< Le madri galanti
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Personaggi Atto II

ATTO PRIMO


In casa del Conte d’Acqui. — Sala riccamente addobbata. — Un uscio nel mezzo, due usci laterali. — Su di una tavola sta spiegata una pezza di moire rosa. — Lumi accesi, è principio di sera.



SCENA PRIMA.

Anna, la Modista, Camilla in un canto.


Modista.

E le maniche?

Anna.

Simili a quelle del mio vestito bleu, ma assai più corte.

Modista.

Badi Contessa che allora le si ridurranno quasi a niente.

Anna.

S’è così, per far che non appariscano troppo le braccia, e guarnirete con due pagodes squarciate fino in cima, e di tulle molto fino e molto trasparente.

Modista.

Siamo intese. E la gonna?

Anna.

Molto lunga e molto ricca.

Modista.

Ed il busto?

Anna.

Stretto ed un po’ mancante alle spalle.

Modista.

Ho capito: allora prenderò per modello l’ultimo abito da ballo che ho fatto per la signora contessa.

Anna.

Oh, no; quello mi vien troppo su, e ci sto troppo comoda.

Modista.

Adesso ho capito meglio. La signora contessa vuole un vestito troppo lungo nella gonna, troppo stretto alla cintura, troppo basso alle spalle — la ci starà meno comoda.

Anna.

Poco importa. Questi tre difettucci sono indispensabili a far perfetto un vestito. E poi in materia di moda l’ultima cosa che si cerca è la comodità.

Modista.

Verissimo. Ma non crede, contessa, che scoprendo così le spalle, il busto non venga poi a discendere troppo giù sul petto?

Anna.

In questo caso ne ornerete il rimbocco con qualche cosuccia: su ciò non datevi briga: vedremo poi.

Modista.

Allora tutto è convenuto. Quanto alla stoffa (ripiegando la stoffa) la è davvero magnifica.

Anna.

Ho voluto arrischiare il rosa per un’ultima volta.

Camilla.

Mamma, e la veste che il papà ti disse or ora ch’io avevo bisogno?

Anna.

Oh! a proposito, madama Leblon, fatemi il piacere di procacciarvi un tessuto semplice molto per far un vestito a mia figlia.

Modista.

Di che colore?

Anna.

Oscuro.

Modista.

E il vestito un po’ scollato forse, alla vierge?

Anna.

No, no, accollato, molto accollato, e comodo assai: i fanciulli vogliono star comodi.

Modista.

Quell’ultimo che le ho fatto andava bene, mi pare.

Anna.

Non hai cresciuto d’allora, Camilla?

Camilla.

Cresciuta? Son due anni che non cresco più, mamma.

Anna.

Ricordatevi che aspetto tutto per domani sera.

(alla Modista)

Modista.

A nov’ore, senza fallo.

Anna.

Mi raccomando.

Modista.

Sarà servita.

Domestico.

(annunciando) Donna Matilde Foschi.

(si ritira)
(la Modista s’avvia per uscire).


SCENA II.

Arma, Camilla, Matilde.

Anna.

Camilla, vattene.

(Camilla esce).

Matilde.

Ah! madame Leblon, e il mio vestito?

Modista.

Stanno attaccandovi la guarnizione.

Modista.

Quanti metri ce ne mettete?

Modista.

Novecentonovantotto metri di petite blonde.

Matilde.

Sta bene.

(la Modista s’inchina ed esce).

SCENA III.

Anna e Matilde.

Anna.

Tanto fa metterne mille, mia cara; una dozzina più, una meno....

Matilde.

È quella che basta per far dire alla gente che porto un chilometro di blonde al mio vestito. Non vi siete ancora acconciata?

Anna.

Sarà mezz'ora che ci siamo alzati da tavola. Che opera c'è stassera?

Matilde.

Il Trovatore.

Anna.

Potremo andarcene all'ultimo atto.

Matilde.

Perchè, se è il più bello di tutti?

Anna.

Debbo finir la sera dalla Clari.

Matilde.

