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Ragguagli storici | ► |
Nell’atto di mandare allo stampatore la presente Romanza, mi sento suggerita da taluno la convenienza di forle precedere almeno qualche parola di prefazione; ov’io m’ostini a non volerla provvedere di note, come a tal altre pareva che bisognasse. E nondimeno mi sa male anche dello schiccherare una prefazione, massime non occorrendo a me cose da dire in essa che vagliano la carta su cui scriverle. Pigliale come vuoi, poco su poco giù, note o prefazione m’hanno faccia di pedanteria nel caso mio; nè vorrei che si credesse ch’io attribuissi al poemetto più d’importanza che non gli si compete. Ma come si può egli far netto netto a modo proprio, e ributtare del tutto un consiglio che si sa non essere che la parola d’un benevolo? Come trovare quella pertinacia con cui resistiamo talvolta alle ragioni, trovarla, dico, per resistere al bisogno di parere creanzati? A sbrigarmi in qualche modo da una siffatta perplessità, ho afferrato come buon ripiego un suggerimento dell’animo mio, quello di rivolgermi a voi, dilettissimi, e d’indirizzarvi, come fo, questa mie lettera confidenziale. Scritta come vien viene, come se riassumessi per un momento ancora una di quelle tante chiacchierate con voi a cuor largo, senza rigore di propositi, senza intento letterario, delle quali componevasi la nostra conversazione (perdita questa delle più amare che m’abbia costato l’esiglio), la lettera mi salva d’ogni mal sussiego d’autore; mi permette di parlare in persona prima, di usarlo quell’io che l’etichetta, il perchè nol so, condanna come più vanitoso del noi; mi previa, luogo a dire quel poco che pur si vuole ch’io dica; e, quello che val meglio per me, mi procaccia il gusto di chiamarvi ancora i miei cari. Forse anche a voi non dispiacerà di ricevere impunemente per questa via un solenne saluto dell’amico vostro lontano, da colui del quale sarebbe delitto per voi l’avere contezza altrimenti; frutto anche questo delle vostre belle polizie, che vi strozzano in petto perfino le affezioni private.
Per poco ch’io ve l’asserisca, lo crederete ben subito, o dilettissimi, che nel comporre i versi che oggi vi dedico, voi, voi soli, io sempre aveva dinanzi alla mente, come lettori a cui soddisfare s’io lo potessi. Ora che li ho ricopiati, li rileggo pensando a voi; nè parmi che per voi abbiano bisogno di schiarimenti. Se mi tocca di pubblicarli in terra straniera, non è per questo ch’io mi figuri che stranieri li vogliano leggere. Ove a ciò avessi rivolto la speranza, certo è che avrei fatto bene di sparpagliare qua e là alcune note ad esporre quel tanto di storia lombarda a cui alludono i versi; dacchè non è da pretendere che, fuori d’Italia, s’abbiano comunemente su per la punta dei diti i fatti nostri di tempo remoto. Ma io non ho in mira che l’Italia. Ed in Italia, cari miei, come volete ch’io pensi che col tanto boriare che vi si fa d’onore nazionale, s’ignori poi l’epoca più bella, più gloriosa della storia italiana, la confederazione dei Lombardi in Pontida, la battaglia di Legnano, la pace di Costanza? Questi fatti il dichiararli io a voi, più che superfluo, sarebbe ridicolo. E uno scortese complimento parrebbe anche, se mi mettessi a spiegarli a que’ pochi che senza onorarmi d’amicizia personale, volesse pure onorarmi d’uno sguardo gettato sul mio libretto. «Costui, direbbero, o misura dalla propria la parvità dell’intendimento altrui, o ci guarda d’alto in basso come tanti scolaretti a’ quali tutto debba riuscir nuovo.»
Che se vi ha costaggiù taluno, — intendo tra le persone nelle quali è supponibile una discreta coltura, — taluno, dico, a cui non sia stata rotta la sonnolenza incuriosa neppure dal gran rumore fatto per lungo e pel traverso dell’Europa dalla bell’opera del signor Sismondi sulle Repubbliche italiane, tanto peggio per lui! Se il poveretto non sa che un tempo nelle vene de’ nostri antenati non iscorreva poi tutto latte; — che un tempo le soperchierie tedesche non erano in Italia ingozzate poi tutte come ciambelle calde; — che un tempo nell’elenco de’ tormentatori dei popoli venne a collocarsi un Federigo Hohenstaufen, soprannominato il Barbarossa e facente il mestiere d’Imperatore; — che questo tale Hohenstaufen, superbo e ruvido come Caino, seccafistole per eccellenza, calato e ricalato in Italia co’ suoi manigoldi, angariò principalmente la Lombardia colla prepotenza d’una volonta feroce, con tutti quei soliti bei modi di chi scende di là a padroneggiarci, a raspar quel che è nostro; — che i Lombardi invece di esercitarsi a cantare amen, invece d’addestrarsi ad inarcar le schiene, s’addestrarono ad allungar le mani, e si collegarono tra di loro; — che usciti essi in campo con le loro buone armi salde nel pugno, col loro buon cuore saldo nei petti, diedero a quell’Hohenstaufen ed a’ suoi Tedeschi un rifrusto, una ceffata solenne, proprio di quelle gustose che spicciano a un tratto gl’imbrogli; e si conquistarono così un più libero vivere civile, e trassero poi i battuti ad accettar la pace, e si tolsero di dosso tutta di fatto, e quasichè tutta anche di parole, la soggezione a quegli odiosi stranieri...; s’egli non le sa il poveretto queste splendide cose, tanto peggio per lui! E che ci ho a fare io? Ov’anche pricipiassi dal dirgli: «Sono fatti che avvennero dagli anni di Cristo 1167, fino agli anni di Cristo 1183,» già non ne verrei a capo di nulla: oppure ad agevolargli la lettura di due fogli di versi, mi bisognerebbe lavorar per lui un volume di prosa. Mancherebbe anche questa! Imporre a me il gastigo della pigrizia altrui!
