corremmo alle finestre e alla scala gridando: — Viva la libertà! — Ma quel grido santo e sincero fu profanato poco stante dalle bocche di quelli, che ci videro una caparra di salute. Paurosi e traditori si mescolarono con noi; il romore, il gridio cresceva sempre; io credetti che un puro e generoso entusiasmo trasformasse quei mezzi uomini in eroi, e mi precipitai nella piazza, gettando in aria la mia parrucca e urlando a perdifiato: — Viva la libertà! — Il general Salimbeni, appostato con qualche altro cospiratore, s’era già messo a strepitare in mezzo al popolo eccitandolo al tripudio e al tumulto. Ma la turba gli si scagliò contro furibonda, e lo costrinse a gridare: — Viva San Marco! — Quelle nuove grida soffocarono le prime. Molti, massime i lontani, credettero che la vecchia Repubblica fosse uscita salva dal terribile cimento della votazione. Viva la Repubblica! Viva San Marco! fu una sola voce in tutta la piazza gremita di gente; le bandiere furono inalberate sulle tre antenne; l’immagine dell’Evangelista fu portata in trionfo; e un’onda minacciosa di popolo corse alle case di quei patrizii, che erano in voce d’aver congiurato per la chiamata dei Francesi. In mezzo alla folla, incerto, confuso, diviso dai compagni, m’incontrai in mio padre e in Lucilio, forse meno confusi ma più avviliti di me. Essi mi presero fra loro e mi trascinarono verso la Frezzeria. Quei pochi patrizii, che aveano votato per l’indipendenza e la stabilità della patria, ci passarono rasente colle loro lunghe parrucche, colle loro toghe strascicanti. Il popolo faceva largo senza improperii, ma senza plauso. Lucilio mi strinse il braccio. — Li vedi? — mi bisbigliò all’orecchio — il popolo grida: Viva San Marco! e non ha poi il coraggio di portare in trionfo, e di crear Doge uno di questi ultimi e degni padroni che gli restano!... servi, servi, eternamente servi! —

Mio padre non si perdeva in sofisticherie; egli affrettava il passo come meglio poteva, e gli tardava l’ora di trovarsi nella sua camera per meditare al sicuro il prò ed il contro.

Un proclama della nuova Municipalità, che dipingeva la vile condiscendenza dei patrizi come un libero e spontaneo sacrifizio alla sapienza dei tempi, alla giustizia e al bene di tutti, rimise la tranquillità nel buon popolo veneziano. Come il dente d’un topo basta per far calare a fondo una nave tarlata, così l’intrigo di un segretariuccio parigino, di quattro o cinque traditori, e d’alcuni repubblicani, avea bastato per rovesciare quell’edifizio politico che avea resistito a Solimano II e alla lega di Cambrai. Rivolgimenti senza grandezza perchè senza scopo; ai quali dovrebbero chiedere lume d’esperienza i caporioni di partito, quando la fortuna consegna alle loro mani la sorte della patria. Quattro giorni dopo, barche veneziane condussero a Venezia truppe francesi: e una città, difesa pochi giorni prima da undicimila Schiavoni, da ottocento pezzi d’artiglieria, e da duecento legni armati, si consegnò spoglia, volontaria, incatenata alla soldatesca balìa di quattromila venturieri capitanati da Baraguay d’Hilliers. La Municipalità fece codazzo a costoro, fra il silenzio e il disprezzo della folla. Io pure come segretario, ebbi la mia parte di quei taciti insulti; ma l’entusiasmo della Pisana, e le esortazioni di mio padre mi animarono a tutto sopportare per amore della libertà. Compativa agli ignoraranti, nè credeva di compatire ai miseri. Il mio coraggio fu debolmente smosso dalle risposte, venuteci dalle provincie di terraferma, all’invito di accedere al nostro governo. I podestà tentennavano, i generali francesi si beffavano di noi. Venezia rimase sola colla sua libertà di falso conio. — L’Istria e la Dalmazia venivano intanto occupate dall’Austria, giusta la facoltà concessa dai segreti preliminari di Leobèn. Anche questo non mi andava a versi. La Francia con flotte veneziane si impadroniva de’ nostri possedimenti nell’Albania e nell’Ionio; minaccia di peggiori oltracotanze. Povero segretario! io non aveva testa bastevole da accordare tutte queste contraddizioni e farmene un criterio. Sospirava, lavorava, e aspettava di meglio. Intanto gioverà notare il peccato per cui cadde Venezia inonorata e incompianta, dopo quattordici secoli di vita meritoria e gloriosa. Nessuno, cred’io, avvisò fino ad ora o formulò a dovere la causa della sua rovina. Venezia non era più che una città, e voleva essere un popolo. I popoli soli nella istoria moderna vivono, combattono, e se cadono, cadono forti e onorati, perchè certi di risorgere.

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