Oh! ma voi siete sempre lancée,cara mia.

Anna.

Che volete, ho tante relazioni.

Matilde.

E vostro marito?

Anna.

Egli mi accompagna di rado; per solito è il vecchio barone Abati che mi fa da cavaliere: cavaliere poco pericoloso, ma, malgrado ciò, divertente.

Matilde.

Io invece non vado mai ai balli senza mio marito: la gente è tanto maligna. Avete visto il signor Salvi in questi giorni?

Anna.

Sì, egli capita spesso a quest’ora.

Matilde.

Sapete ch’egli è un avvocato molto originale? Dicono che costoro imparano nel codice a fare i bussolotti colle parole; ma il signor Salvi è una eccezione.

Anna.

Sì, è un carattere che spinge la franchezza fino all’esagerazione, ma nello stesso tempo è un tipo di lealtà.

Matilde.

Oh certamente, ed è per questo che ho affidata a lui la mia causa. Anna, Davvero! non me ne ha mai mosso parola. Voi pensate sempre seriamente alla vostra separazione....

Matilde.

Seriamente assai. Sono spinta agli estremi. Foschi si rovina col giuoco, credo la mia dote assai compromessa. La separazione è necessaria. Per buona sorte ch’io sono tenuta troppo in onore dalla società perchè la mia riputazione abbia a temerne. Lo scandalo cadrà tutto su mio marito che ne ha la colpa.

Anna.

Non vi separerete però dalla vostra bambina.

Matilde.

No, mai. Foschi non la vorrebbe, fuorchè per giocarla. E poi la legge vuole che rimanga alla madre. Tanto più che io quella piccina me la idolatro. Se la vedeste col suo nuovo farsettino alla scozzese, la è un amore; ieri al corso tutti la guardavano. Ma la poveretta avea le gambine nude e tremava dal freddo: oggi è a letto ammalata. - Non andate a vestirvi?

Anna.

Vado e subito perchè aspetto il barone che mi ha promesso di portarmi il signor Collalto.

Matilde.

Com’è quel signore?

Anna.

Oh, balla bene assai.

Domestico.

(Annunciando) Il signor Salvi.

SCENA IV.

Anna, Matilde, Enrico Salvi.

Anna.

Ah! Il signor Salvi.

Salvi.

Signora contessa... Signora.

Anna.

Appunto: mentre vado un po' allo specchio voi terrete compagnia un quarto d'ora a donna Foschi. Quando volete sapete essere gentile.

Salvi.

Farò quello che potrò, contessa.

SCENA V.

Salvi, Matilde.

Matilde.

Enrico (dopo qualche minuto di silenzio).

Salvi.

Scusate, signora. Rammentatevi che siamo in casa della contessa d'Acqui: chiamatemi sig. Salvi, o avvocato, come meglio vi aggrada.

Matilde.

Ebbene, signor Salvi, è egli così che mi farete passare il quarto d'ora promesso?

Salvi.

Stava cercando un modo per entrare in discorso.

Matilde.

E non lo avete trovato?

Salvi.

Non ancora.

Matilde.

Vi ajuterò io. Vi ricordate voi di una bella sera che passammo insieme, là, in quella dolce Brianza? È trascorso un anno d’allora.... eppure me ne sovvengo come fosse ieri. Cadeva l’autunno, noi ce ne andavamo soletti nel parco, mio marito era assente...

Salvi.

Basta così: ora tiro avanti da me, grazie - Il vostro processo nuota in cattive acque!

Matilde.

Come sarebbe a dire, signor Salvi?

Salvi.

Non andate in collera. Sarebbe a dire che vostro marito se la prende calda e non ne vuol sapere di separazione, di quella di beni in special modo; e non ha torto perchè se voi gli scappate col mezzo milioncino, il miserello se ne rimane tutto spogliato in mano de’suoi creditori - Epperò egli spiffera a tutti che ciò che voi chiamate vostra dote non è altro che una donazione che vi fece egli medesimo sposandovi e che voi del vostro non avete mai avuto un centesimo - non temete, parlo sottovoce - Aggiunge che voi lo rimunerate dell’amore ch’egli vi porta colla gratitudine del serpe. Va all’inchiesta di avvocati e di testimoni, pone in subbuglio i tribunali e pagherebbe tant’oro per arrivare a scoprire in voi qualche piccola pecca che potesse aiutarlo a salvarsi.