Ma le poche note che avresti fatto pei lettori stranieri, perchè non farle pe’ tuoi paesani? — Perchè! la mi spiace questa vostra domanda; nè vorrei che mi strappasse dal labbro una parola di cui pentirmi di poi: insomma non ne voglio dire il perchè. E se questa mia reticenza, che pur move da intenzioni cortesi riguardo ad altri, a voi per isbaglio sembrasse villania, e voleste punirmene, ebbene, negate anche voi risposta ad una interrogazione mia; e le parti sieno subito pari. Eccovela: domando a voi, a voi che m’avete mostrato tante volte, con parole e con esempio vivo, come le cognizioni umane s’incatenino e s’aiutino l’una con l’altra, domando se v’abbia o no differenza tra la suscettibilità intellettuale, se così è ben detto, dell’uomo che non sa i fatti altrui, e quella dell’uomo che non sa neppure i fatti propri.
D’altronde, per avere coraggio di metter fuori de’ discorsi storici in occasione di pochi versi, è mestieri far que’ discorsi come li sa fare un certo tale tra di voi, entrando in materia ricco di letture, d’idee, di acume critico, di veduta ampia, e di nuove e franche considerazioni; per modo da non sapersi se doverlo più ammirare per la tanta bellezza delle sue poesie, o per la tanta sagacità delle sue note. Ma allora le note fanno cose da sè; sono un libro a parte, osservazioni storiche indipendenti dai versi. Ma riuscire al quale e al quanto a cui riesce quel certo tale, maliardo benedettissimo, sono almen che sia, requisiti indispensabili, abbondanza di tempo e trascendenza d’ingegno: due cose queste delle quali io patisco un pochetto di penuria. Non dirò delle due quale più manchi; nè cerco pure di avverarmene io stesso: giacchè nè voglio dar sospetto ch’io parli con quella modestia che puzza d’ipocrisia, che sa di convento; nè tampoco rovistarmi troppo addentro i segreti della coscienza. A questo mondo, per viverci un poco meno malcontenti, non bisogna poi volere appurar tutto a un puntino.
Lasciati andare senza corteggio di note i fatti storici eminentemente tali, conviene ch’io non usi maggiori cerimonie verso i minuti accidenti di essi. Neppur di lontano, vorrei parere d’imitare quel fanatico, che, a far vedere quant’egli abborrisse ogni odore d’aristocrazia, negava con brutto sgarbo il saluto a qualsiasi buono o tristo de’ nobili, e profondeva carezze a qualsiasi buono o tristo de’ plebei; nè mai aveva posto mente che s’egli, alla larga d’ogni sorta di canagliume, da quello de’ trivi fino a quello de’ palazzi, si fosse tenuto urbano e rispettoso con ogni sorta di rispettabili, non solamente sarebbe paruto più democratico, ma anche più galantuomo.
I minuti particolari di cui parlo, il lettore anche colto può manco male, ignorarli senza il menomo rimorso. E infatti o non usava egli di cercarli, o non li rinveniva spesso ne’ libri che i savi scrivevano per pascolo della intelligenza comune. Da qualche tempo in qua i savi hanno cambiato di parere, e si sono accorti che il farsi voler bene dalla intelligenza comune è un tantino più lusinghiero che non il rendersi accetto ai tarli delle biblioteche. E però divenuti vaghi di popolarità, secondano questa crescente smania che la moltitudine ha ora di sapere, più che si possa, il vero delle cose; e di questi minuti particolari fanno tesoro come d’indicazioni tutte a meglio raffigurare ciaschedun periodo della vita di esso; nè se li dicono più fra di loro, savio con savio, all’orecchio: ma li trasfondono ne’ loro libri di storia, e li rivelano, fra una novità d’aspetti infiniti e d’interessi sempre vivi, anche a noi povero pubblico, a cui il monotono racconto del su e giù delle famiglie reali o metteva sonno, o faceva rinnegar la pazienza. Non tocca a me di giudicare se questo scientifico rinverdire, per così esprimermi, delle cronache sia un progresso fatto dalla ragione umana. Ma siccome ognuno ha diritto d’avere i suoi gusti, e il confessarli, quando innocenti, non è poi delitto, confesso che questa moda mi va a genio molto. E siccome gli spassi, perchè sieno proprio tali, bisogna poterli dividere con chi si ama, fo voti onde questa moda pigli piede molto anche in Italia, fosse anche in discapito della quistione sulla lingua, o d’altre tali usanze che vi si tirano tanto per le lunghe e vi si tengono in tanto credito, eppur non sono nè così ingenue, nè così divertenti.
Comunque sia, di questi minuti particolari, che non proprio per gli stessissimi motivi onde piacciono ora agli storici, ma per motivi molto analoghi a quelli, aveva io sentito dire essere gemme pe’ poeti, alcuni pochi mi trovai averne raccolti nella memoria, spigolati qua e là alla ventura nello scartabellare libri vecchi che parlassero di fatti a cui alludono i versi della Romanza; e però mi sono ingegnato di sceglierne pochissimi tra quei pochi, e d’incastrarli qua e là nel tutto d’invenzione, che, secondo l’intendimento mio, doveva essere un riverbero rapidissimo di verità, e quindi conservare qualche tratto individuale della fisonomia dell’oggetto riverberato. Di questi particolari sono, a modo d’esempio, il volo delle tre colombe venute dalla cappelletta de’ santi Sisinnio, Martirio ed Alessandro a poggiarsi sull’alto del Carroccio quando appunto la battaglia di Legnano pareva voler essere perduta pe’ Lombardi; lo sgominarsi de’ Tedeschi alla vista di quel volo interpretato da essi come portento di disfavore; il rincorarsi invece de’ Lombardi che si pigliarono come indizio dell’aiuto de’ santi il capriccio di tre uccelli, — così i tempi volevano! — il modo della fuga de’ Tedeschi; l’appiattarsi di Federico nei boschi, e il suo non tornare che dopo tre giorni alla moglie, Beatrice di Borgogna, la quale, già pensandolo morto, gli preparava in Como i funerali...; ed altre inezie di tal fatta che è inutile ripetere, e delle quali anche si riferiscono alla condizione politica e civile de’ Lombardi in quella età.
