< Le fantasie
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IV

V


     Era sopito l’Esule;
     Era la notte oscura;
     E nulla più del lago
     E delle grigie mura.
     Ecco ne’ sogni mobili
     Una diversa immago;
     Ecco un diverso palpito
     Del dormiente al cor.


     Pargli aver penne agli omeri,
     E un ciel che l’innamora
     Battere, ai rai vermigli
     D’italïana aurora.
     Fiuta dall’alto i balsami
     De’ suoi materni tigli:
     Gode in veder la turgida
     Foglia de’ gelsi ancor.
     
     Come la vispa rondine,
     Tornata ov’ella nacque,
     Spazia sul pian, sul fiume,
     Scorre a lambir fin l’acque,
     Sale, riscende, librasi
     Su l’indefesse piume,
     Viene a garrir nei portici,
     Svola e garrisce in ciel;
     
     Così fidato all’aere
     Ei genïal lo spira,
     E cala ognor più il volo,
     Più lo raccorcia, e gira
     Lento, più lento, a radere
     Il vagheggiato suolo;
     Com’ape fa indugevole
     Circa un fiorito stel.
     
     L’aia, il pratel, la pergola
     Dove gioìa fanciullo;
     L’erte indicate ai bracchi
     Nel giovenil trastullo;
     Le fratte d’onde al vespero,
     Chino a palpar gli stracchi,
     Reddìa, colmo sul femore
     Pendendogli il carnier;
     
     Tutti con l’occhio memore
     I siti, egli rifruga,
     I cari siti, ahi lasso!
     Che nell’amara fuga

     Larve mandar parevano
     A circuïrgli il passo,
     A collocargli un tribolo
     Sovra ciascun sentier.
     
     Rinato ai dì che furono,
     Il mattin farsi ammira
     Più rancio; e la salita
     Del Sol piena sospira,
     Tanto che intorno ei veggasi
     Ribrulicar la vita,
     Oda il venir degli uomini,
     Voli dinanzi a lor.
     
     Tutta un sorriso è l’anima
     Di riversarsi ardente.
     Presago ei si consola
     Nelle accoglienze; e sente
     Che incontreria benevolo
     Fin anco lei che sola
     Sa pur di quale assenzio
     Deggia grondargli il cor.
     
     Eccolo, il sol! Frettevoli
     Pestan la guazza, e fuori
     A seminati, a vigne
     Traversano i coltori.
     Recan le facce stupide
     Che il gramo viver tigne;
     Scalzi, cenciosi muovono
     Sul suol dell’ubertà.
     
     Dai fumaiuoli annunziansi
     Ridesti a mille a mille
     I fochi dei castelli,
     Dei borghi e delle ville.
     Dove più folto è d’uomini,
     A due, a tre, a drappelli
     Escono agli ozi, all’opere,
     Sparsi per la città.


     Son questi? È questo il popolo
     Per cui con affannosa
     Veglia ei cercò il periglio,
     Perse ogni amata cosa?
     È questo il desiderio
     Dell’inquïeto esiglio?
     Questo il narrato agli ospiti
     Nobil nel suo patir?
     
     Ecco, infra loro il teutono
     Dominator passeggia;
     Li assal con mano avara;
     Li insidia; li dileggia:
     Ed ei tacenti prostransi,
     Fidi all’infame gara
     Di chi più alacre a opprimere,
     O chi ’l sia più a servir.
     
     In tante fronti vacue
     D’ogni viril concetto,
     Chi un pensier può ancor vivo
     Sperar d’antico affetto?
     Chi vorria farvel nascere?
     Chi non averlo a schivo
     Come il blandir di femmina
     Sul trivio al passeggier?
     
     Lesto da crocchio a crocchio
     Il volator trapassa;
     E gl’indaganti sguardi
     Su quel, su questo abbassa.
     I bei presagi tornangli
     Ad uno ad un bugiardi;
     Pur vola e vola, e indocile
     Discrede il suo veder.
     
     Colà una donna? Ahi, misera!
     Qual caro suo l’è tolto?
     Non è dolor che agguagli
     Quel che l’è impresso in volto.

     Par che da forze perfide
     Messa quaggiù in travagli,
     Sporga ver Dio la lagrima
     Cui gli uomini insultâr.
     
     Patria!.. Spilberga!... vittime!...
     Suona il suo gemer tristo. —
     Quel che dir voglia, il sanno;
     Com’ella pianga, han visto;
     E niun con lei partecipa
     Tanto solenne affanno;
     Niun gl’infelici e il carcere
     Osa con lei nomar.
     
     Chi dietro un flauto gongola,
     Che di cadenze il pasca,
     E chi allibbisce ombroso
     D’ogni stormir di frasca;
     Come nel buio il pargolo
     Sotto la coltre ascoso,
     Se il dì la madre, improvida,
     Di spettri a lui parlò.
     
     Altri il pusillo spirito
     Onesta d’un vel pio;
     Piaggia i tiranni umìle.
     E sen fa bello a Dio.
     Come se Dio compiacciasi
     Quant’è più l’uom servile,
     L’uom sovra cui la nobile
     Immagin sua stampò!
     
     E quei che fean dell’itale
     Trombe sentir lo squillo
     Là sulla Raab, soldati
     Del tricolor vessillo,
     Che a tener fronte, a vincere
     Correan, — per tutto usati
     L’Austro, il Boemo, l’Unghero
     Cacciar dinanzi a sè,


     Dove son ei? — Già l’inclita
     Destra omicida è polve?
     Tutte virtù l’argilla
     Del cimiterio involve?
     O de’ conigli l’indole
     Anco il leon sorbilla,
     E dei ruggiti immemore
     Lambe a chi ’l calca i piè? —
     
     Al dubbio amaro, l’Esule,
     Come una man gli fosse
     Posta a oppressar sul core,
     Si risentì; si scosse
     A distrigar l’anelito,
     A benedir l’albòre
     Che dalle vane immagini
     Al ver lo ravviò.

Desto; — ammutito, immobile
     Il suol com’uomo affisse
     Che del suo angor vergogni:
     Poi quel che vide ei scrisse.
     Ma quel che ancor l’ingenuo
     Soffre pensando ai sogni,
     Sol cui la patria è un idolo
     Indovinar lo può.

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