Matilde.

E quali pecche, compiacetevi di dirmi, quali pecche potrebb’egli scoprire?

Salvi.

Puh! vi ricordate voi di una bella sera passata in Brianza?.... Andavamo soletti nel parco, vostro marito era assente....

Matilde.

Signore.... basta.

Salvi.

È la storiella che mi rammentavate or ora.

Matilde.

E che dovrebbe rammentarvi anche che in quel tempo prometteste di difendere le mie sostanze e il mio onore.

Salvi.

Eh! un anno fa! Promesse fatte al chiaro di luna, coll'anima spasimante.... ma senza un bricciolo di cervello. Scusatemi io vi dico la verità nuda e cruda: tutti abbiamo i nostri difetti, e questo è il mio. In quel tempo l'idea di una bella martire strappata dalle ughie di un marito era per me l'insuperabile del poetico; difendere poi questa martire, la più sublime delle cause, l'ideale dell'arte dei dibattimenti, e l'avvocato si atteggiò allora da paladino e promise di combattere per la sua dama nei tribunali, come i cavalieri della Tavola Rotonda ai tornei - Ah! ah! mi meraviglio, signora, che voi rivestiate ancora di poesia quelle vecchie promesse — Voi celiate, signora.

Matilde.

E voi mi parlate così, Enrico! non sono dunque più nulla per voi?

Salvi.

Perdonatemi, siete sempre la mia cliente.

Matilde.

Ah! Enrico....

Salvi.

Chiamatemi Salvi. — Dal giorno che mi consegnaste i documenti per il processo e che doveste confessarmi la storia della dote e.... altre piccole storielle, la bella martire si mutò per me in una semplice cliente. È forse mia la colpa se da quel giorno le illusioni, quelle diafane sirene coronate d'iridi e di veli, si mutarono nella grossolana figura della verità, e se riconobbi che la causa di una moglie che si separa dal marito per fini di danaro non era niente affatto la più sublime delle cause? — Potete dirmi che sia colpa mia se da quel giorno in poi, goccia a goccia è piovuta nell' anima mia l'acqua gelata del realismo? Da quel giorno vedo le cose come sono, sento le cose come sono, dico le cose come sono, e per questo mi chiamano un burbero, un carattere insopportabile... Egli è che da quel giorno il paladino si mutò in avvocato presso il tribunale civile di Milano; e credo che ne siate un po' anche voi la colpa.

Matilde.

Dunque voi volete perdermi.

Salvi.

Oh no, non voglio perdervi, signora. — Ma oggi che non sono per voi altro che la metà di quello ch'ero in altri tempi e che però ci vedo più chiaro, m' accorgo di non potervi salvare che la metà di ciò che vi promisi in altri tempi.

Matilde.

Spiegatevi.

Salvi.

Questa metà è alla vostra scelta. L’onore o il denaro; uno dei due, pensateci.

Matilde.

Voi mi offendete.

Salvi.

Lo sapevo: scusate. — Poichè dunque è l’onore che scegliete, siamo d’accordo e vi approvo. — Lo salveremo; il modo ne è semplicissimo: troncate il processo e riconciliatevi con vostro marito.

Matilde.

Non m’intendete, signor Salvi.

Salvi.

Ah! gli è dunque il denaro che scegliete? mi permettete di non approvarvi? Gli è pur vero che ogni onoratezza può misurarsi a peso d’oro.... Voi stimate la vostra mezzo milione: ve ne sono molte che si accontenterebbero di molto meno.

Matilde.

Datevi pace. La mia fama me la salverò io, ve lo prometto. E poi che è infine una moglie divisa dal marito?

Salvi.

Non è una buona moglie.

Matilde.

V’ingannate!