Ora, per rispetto alle note che non sarebbero più su fatti, ma su lievi accidenti di essi, a me sembra che un dilemma qui nasca, dai corni del quale sia difficile di scappare. O questi particolari, considerati solo come trovati poetici, sono espressi nel poemetto con sufficiente chiarezza, non per certo prosaica, ma quale l’ammette la poesia epico-lirica, o non lo sono. — Se sì; e a che mi servirebbero le note? — Se no; il poema è sbagliato, e va buttato subito al fuoco senza misericordia; perchè il primo dovere di chi canticchia versi è di farsi intendere a dirittura co’ mezzi poetici, senza aver d’uopo di ricorrere perciò al sussidio di mezzi estranei affatto all’arte sua, senza immischiarsi a farla da letterato.
Sul primo corno del dilemma credo ch’io possa arrischiar di sedermi, qualunque sieno le altre ragioni per cui i miei versi possano meritarsi il complimento delle fiamme. E qui seduto, se per altro voi, dilettissimi, non m’invidiate il sedile, credo di dovere asseverare non solo che le note non servirebbero a nulla, ma ch’elle servirebbero a male. Non facendo esse che stemperare in un poco di prosa le immagini recate ne’ versi, e venendo innanzi a voi intarsiate di citazioni la più parte in latino, ditemi di grazia quale concetto farebbero nascere del loro autore? Quello a un dipresso che, passeggiando sul corso, fareste d’uno de’ vostri bellimbusti, il quale, non badando alla caldura dell’atmosfera, si portasse indosso il mantello comperato ieri, tanto per ostentarlo oggi sotto il naso de’ suoi compagni. Sarebbe come un dire io a’ lettori: «Qua qua, signori, contemplate i bei ciottoli preziosi che son venuto raccogliendo, frutto delle mie lucubrazioni: qui arrestatevi ad osservare come i versi miei sieno un estratto di lambiccata erudizione.» Vergogna! Erudizione a proposito di nulla; erudizione che non costa uno zero; vanità da ragazzi, polvere per gli occhi. No, no, miei cari: a guarire da siffatte ambizioncelle compassionevoli basta solo il dilungarsi poche centinaie di miglia dal campanile della propria parrocchia, e sporger muso a fiutare ben altre importanze nella vita umana, a rimpetto alle quali è pure una gran miseria lo struggersi a voler comparire quello che non si è.
Perchè ho scritto quattro versi, mi corte forse per questo il debito, come allo storico, di provare la verità d’ogni cosa ch’io racconti con essi? Son io per questo un avvocato a cui, pena la perdita della sua causa, sia d’uopo non indicare circostanze senza l’appoggio d’un’allegazione? Gli accidenti ch’io narro tocca al lettore di procurar d’intenderli, recando alla lettura quella meno sbadata attenzione che la poesia epico-lirica richiede, la quale, già si sa, è una sciagurata che non vuole piegarsi a usare stile da gazzetta: — ho detto epico-lirica; ma a definirla questa delle romanze, avrei dovuto dire con più di precisione, come fanno parlando de’ venti, poesia epico-lirico-lirica. Gli accidenti ch’io narro tocca al lettore di pigliarseli o come veramente somministrati dalla storia, o come consentanei ad essa, e bene o male inventati. A me nella qualità di poeta, supponendo per ipotesi ch’io il fossi, a me non importa, e non deve tampoco importare, che ad un modo piuttosto che all’altro il lettore si attenga. L’incumbenza mia, secondo l’obbligo che me ne impone l’arte, non è di rappresentargli un fatto storico, quale precisamente fu; ma è solo di suscitare in lui qualche cosa di simile all’impressione, al sentimento, all’effetto che susciterebbe in lui la presenza reale di quel fatto. Quella qualche cosa di simile è risvegliata per mezzo d’immagini; e la convenienza di queste è determinata non dalla verità loro positiva, ma dalla maggiore attitudine in esse a produrre quella impressione, quel sentimento, quell’affetto. Certo è che quasi sempre la verità positiva è proprio quella che ha in sè più forte una tale attitudine; e il poeta fa benissimo di giovarsene a preferenza d’ogni altra. Ma se ne giova come d’un mezzo, e non se lo propone come un fine. Guai a lui! s’egli scambia lo scopo dell’arte sua con quello dell’arte dello storico. Guai a lui! s’egli si dà pensiero del come il lettore piglierà le immagini del racconto poetico piuttosto come verità, o come somiglianti alla verità.
Li volete voi nondimeno come storici anche i pochi particolari da me adoperati? Or bene, dimesso il carattere di poeta, giacchè anche questo vostro capriccio è al di là de’ desiderii che l’arte poetica si propone in modo diretto, con intenzione immediata, di appagare, or bene vi dico ch’eglino sono proprio storici; e riposate per questo sulla parola mia. E se non avete fede in me, domandatene pur l’istorie vostre.