Salvi.

Cioè, lo potrà essere, ma non certo per suo marito.

Matilde.

Eppure la legge è con essa, signor avvocato.

Salvi.

Ma non la società. — Giacchè però voi vi prendete la cura di salvarvi la riputazione, io mi prendo quella di salvarvi la dote.

Matilde.

E le astuzie di mio marito?

Salvi.

Con un po' di accorgimento si sventeranno.

Matilde.

Davvero? oh grazie, grazie della buona parola!

Salvi.

Così io adempirò al mio incarico: ma voi dubito che possiate adempiere al vostro.

Matilde.

Vedrete la fine, signore.

Salvi.

Vedremo la fine.

Matilde.

Sta bene, e non parliamone più. Ora siate più gentile, e facciamo un po' di pace.

Salvi.

La pace con chi?

Matilde.

Eh via, non voglio compromettervi; la pace coll'avvocato.

Salvi.

S'è così ....(si danno la mano)


SCENA VI.

Salvi, Matilde, il Conte.


Conte.

Oh! qui la signora Foschi?

Matilde.

Si, caro Conte, vengo a rapirvi la moglie.

Conte.

Per condurla?...

Matilde.

Alla Scala.

Conte.

Brave, brave, sempre a teatro queste signore. — E dove è mia moglie?

Matilde.

Sta vestendosi.

Conte.

Ancora una volta? da questa mane in qua sarà la quarta. — Donna Matilde, non abbisogna che vi presenti il signor Salvi?

Matilde.

Oh, ci conosciamo da molto tempo.

Conte.

Me ne rallegro.

(entra una cameriera).

Cameriera.

La signora contessa prega la signora a voler passare un momento nel gabinetto.

Matilde.

Sarà certo per qualche consiglio di toilette: permettetemi, signori, è un affare d’importanza.

(esce)

SCENA VII.

Salvi, il Conte.

Conte.

E così, che ne dici di quella signora?

Salvi.

È una signora molto bene vestita e molto bene pettinata. — La incontro sovente con tua moglie ai teatri, ai passeggi, e nelle feste da ballo.

Conte.

Sì, è una sua nuova amica, e pare che simpatizzino molto insieme.

Salvi.

Capisco. — Saranno di quelle simpatie di toilette con toilette che si danno spesso fra le dame della cerchia elegante; quel mistico bisogno di ravvicinamento che si accende fra un bel vestito bianco di moire e un bel vestito nero di dentelle, fra uno splendido monile di diamanti, e una superba collana di perle: simpatie che prendono le loro radici, credo, un po’ dalle seduzioni del contrasto e da un sentimento di emulazione, un po’ anche dalla necessità di un certo vicendevole appoggio, di una direi quasi complicità che fa sì che l’una sia attratta irresistibilmente verso l’altra. Pure se una volta, per caso, una delle due toilettes offuscasse soverchiamente l’altra, la simpatia si muterebbe tosto in terribile antipatia, e le due signore si appiglierebbero a un pretesto qualunque per non guardarsi più in faccia.

Conte.

Ne sai di belle tu, caro Enrico: confesso che non m’ero addentrato tanto nella natura di queste simpatie.

Salvi.

Tu, caro d’Acqui, hai lasciato da parecchi anni la pratica della società, e te ne vivi quietamente colla tua buona Camilla; io invece ho campo d’osservarle certe cose, e di conoscerle più addentro di te. Epperò mi pare anche di aver capito che la relazione di quella signora Matilde non sia molto fruttuosa per tua moglie.

Conte.

Quella signora è vantata da tutti come un modello irreprensibile di condotta: che ne sai tu?

Salvi.

Io? ... io sono l’avvocato di quella signora.

Conte.

Ne sei l’avvocato, ma non si può dire che tu ne difenda molto la causa.

Salvi.

La casa dell’amico non è il tribunale: là posso difendere la cliente dietro i baluardi del Codice; qui l'amicizia.... non potrà reclamare a sua volta i proprii diritti?... Ad ogni modo perdonami.

Conte.

Quà la mano, buon Enrico: mi pare veramente che dobbiamo vivere in un secolo molto falso e bugiardo, se ogni volta che si vuol parlare francamente si deve domandar perdono come di una increanza. Fra di noi, amico, non ci dovrebbero essere di queste formalità. — Del resto, mio caro, sappi che io non temo nulla per mia moglie.

Salvi.

Male. — Se non temi non ami. Io so che per le persone che si amano si teme sempre,... e tua moglie.... si diverte troppo con quella signora per non temerne un tantino.

Conte.

Lascia che si diverta; è ancor giovane, dicono che sia ancor bella; sacrificò a me la sua prima gioventù; ora sarei un tiranno se la rinchiudessi fra quattro pareti quel po' di tempo che le rimane per divertirsi.

Salvi.

E allora, scusami, perchè tu e tua figlia non siete compagni ai suoi piaceri?

Conte.

Noi due stiamo così bene soletti, in casa. — E poi Anna non vuole che Camilla si mostri ancora nella società: ha sedici anni, è vero, e potremmo condurcela, ma poi.... ho timore anch'io che quel bel coricino mi si guasti, che quella folla me la contamini.

Salvi.

E così l’amore dell’una ti ammorza l’amore dell’altra, e temi per tua figlia quella stessa società che non temi per tua moglie. — Capisco che la contessa....

Conte.

La contessa (sei così chiaro nelle tue frasi che le si leggono in viso prima che le pronunci) la contessa, vuoi dire, mi sarà grata di tener nascosta Camilla: poichè tu credi, non è vero? che essa veda con ispavento il giorno in cui la figlia offuscherà la madre nelle sale da ballo...

Salvi.

Almeno.... gli è questo il grande spauracchio di molte madri giovani, caro d’Acqui.

Conte.

Ho tentato più volte con buone parole di distogliere Anna dalla troppa passione della società, ma essa ha un carattere molto tenace.

Salvi.

Perchè tu l’hai un po’ debole, amico; se tu l’avessi un po’ più vigoroso, non credi tu che potresti essere miglior padre e miglior marito?

Conte.

Enrico, non continuare così.

Salvi.

Oh! ti sei offeso? Vedi che il secolo non ha poi torto quando chiama la franchezza un’increanza? Devo daccapo domandarti perdono?

Conte.

Dirmi che non sono buon padre, io? Io che amo tanto Camilla, io che ho passato sedici anni ad educarla, a curarla, a farle il cuore, a coltivarle lo spirito, dirmi che non sono buon padre!

Salvi.

Ebbene! se sei buon padre voglio metterti alla prova. Senti — se io ti dicessi: — tua figlia ha sedici anni, è pura, è buona, è gentile come l’età che porta: coll’amarla tanto l’hai educata all’amore; ebbene, essa ama un giovane, questo giovane l’ama anch’egli tanto, questo giovane è retto di cuore, onesto, onorato, non molto ricco, non nobile, ma onorato. Dà tua figlia questo giovane e li farai tutti e due felici, ed essi ti benediranno: che risponderesti?

Conte.

Ti risponderei: — sì, dimmi il nome di questo giovane ch’io gli darò Camilla.

Salvi.

Bravo d’Acqui

Conte.

Ma.... chi è questo giovane?

Salvi.

Oh.... non era che una supposizione.... per metterti alla prova....

Conte.

Benedetto uomo!... tu parli colle ipotesi....

Salvi.

Ipotesi... no.... non del tutto....

Conte.

Dunque spiegati.... il suo nome....

Domestico.

(annunziando). Il signor Barone Abati.


SCENA VIII.

Il Barone Abati, Collalto, Conte, Salvi.

Barone.

Caro amico, ti presento il signor Collalto, che desiderava tanto di fare la tua conoscenza.

Conte.

Troppo onore, signore.

Collalto.

L’onore è tutto mio, signor conte.

Conte.

Come sta tua moglie?

(al Barone).

Barone.

Sempre gelosa.

Conte.

Guardate se la contessa ha finito di vestirsi.