E chi vi dice che quest’ultimo non sia giusto la mira a cui io tendo co’ miei sotterfugi? Dio ’l volesse che curiosi di sapere quanto v’abbia di verità storica ne’ versi miei, pigliassero a consultare storie e cronache alcuni degli studiosi e bravi giovinetti di cui sento dire non essere scarse le nostre scuole pubbliche; merito tutto questo della bontà individuale di qualche professori sparsi qua e là per l’Italia, i quali fanno tutto quel che possono onde non reprimere, come è cura de’ loro confratelli obbedientissimi a’ Governi, ma bensì aiutare a svilupparsi gl’intelletti affidati alla educazione di loro. Altre belle cose, e di ben altro interesse, e di ben altra utilità che non i miseri versi miei, raccoglierebbonsi per via da que’ giovinetti, ov’eglino, per quanto pur lo permettono le memorie che ci rimangono, procurassero di informarsi ben bene del secolo della Lega Lombarda. Quante virtù da impararvi! Quanti errori da ravvisarvi, onde schivar di ripeterli! Che lezioni! che confronti! che speranze! E se non foss’altro, nelle cronache tedesche vedrebbero gli studiosi apparire fin da que’ tempi negli inimici nostri una propensione al goffo svisare i fatti, alla matta sfrontatezza del mentire le intenzioni, al maligno travolgere d’ogni principio morale, una mala fede insomma, una malvagità da far tuttavia onore a qualunque Consiglio Aulico de’ tempi nostri.
Dopo tante parole sprecate a dire ch’io non doveva intrigarmi in note, dopo d’avere imbrattate più pagine che le note stesse non avrebbero probabilmente occupato, bisogna pure, dilettissimi miei, ch’io vi confessi che una nota nè manco il diavolo m’avrebbe rattenuto dallo scriverla, se mi fosse capitato per le mani il testo su cui fondarla: tanto è vero che le azioni nostre trascorrono sovente a fare a’ pugni co’ principii che professiamo! Ma la è così. Avrei dato direi quasi un mezz’occhio per poter pubblicare i nomi degli illustri Italiani che si congregarono a congiura nel convento di Pontida. I nomi di quelli che raccogliendo primi il frutto coltivato dalla congiura, maturato dalla battaglia, sottoscrissero in Costanza l’atto di pace, tutti il sanno. Alcuni pochi anche de’ nomi de’ combattenti a Legnano ci sono rimasti, come a dire quello di un Alberto da Giussano, capo della Compagnia della Morte. Ma i nomi di coloro che primi parlarono di concordia dove non era che risse, che primi concepirono l’alto pensiero dell’indipendenza nazionale, che ne spiarono la possibilità, che ravvisando a fronte a fronte il pericolo di che li minacciava il ribellarsi, statuirono di corrergli incontro avvenga quel che sa avvenire, e misero le proprie vite sul taglio, per così dire, della spada affine di conseguire quello che il cuore diceva loro è giusto, e volsero gli occhi a quella giustizia, e su tutt’altro li chiusero; i nomi di quei benemeriti ardimentosi o sono andati perduti, o io non ho saputo rinvenirli. Meglio forse così! dacchè l’elenco di quei bei nomi spiegati dinanzi a famiglie che in parte forse ancora li portano senza che se n’avveggano, non avrebbe fatto altro che prestare una dolorosa illustrazione di più a quella verità detta da Dante, ma pensata da mille:
Rade volte risurge per li rami |
Io non so d’altri che d’un frate Jacopo da Milano, detto dalle memorie de’ tempi gran promotore della Lega Lombarda. La stampa di quei fatti sciaguratamente conviene credere che su tutta la terra sia rotta da molti secoli.
In quanto a quella porzione de’ versi che si riferisce al vivere moderno, questa noiosa idea che le note sarebbero opportune, non può, grazie a Dio, saltare in cervello ad alcuno; sicchè torna superfluo il parlarne. Deggio per altro servire qui al rispetto che porto a me medesimo, e fare una dichiarazione diversa alcun poco da un’altra fatta non ha guari, ma più limpida ancora e severa, diretta, già s’intende, non a voi, miei dilettissimi, a’ quali non è la malignità che possa governare mai il pensiero, ma bensì a chiunque, non conosciuto da me, non mi conoscesse. Qui in Inghilterra, popolo largo, e quindi meno vago di cicaleggi da pettegole, una tale dichiarazione sarebbe, non che inutile, stravagante a segno da non indovinarsene il significato. Ma in Italia ella m’è fatta parere necessaria da qualche poca esperienza del passato. Sappiasi dunque che in nessuno di que’ passi ove i versi parlano de’ viventi, nessuna mira e nessuno individuo particolare entrò per nessun conto a suggerire le immagini. Questa è verità sacrosanta che giovami di avere spiattellata una buona volta.
Dinanzi a me non istavano che il concetto della virtù lombarda nel medio evo, e il concetto della presente nostra (siamo sinceri) corruttela. Gl’individui erano spariti tutti. E che so io d’individui? che ne importa all’uomo in quella poca mezz’ora ch’egli si ritira a conversare con le astrazioni della sua mente? Se fossi andato in traccia d’individui, quanti e quanti non ne avrei saputo trovare, tra’ viventi, ottimi Italiani davvero! Ma i due concetti miei erano somministrati dalle masse, dal tutto insieme di ciascuno dei due secoli, concetti definiti dai fatti in generale, e non dall’inconcludente fissar gli occhi in faccia alle persone, concetti che non escludono la contingibilità delle eccezioni, non le niegano, ma non ne tengono conto, paghi di porgere l’espressione collettiva de’ fenomeni più abbondanti.
L’ultimo sentimento che risulta nell’animo di chi considera il secolo della Lega Lombarda, è il sentimento d’una tal quale virtù nella massa de’ viventi in quel secolo, a mal grado de’ vizj inerenti a quello stato di civiltà, a mal grado della particolare cattivezza di moltissimi individui. E di siffatta virtù la prova infallibile sta nel loro aver voluto l’indipendenza e la libertà, e nel cercarle, come fecero, non con la pietà del guaire, ma co’ nervi e col sangue nella battaglia. L’ultimo sentimento che nasca dall’esame di noi adesso viventi, non so quale altro esser possa che quello della nostra corruttela generale, quando parla a tutta l’Europa il fatto della nostra supina tolleranza della servitù. Che giova ripararci dietro la virtù pure esistente in moltissimi, rifuggirci alle anomalie, quando trattasi di far giudizio dell’intera nazione?
Ell’è una verità dura — e chi ’l niega? — a sentirsela dire, durissima a dirla questa della nostra corruttela. Ma anche Dio, o chi parlava in nome di lui, rinfacciava durissime verità al popolo pure prediletto. Ma gli è meno amaro, poichè ella non è più un segreto, il dircela quella verità tra di noi, che non il sentircela rintronare ogni tratto e in mille guise dalla bocca degli stranieri, e rintronare con quella odiosità di paragoni, con quella asprezza di modi vanitosi, che ti rende ostico il rimprovero per ciò solo che t’accorgi che in esso non è mistura alcuna d’amore. Quando noi avremo detto il fallo nostro, sarà già questo un passo verso l’emendarcene; e gli stranieri saranno costretti a tacere, se non per altro, per quella cura che gli uomini mettono, non dirò a non essere, ma a non parere plagiari.
Ma rimettiamoci in cammino. I due termini astratti virtù e corruttela, i due concetti di secolo vecchio e secolo presente, come poteva io esprimerli co’ mezzi poetici senza ricorrere a forme concrete, a forme umane che li rappresentassero?
Lascio a voi, dilettissimi, insieme col merito della pazienza il fastidio di spiegare le leggi e il perchè di questa necessità poetica, a coloro che non l’intendessero da sè e fossero galantuomini da potervi fidar voi a menzionare con essi i versi e il nome mio. Ma sopra tutto vi raccomando di mettervi anche a dire cose triviali, tanto da farvi meglio comprendere, e conficcare e ribadire ben bene nel capo di loro come quelle forme, a trovarle, non richieggano modelli reali di cui ritrarle, a guisa che fanno i pittori quando ritrattisti, o quando non accostumati alla franca rappresentazione dell’ideale. Che sarebbe questa potenza che la mente umana ha d’immaginare, se per rinvenire il verisimile avessimo d’uopo di misurare sempre il vero con la spanna o col compasso? Dov’è l’uomo anche meno dotato di questa potenza, il quale, se gli dici: «la tale famiglia è viziosa,» non sappia crearsi nel suo pensiero l’immagine di qualche azione viziosa de’ componenti quella famiglia? Quell’azione da lui immaginata, manco male non sarà avvenuta nella realtà materiale delle cose, non sarà vera; ma sarà analoga al vero, ma verisimile: sarà nella mente di lui la forma visibile del concetto invisibile, sarà uno de’ fantasmi rappresentativi della nozione del vizio. Come colui che gli suonò all’orecchio la parola vizio, era salito dagli oggetti all’astrazione; così egli immaginando un’azione, altro non avrà fatto che quello che facciamo d’ordinario noi, turba grossolana — voi sapienti non so come facciate — sarà ridisceso a cercare negli oggetti un simbolo figurato dell’astrazione; ed in mancanza di oggetti reali, gli sarà bastata la rappresentazione di essi nel suo pensiero. Di questo modo parmi che tutti siamo più o meno poeti, anche il ciabattino, che non ha sentito parlar mai di poesia, anche colui che non ha aperto mai bocca a manifestare ad altri un suo pensiero: perchè la facoltà di crearci oggetti ideali, di arrestarci a contemplare fenomeni che non occuparono mai nè tempo, nè spazio, di vagare dietro il verisimile sdimenticati del vero, la facoltà poetica insomma in tutti i suoi attributi, sia o no che se ne faccia stima o disprezzo, ell’è pur sempre una delle perpetue imprescindibili condizioni che costituiscono lo spirito umano. E chi sa che ella non sia, fors’anche la precipua! Chi sa che l’uomo non sia forse più poeta che altro anche allora ch’egli dichiara ad altri e giura a sè stesso d’esserlo meno, e sel crede?
E a proposito di ciabattino, per citare due esempi del presente poemetto, la risposta a’ quali calza per tutti i casi anche più minuti di esso; vi pregherei di far loro osservare come nella battaglia di Legnano sia tratto in iscena un solo Lombardo ferito a dir cose serie; e tra’ viventi uno solo sia che s’ubbriachi e dica cose infami. Sarà per questo che nella vera battaglia di Legnano uno solo sia stato il ferito, ed abbia proprio proferito quelle parole? Sarà per questo che nella realtà dei viventi uno solo sia il bevone, l’impudico, nell’animo del quale si riuniscono proprio tutti i sentimenti espressi nella canzoncina? — Oibò, oibò, oibò. — Di questa picciolezza d’intelletto farebbe mostra chi non ravvisasse qui, e da per tutto altrove nella romanza, l’ideale! e nol ravvisasse prevalente ben assai più nelle forme espressive del concetto di secolo nostro, che non in quelle rappresentanti l’altro concetto dove molte immagini sono anche tolte alla realtà storica!
Ma il suggerire io queste osservazioni a voi, dilettissimi, gli è davvero un portar patate in Irlanda: — avrei detto più volontieri, incenso in Arabia; ma allora la grandiloquenza sarebbe stata, come spesso avviene, in detrimento del senno comune; perchè l’incenso, preziosa derrata, riferito a voi, andava bene; riferito a me andava sguaiatamente male.