(alla cameriera che si presenta).

Cameriera.

La signora è vestita; s’acconcia i fiori in testa.

Conte.

Andrò a far che si spicci, scusatemi.

Barone.

Ed io non potrò penetrare nel santuario?

Conte.

Oh! sempre, amico. — Ritorniamo subito.


SCENA IX.

Collalto, Salvi.

Salvi.

Voi in questa casa?

Collalto.

E perchè no?

Salvi.

Ciò mi ha un po’ del meraviglioso. — Un’aquila che entra in un pollaio.

Collalto.

È naturale, caro Salvi: c’è un pollo stuzzicante: del resto pare che anche voi ci bazzicchiate nel pollaio: anzi son contento di avervi trovato; mi darete delle istruzioni intorno alla contessa.

Salvi.

Intorno alla contessa?

Collalto.

Sì, le sono stato presentato ad una festa da ballo, e dopo la seconda quadriglia la gentile contessa mi ha invitato a venirla a trovare in casa: ciò pronostica fortuna, non è vero, Salvi? Io poi che ho pratica di queste cose mi son fatto presentare legalmente al marito, dal barone Abati. Eh! sappiamo a che ci appigliamo noi, non è vero?

Salvi.

Questa volta per esempio vi siete appigliato ad un granchio: la contessa è una dama ammodo assai, e se vi frulla in cervello di tentar fortuna abbandonatene il pensiero.

Collalto.

Davvero? e siete anche voi di quelli che credono ch’io non possa avere mai fortuna colle dame? vedrete: vi proverò il contrario, e anche a spese di un marito.

Salvi.

E di una donna che comprometterete.

Collalto.

Tanto meglio — Gli è bene a forza di comprometterle queste signore che si diventa famosi con esse; e poi che colpa ne abbiamo noi s’esse son deboli.

Salvi.

(con ironia). Pure quando si è seducenti come voi un po’ di colpa si ha.

Collalto.

Certo, e mi vanto di averla. — Del resto se vi beffate di me perchè non ho barba sappiate che si può fare anche senza barba la conquista della contessa.

Salvi.

Quanto paghereste per averla?

Collalto.

Chi? La contessa?

Salvi.

No, la barba.

Collalto.

V’ingannate, signor Salvi. — Una guancia liscia e morbida ha per la donna matura seduzioni più forti che un mento ispido e barbuto. — La contessa ha una figlia non è vero?

Salvi.

Sì.

Collalto.

Di che età?

Salvi.

Di sedici anni.

Collalto.

Sedici e.... diciotto.... trentaquattro. È l’età giusta.

Salvi.

Inclinate alla maturità.

Collalto.

Certo. Le giovinette mi son tanto in uggia, mi han l’aria così insipida, così melensa. E poi una giovinetta la si crede sempre ammodo, come dite voi, e una donna matura si ha un filo di speranza che non lo sia.

Salvi.

Siete molto morale, Collalto.

Collalto.

Eh! diamine: che diventeremmo noi se tutte le donne fossero ammodo. Ma ditemi in fine, non è vero forse che la contessa è un po’ leggiera?

Salvi.

Cioè ?

Collalto.

Un po’ civettuola?

Salvi.

Vedete, Collalto, vi son delle signore che vi parranno a prima giunta un po’ leggjere, un po’ civettuole, ma che oltre un dato limite vi sapranno mistificare mirabilmente. — Non vi è mai toccato ciò?

Collalto.

Mai. Io conosco le mie dame, e so che ce ne sono di quelle come voi dite, ma le si scorgono subito. — Guardate per esempio, l’amica della contessa, donna Foschi, — v’arrischiereste voi a dirle una mezza parolina un po’ galante?

Salvi.

Oh! donna Foschi è molto rispettabile, lo so.

Collalto.

Per buona sorte di quelle non ce ne sono molte: la è una vera benedizione ora che fuori della buona società abbiamo così poche risorse. — Di madamine non ce ne sono più; hanno derogato: una maitresse alla luce del sole costa troppo caro.

Salvi.