Alcuni anni fa avrei dovuto prevedere e combattere più di proposito un’altr’accusa già mezzo accennata qui sopra. Ma sarebbe adesso fin anche soperchieria il menar colpi contro di una moribonda, voglio dire la taccia di poco amore del proprio paese, la metafora obbligata del mordere il seno alla propria madre. Vergogna! un italiano sparlar dell’Italia! —
Sì, eh! — Me li rammento ancora i tempi quando quest’accusa, movendo di soppiatto dai pandemoni delle polizie tedesche, usciva fuori allindita il volto d’un poco di belletto e d’un poco di gioventù, tanto da potere, quantunque ribalda, e tutta lercia sotto panni, infinocchiare qualche gonzo. Ma i commessi delle polizie, segreti e pubblici, l’hanno poi tramenata cotanto, l’hanno cotanto fatta correre su e giù a seminar zizzanie tra di noi, ad adulare una falsa boria soporosa nella coscienza di chi amando la patria non domandava a sè stesso in che poi consistesse l’amarla davvero, l’hanno indotta, dico, a cotanto scialacquo delle sue forze, che a lei sono rimaste oramai solo le grinze e la goffaggine. Scommetto una buona ciocca de’ miei capegli ancora neri; — il che non è posta tenue per un uomo che se li vede volgere al canuto ogni mattino più; — e nondimeno vado a scommettere che a nessuno reggerà ora lo stomaco di rafforzare gli stinchi a quell’accusa. Tutti poi i capegli miei e neri e bianchi, ed anche il pericraneo scommetto, che nessuno, ove un tristo s’ardisse di raffazzonarli, nessuno possessore sotto il cranio suo d’un granello di giudizio, se ne lascerà abbindolare.
Giacchè sono in ballo, contentatevi ch’io faccia un altro saltetto: e sarà l’ultimo, ve ne do promessa. Mi pizzica sul labbro qualche parola da dirvi anche intorno alla ragion poetica di questa romanzuccia; perchè qui sta il zoppicare; e se un briciolo d’apologia le potesse raddrizzare l’apparenza, sarebbe per me una beatitudine. Non è ch’io mi metta in apprensione dei critici di mestiere onde è pieno lo stivale d’Italia: so bene che da loro non ho a temere che pubblicamente neppure si fiati de’ versi miei; sono diavolerie che scottano i diti, argomento che ne va la pelle a darsene per intesi. Ma tra que’ critici vi possono anche essere persone che, sicure in segreto del fatto loro, fingano di cedere alla smania di trinciare un giudizio letterario, quale che sia l’imprudenza che commettano a confessare d’aver lette le mie Fantasie, e davvero servano poi ad altro proposito. Già s’intende che la confessione ed il giudizio saranno bensì ripetuti sovente, ma sempre con persone diverse onde affettar precauzioni, sempre a quattr’occhi, sempre sotto voce; e premessa sempre la formola protestatoria che non si tratta d’entrare nella politica, ma si parla solo de’ versi come semplicemente versi, come un oltraggio recato alle buone lettere, di cui il pigliar le difese è sacro dovere. Alle censure di costoro, che saranno tanto più vicini a conseguire dai governi un impiego, od a migliorarlo, voi, miei dilettissimi, non potete, nè dovete averla voi l’imprudenza di rispondere una sillaba, s’anco pensaste ch’io meritassi da voi qualche protezione da quegli assalti. L’amico vostro dunque rimarrebbe a partito peggiore che non le illustrissime Buone Lettere, sfornito, voglio dire, d’ogni difesa. È vero che in Italia, non solo nelle inezie come queste, ma nelle cose gravissime, è legale sentir l’accusatore e condannare alle forche l’accusato, senz’altra formalità che il beneplacito di chi paga il boia. Ma i rozzi popoli tra cui sono venuto vagando da alcuni anni, mi hanno messo in capo molti pregiudizi, e fra i molti quello di associare all’idea di giustizia l’idea di difesa, e quel che è peggio, difesa pubblica, a porte spalancate. Guastato dal mal esempio, caduto, lontano dalla patria in tanta ignoranza, non so tenermi dal rispondere io innanzi tratto a quelle censure, dal far pubblica la difesa mia, e d’una maniera spiccia, ma oso dire, persuadentissima. Piglio fiato, ed incomincio:
«Signori, in quanto alla condotta del poemetto, condotta troppo evidentemente regolare, troppo ordinata a presentare in grande la simmetria di una antitesi; in quanto alle immagini talvolta troppo prosaiche, talvolta troppo noiose; in quanto agli accidenti, alle persone, ed a’ discorsi ch’elle fanno or troppo lunghi, or troppo strampalati; in quanto al tutto insomma che i versi rappresentano, è gofferia la vostra se ne parlate. I sogni vengono come vogliono essi; godono d’una libertà tanto indomabile, che nè da’ critici, nè dai principi, che come i critici mettono naso per tutto, ella è da poter raccorciare di un atomo; sono più liberi perfino del pensiero propriamente detto, poichè non solamente a quando a quando, ma sempre, se non m’inganno, camminano indipendenti da atto della volontà nostra. Or bene, codesti ch’io v’ho descritti, sono cinque di tali privilegiati fortunatissimi che si ridono d’ogni tirannia. E questo basti a chiudervi la bocca, come il papa a’ cardinali talvolta. Vorrei vederlo l’uomo che avesse l’arroganza di dire all’uomo: «Hai avuto torto di sognar così!» Per la qual cosa, o signori, a voi non rimangono di questo povero componimento che le verseggiatura, lo stile, la lingua, i punti e le virgole su cui esercitare il vostro ministero. Il campo è tuttavia assai vasto, per chi voglia menare a tondo lo staffile; e ch’esso non cadrà sempre immeritato, quasi quasi ve n’assicurerei io medesimo, se nel catalogo delle umane stravaganze anche questa fosse registrata ch’io mi brigassi di parlare sul serio con voi. Signori, ho detto.»
Ma ai lettori ne’ quali il buon gusto va del pari con la buona fede, a quelli da cui un cenno di simpatia è tutto ch’io ambisca, e a voi, carissimi, a cui principalmente sono dedicati questi versi, quale parola posso io dire che valga a stenuarne i difetti?
Ho veduto dei padri confessare talvolta che non erano belli i loro figliuoli; ho veduto quel misto di titubanza, di vergogna, di conoscenza, di rincrescimento, di rassegnazione, onde sul volto loro pigliava colore l’ingenuità della confessione. Ebbene, quella tinta non l’ho veduta mai distendersi sul volto di veruno autore che condiscendesse a dichiararsi mal soddisfatto del proprio libro. È d’uopo quindi presumere che nella paternità letteraria v’abbia una tendenza più ciecamente amorosa verso la prole, che non nella paternità naturale: chi trovò il primo quella metafora della paternità, avrebbe forse tirato un po’ più vicino al segno, se non curando la corrispondenza del sesso, avesse detto maternità letteraria: giacchè a far più intenso l’amore materno concorre anche la memoria della distretta del parto. In ogni modo, quel viso così male in accordo con la parola, quel viso che ho veduto in altri, nol voglio fare io, nè dire che i versi miei io li riconosco per brutti, e dirlo a detto smentito da me stesso: perchè se tali io li credessi davvero, li manderei a voi stampati e pubblicati?
Ma in tutto v’è un di mezzo; e quasi sempre la verità, chi voglia snidarla, è in quel di mezzo che è da rintracciarsi. Ciò che a me par vero, lo dirò a voi veracemente.
Già da alcune altre di queste mie inezie poetiche che prima d’ora ho date, non posso dire alle stampe, ma a malmenare agli stampatori, voi vi sarete accorti ch’io mi son messo sur una strada la quale non è giusto giusto quella indicata dall’estetica come conducente diritto allo scopo ultimo che l’arte poetica si prefigge, per unico, sur una strada dove spesso fo sacrificio della pura intenzione estetica ad un’altra intenzione, dei doveri di poeta ai doveri di cittadino. Nel conflitto di queste due sorta di doveri, è da ravvisarsi un’angustia per l’uomo che ne sente l’importanza di entrambe; e nella prevalenza in lui della devozione civile sulla devozione estetica, è da riconoscersi, se non m’inganno, qualche cosa d’onesto, la sottomessione dell’amor proprio all’amor della patria. Siamo uomini tutti, e tutti l’abbiamo la nostra ambizione, ed è scempiaggine il dir di no: nè io pretendo che mi crediate non aspirante a qualche fama di poeta, non parziale fors’anche nell’estimare i diritti ch’io possa avere ad essa, per quanto deboli me li rinfacci la coscienza. Se di una tale ambizione ho fatto dunque olocausto ad altre considerazioni, forse anche voi dovreste, nel giudicare i miei versi, procedere con qualche riferimento a quelle considerazioni. Per male allora che andasse la causa mia dinanzi a voi, questo almeno sareste tratti a dover dire: Ha fatto un cattivo poema, ma una buona azione.
So che mi si può apporre la stolidità di avere scelto per mezzo a compiere quell’azione i versi, quando, se il compierla era quello che più mi premeva, la prosa era il mezzo più espediente. Mi porterebbe troppo lontano il rispondere a questa obbiezione; basti per ora ch’io accerti chi la facesse, che non è poi tutta stolidità quella scelta: ci pensi, e gli verrà indovinato il perchè.
Proponendo a voi, dilettissimi, come ho fatto, la sentenza da pronunziare, è manifesto anche nei termini di essa come io senta benissimo che altro galantuomo, posto nelle strette mie, avrebbe potuto servire alla patria con meno ripudio dell’estetica. Ma che volete ch’io vi dica? Il tipo del bello l’ho in capo talvolta; ma quando si tratta d’imitarlo coi fatti; dàlle dàlle, non mi riesce. Insomma non ho saputo far meglio. Questo per altro sia segreto confidato a voi soli, di grazia non ne fate il segreto delle comari, non riditelo in piazza.
Finora, per quanto io abbia detto in difesa od in offesa mia, non ho fatto che stare sulle generali; ed è un modo di parlare che non mi piace, poichè gli è spesso una gherminella, un trovato astuto onde spacciare per umiltà la superbia, un parere di dire e dir nulla. Sbrighiamocene indicando almeno un qualche particolare.
Quantunque si abbia usata la precauzione di fare che l’Esule sognasse verso il mattino, quando dicono che i sogni vengono più distinti, più ordinati, più conformi all’andamento comune delle associazioni delle idee nostre quando siam desti, v’è nondimeno in questi cinque sogni qualche cosa di troppo misurato, di troppo ragionevole. In essi poi si fa un gran parlare, quando invece è noto che d’ordinaria i sogni consistono principalmente d’immagini visibili; dunque poco verisimiglianza ne’ cinque sogni. In essi è anche una certa mancanza, diciamo così, d’intonazione poetica, non solamente qua e là nello stile, ma nel tutto insieme della finzione, un non so che inesprimibile di grave che non sa trascinarti fuori della realtà della vita più che tanto, un ideale che è bensì poetico, ma lo si sente cercato con intendimento prosaico. La forma poi di questo componimento, visione o sogno, fantasie che lo si chiami, è una forma di poema che ha tanto di barba, una forma usata e riusata fino alla nausea, una forma vecchia come la vecchia memoria di Abacuc...