Gli è dunque per economia che sceglieste il sistema della mezz’ombra.

Collalto.

Certo, e poi non è forse maggior trionfo il sentirsi mormorar intorno quando s’entra in una sala. — Ecco lì l’amante della contessa K o della marchesa W, piuttosto che sentirsi gridare: l’amante della Lisetta, o dell’Albertina? C’è il rovescio della medaglia, non dico di no. Si corre rischio alle volte di passar la notte entro un’armadio, o sotto un letto....

Salvi.

Di buscare qualche legnata....

Collalto.

O qualche pistolettata, non dico di no; ma infine o si è uomini o si è bimbi.

Salvi.

Bravo, giovanotto! quanti mesi sono che usciste dal collegio?

Collalto.

Se questo è un sarcasmo, sappiate, signor mio, che ho già per amante una delle più belle dame dell’alta società. — Volete ch’io vi dica il suo nome?

Salvi.

No, no, risparmiatelo: siete tanto discreto! Non isperate però tanto sul conto della signora d’Acqui. Vi trovereste corbellato.

Collalto.

Eh via, Salvi, siate sincero: sareste forse voi.... non voglio farvi ombra, sapete.... fra amici.... dite una sola parola ed io mi ritiro....

Salvi.

Basta, basta: se la prendete così, mutiamo discorso.


SCENA X.

Salvi, Collalto, Barone, Anna,
Matilde, Conte.

Anna.

(entra assestandosi l’abito). Oh! chi mi dà uno spillo?

Barone.

Uno spillo? Eccovene contessa, io ne porto sempre con me un guancialino imbottito. Gli è un vade mecum indispensabile per il perfetto cavaliere.

Anna.

Grazie, barone. — Oh, signor Collalto, scusate — è facendovi aspettar tanto che vi si rimunera della vostra gentilissima visita.

Collalto.

Perdono, contessa, è col lasciarvi vedere che rimunerate generosamente la penitenza dell’aspettarvi.

Anna.

Sempre amabile. — Giacchè abbiam tempo sediamoci un poco. — (Siedono in giro, Collalto presso la contessa a sinistra, il barone con Matilde nel fondo, Salvi, col conte a destra).

Salvi.

(al conte). Vedi. — Vestito rosa. guarnito in pizzo nero, vestito cilestro guarnito di pizzo bianco, contrasto piccante e malizioso: sul collo di tua moglie cinque fila di perle, sul collo della Foschi una collana di smeraldi — che t’aveva detto io?

Anna.

Dunque facciamo la pace, Matilde?

Matilde.

La pace! e che? c’è stata guerra fra noi?

Anna.

Certo, la questione del vestito giallo.

Matilde.

Oh! quello è un consiglio di toilette. Quel vestito giallo mi è così antipatico.

Anna.

Che mormorate, lì in un angolo, signor Salvi? Appressatevi

Salvi.

Usate arti diplomatiche, contessa; ma perdonatemi, vicino a voi non potrei più mormorare di voi.

Anna.

(fra sè). Il signor Salvi è proprio il meno gentile di tutti. (si volge a parlare con Collalto)

Barone.

(a Matilde). Non ascoltate una parola di quello che vi dico.

Matilde.

Mi domandavate qualche eau de Juvence o qualche cosmetico d’ebano per i baffi?

Salvi.

(al conte). Vedi, amico, il piccolo Collalto fa la corte a tua moglie.

Conte.

Bambocciate.

Collalto.

(ad Anna). Mi permetterete, contessa, che questa sera io venga a trovarvi in palco?

Anna.

Certo, certo, chiacchiereremo.

Collalto.

Grazie. — Andrò a dir quattro parole al conte se permettete.

Anna.

Mi derubate, signor Collalto.

Collalto.

Perdonatemi, ne avrò dette cento a voi; vedete che in fine non è che il quattro per cento. Procediamo senza usura. (va a stringere la mano al conte).

Barone.

(che avrà parlato frattanto con Matilde). Ah!

Matilde.