Sia ringraziata l’esistenza tra noi dell’espressione proverbiale vecchio come Abacuc, e ringraziato il suo venirmi ora nella penna. Essa interrompe l’articolo che, senza avvedermene io stesso, stava facendo su di me, fatica malaugurata che gli autori imprendono bensì sovente, per carità del libro loro, ma non mai per dirne male, ma sempre serbandosi anonimi. Essa richiama anche il pensiero vostro ai profeti, ed a quelle loro visioni nelle quali è ben altra poesia che questa della Romanza, e nondimeno le parlate non sono nè poche, nè brevi. Ezechiele, per modo d’esempio, che se a taluni può parere un po’ meno poeta degli altri, e specialmente d’Isaia, è non per tanto un gran poeta anch’egli, e, credo, il più abbondante d’immagini visibili, Ezechiele non parmi che avesse paura del far parlare a lungo nelle sue visioni le immagini alle quali egli attribuiva favella. Ma la verità è che Ezechiele aveva per ascoltatori popolo e non critici; e noi, moderne scimie de’ poeti antichi, in Italia noi abbiamo critici e non popolo. E chi, cercando consiglio ai critici, potrebbe menarmi buono l’avere io fatto parlare cotanto uno vicino a morire, il Lombardo della battaglia di Legnano? Lo scoprirmi in fallo per questa parlata sarebbe la cosa del mondo più facile a farsi, se un’altra non ve ne fosse più facile ancora, quella per me di pigliare le cesoie, e tagliar via il corpo del delitto, o d’accorciarlo almeno. E sia lode al vero, due volte ho portate le mani per eseguirlo il taglio, e due volte — lo dirò con una frase tutta di filigrana, rubata al Creso di tali frasi, — due volte caddero le paterne mani. E perchè? Perchè quelle poche ammonizioni contenute nella parlata erano le cose appunto che a me più importava di dire; perchè quelle ammonizioni possono essere come tocco di campana che svegli altre riflessioni nell’animo de’ miei concittadini, un avviamento a pensieri un po’ sodi sulle condizioni necessarie ond’essere degni della libertà. Nè credo ch’elle sieno estranee al concetto storico della Romanza, dacchè in gran parte per non avere saputo i Lombardi far senno di ammonizioni consimili, perdettero poi in seguito la libertà loro.
Come eglino la perdessero, e perchè dovessero necessariamente perderla, voi lo sapete, o miei cari, nè spetta a me di ridirvi le osservazioni che altri hanno già fatte e pubblicate con tanta limpidezza di giudizio, e da ultimo anche il signor Guizot con cenno rapido, ma sentito.
Tengano conto, li scongiuro, di tali osservazioni quelli che amano la nostra povera patria. Cerchino di farne anch’essi, studiando la storia nostra, traendo dalle memorie del passato una migliore direzione alle speranze del futuro. E se mai, e chi ’l sa? usciti del nostro sopore, o sbalzati da qualche accidente dell’incivilire che fa ogni dì più l’Europa intorno di noi, ci trovassimo avvicinati al conseguimento della libertà e della indipendenza nazionale, ricordiamoci che ad afferrarle più strette, a ritenerle più sicure varranno l’amore tra di noi, e le arti franche della verità e della forza cogli estranei, e non già i trovati della diplomazia.
Non era ancora ridotta ad arte la diplomazia ai tempi de’ Lombardi; ma il fondamento di essa esisteva anche allora, il brutto vizio di avere altro sul labbro, altro nell’animo, di torcere le parole a dire quello ch’elle non debbano significare. In Pontida i Lombardi metteansi in atto di esercitare il diritto più santo de’ popoli, pigliavano l’armi per iscacciare gli stranieri e l’imperatore straniero; e nondimeno gridavano: «Salva sempre la fedeltà all’imperatore.» In Costanza eglino vedevano consacrate dalla pace il fatto della loro indipendenza dall’imperatore; e nondimeno giuravano: «Riserbato l’alto dominio all’imperatore.» Nel primo caso, le parole nulla affatto dovevano dire: nel secondo, ben poco più di nulla. Ma quest’ultime lasciavano aperto uno sportello agli stranieri, e davano loro adito a macchinare in Italia discordie che vi rompessero la Lega e vi rimettessero la debolezza. Quando viene a mancare la forza che ha soggiogate le parole e costrettele a dire meno del loro significato; allora le parole riprendono tutta quanta la forza loro, e dicono tutto quello ch’elle sanno dire. Così la sciagurata parola alto dominio somministrò col tempo colore di diritto alle angherie dei successori di Federigo. E però qualunque popolo aspira all’indipendenza, guardisi dall’essere corrivo nelle parole, e non ponga fiducia in quelle de’ diplomatici Un celebre di questi faccendieri politici, celebre anche per l’acume de’ suoi tanti frizzi, ai quali egli sopravvive come ai suoi artifici, perchè la moda è cambiata, ebbe a dire, alcuni anni fa, che Dio aveva data la parola all’uomo onde con essa celare il nostro pensiero, e non già manifestarlo. Fidinsi dopo questo alle promesse dei diplomatici le nazioni se il possono.
Amici miei, è detto che l’amore induce taciturnità; bisogna per altro dire che metta anche talvolta una parlantina da rimbambiti. Così ora avvenne di me. Ma è colpa anche vostra, perchè non m’avete mai interrotto il discorso. Ed era pur vostro costume l’interrompermelo una volta ad ogni istante: questa corda non tocchiamola. L’illusione, che mi sono creata d’essere e parlare con voi mi riuscì tanto consolante, che averla tirata in lungo a bella posta, è astuzia perdonabilissima; e voi, ne son certo, me la perdonerete di buona voglia. Pervenuto al punto in cui m’è mestieri congedarla questa illusione, scioglierla, sperderla tutta, e far fine e dirvi addio, sento che nella parola addio v’è qualche cosa che non m’è dilettevole, e tutt’ad un tratto mi trovo essere divenuto taciturno davvero.
Addio, amici miei; la memoria di me non perisca nel cuor vostro.
L’affezionatissimo vostro |
- Piccadilly, 5 gennaio 1829.
- ↑ Prefazione dell’autore posta innanzi all’edizione di Parigi, 1829.