Non sospirate tanto, barone: guardate, c’è un posto vacante vicino alla contessa: essa consolerà il vostro giovane cuore.

Conte.

(al barone). Donna Foschi ti maltratta, povero amico.

Barone.

Ma!...

Collalto.

(accostandosi a Salvi, piano a lui). Vittoria, vittoria, caro Salvi: un ritrovo al teatro, e presto una dichiarazione.

Salvi.

(piano e con ironia a Collalto). Me ne congratulo. Leggete un brano di Werther per prepararvi.

Anna.

(al barone che sarà passato vicino a lei, discorrendole sommessamente). Finirete questa sera in teatro?

Barone.

Sì, contessa. — Dopo lo spettacolo avrò io l’onore di accompagnarvi da donna Giulia?

Anna.

Certo.

Salvi.

Signora contessa, badate che son quasi le nove.

Anna.

C’è tempo, c’è tempo ancora. Ma ditemi che mormoravate poco fa sul mio conto?

Salvi.

Niente di male. — Facevo osservare a vostro marito che stasera siete molto seducente.

Anna.

Vi ringrazio, ma le son cose che si fanno osservare a tutti fuorchè ai mariti.

Salvi.

Grazie della lezione.

Collalto.

(a Matilde). Signora, mi pare aver avuto più volte l’onore di scontrarla nei balli di quest’inverno.

Matilde.

Davvero?

Collalto.

Certo, signora. E poi basta averla veduta una volta per....

Matilde.

(con freddo riserbo). Non ho il bene di conoscerla, signore....

Collalto.

Sono.... Collalto.

Matilde.

(c. s.) Il signore adopera un sistema di presentazione molto semplice. (china il capo come salutando) (Collalto s’allontana confuso.)

Collalto.

(a Salvi). Ve l’ho detto io che quella signora Foschi è intrattabile!

Salvi.

Oh! povero Collalto.

Conte.

Dite a madamigella di venire (a una cameriera che passa).

Collalto.

Avete una figlia, signora?

Anna.

Si.... è ancora una bimba. — Mia cara Matilde, noi dimentichiamo lo spettacolo.

Matilde.

Vengo.

Anna.

Andiamo. — Signor Collalto, a rivederci dunque.

Conte.

(ad Anna). A che ora debbo venirti a prendere?

Anna.

Oh! molto tardi.

Barone.

Non incomodarti, amico. Mia moglie e io siamo a disposizione della contessa. La riconduremo nella nostra carrozza.

Anna.

Il signor Salvi rimane?

Salvi.

Sì, contessa, se permettete.

(il conte accompagna tutti fuori).


SCENA XI.

Salvi, Camilla.

Camilla.

(entrando confusa). Oh siete solo!

Salvi.

Si, Camilla, son solo. — Vi fo paura?

Camilla.

No, ma credevo di trovar mio padre....

Salvi.

Ritornerà subito, non temete. Perchè volevate fuggire di qui, Camilla? Non sono dunque proprio che uno straniero per voi!

Camilla.

Oh! no.... ma....

Salvi.

Eccolo il papà.

SCENA XII.

Detti, il Conte.

Conte.

Buone nuove, Camilla, buone nuove!

Camilla.

E quali, papà?

Conte.

Maria arriva a Milano.

Camilla.

Oh! la mia buona zia. — Cos’hai che guardi?

Conte.

(a Salvi). Mi dirai poi quel nome, Enrico?

Salvi.

Si, quando saremo soli. — Perchè così rossa, Camilla?

Camilla.

Cosa avete detto a mio padre?

Conte.

Dunque, su, ragazzi miei: ecco la scacchiera, fate la solita partita. — Io rileggo ancora la lettera di Maria

Camilla.

Disponete i pezzi — Oh! avete messo il re al posto della regina.

Salvi.

E voi il cavallo dove sta l’alfiere

Camilla.

Ah! è vero.

Salvi.

Cominciate

(Fanno quattro mosse — il conte finge di leggere e osserva invece attentamente i giuocatori).

Camilla.

Scacco matto.



Cala la tela.

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