< Le madri galanti
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Atto I Atto III

ATTO SECONDO


La sala dell'Atto primo. — Maria, Camilla seduta ad un tavolino da lavoro.

SCENA PRIMA.

Maria, Camilla

Maria.

(osservando attentamente un fazzoletto). Per chi è questo fazzoletto?

Camilla.

Per la mamma: son tre mesi che vi lavoro intorno; vedete zia, che disegno intralciato? Ci si perde gli occhi a fissarlo.

Maria.

Ma.... c’è uno sbaglio....

Camilla.

Dove?

Maria.

Qui, nelle iniziali; non vedi? c’è un E invece di un A.

Camilla.

Oh povera me! Di che sbadataggini sono capace! ed ora come fare a ripararvi?....

Maria.

Non spaventarti tanto, Camilla; la cosa è più facile di quello che tu non creda. Un cantuccio di fazzoletto si smarca più agevolmente che un cantuccio di cuore.... Perchè mo’ ti sei fatta pensierosa?

Camilla.

Niente, zia, penso a quell’E.

Maria.

Via: lo correggerai più tardi, per ora piglia questo giubboncino e cuci là. Il figlioletto di quella povera donna ha freddo ed attende questi pochi panni per riscaldarsi. La neve, Camilla, è più vicina al quinto piano che al primo. — Aiutami anche tu, così finiremo più presto. — (Pensa lavorando) Camilla che nome ha quel signor avvocato.

Camilla.

Si chiama il signor Salvi! — perchè?

Maria.

No, volevo sapere il suo nome di battesimo.

Camilla.

Il suo nome di battesimo, zia?.... ma.... credo che sia Enrico — perchè?

Maria.

Ah! Enrico!.... Chiedeva così.... per curiosità. Ed ora a cosa pensi?

Camilla.

Io? a quella povera madre di ieri sera. Aveva l’aria così estenuata, e quando le avete detto se voleva darvi il bambino da allevare, che l’avreste tenuto in luogo di figlio, la povera donna ruppe in pianto esclamando: No, no, Iddio me l’ha dato a me il mio figliolo e voglio tenerlo. Quelle parole mi commossero tutta.

Maria.

Ed io, cara Camilla, arrossii della mia offerta, e compresi esservi nel cuore di quella donna assai più squisitezza di sentimento che nel mio. Ma io non son madre: se lo fossi stata, chi sa forse che non le avessi risparmiata quella domanda.

Camilla.

Come sareste stata buona madre voi, cara zia.

Maria.

Era l’unico voto mio.... Sospiri? l’hai anche tu un voto nel cuore, non è vero?

Camilla.

Io, buona zia? non vi ho detto mai nulla.

Maria.

No, ma in queste tre settimane che sto sempre con te ho potuto indovinare qualche cosa.

Camilla.

Impossibile — e come?

Maria.

Vuoi proprio sapere anche il come? ebbene, senti: un giorno eravamo solette in questa stanza come adesso, discorrevamo di tante cose come adesso, quando entrò il domestico annunciando: Il signor Salvi....

Camilla.

Ah! v’ingannate.... zia.... v’ingannate....

Maria.

A quel nome ti scuotesti tutta, e diventasti rossa, rossa come....

Domestico.

(annunciando). Il signor Salvi.

Maria.

Come adesso, ecco — mi sono ingannata?


SCENA II.

Maria, Camilla, Salvi.

Salvi.

Signora Maria, signorina....

Camilla.

Signore.

Salvi.

La contessa è alzata?

Maria.

Sì, signor Salvi.

Salvi.

Son capitato un po’ per tempo a fine di trovarla prima che scappi a fare le sue visite, le sue passeggiate.

Maria.

Allora andremo a prevenirla, se permettete.

Salvi.

Oh! grazie!


SCENA III.

Enrico, il Barone.


Domestico.

(annunciando). Il signor barone Abati.

Barone.

(entrando con un enorme mazzo di fiori). O piuttosto il suo bouquet.... ma la contessa?

Salvi.

Ecco quello che accade quando si preparano i motti prima d’entrare, la contessa non c’è.

Barone.

(al domestico). Ehi! portate un vaso d’acqua per questi fiori.

Salvi.

Tranquillizzatevi, barone, la contessa verrà tosto, i vostri fiori non appassiranno attendendola.

Barone.

Pure confessatelo, voi, giovanotti dell’oggi, non sapreste presentare ad una dama un bouquet così come facciam noi....

Salvi.

Che pur siete giovanotti dell’ieri. Avete ragione, l’ieri è sempre un gran maestro di educazione.

Domestico.

(entrando con un vaso da fiori). Ecco l’acqua.

Barone.

Bene, bene.

(entra Anna)


SCENA IV

Barone, Salvi, Anna.


Anna.

Oh! in quel mazzo di fiori s’indovina agevolmente una galanteria del barone.

Salvi.

E però s’indovina non meno agevolmente che non è una galanteria del signor Salvi.

Anna.

Vorreste confondermi?

Barone.

Come siete bella quest’oggi, contessa.

Anna.

E voi gentile. E la vostra festa da ballo?... si dice che sarà portentosa.

Barone.

Certo, poichè ci verrete, contessa. Appunto, avrei una grazia da chiedervi.

Anna.

Parlate, barone.

Barone.

Il primo valtz.

Anna.

Oh! la grazia è accordata.

Barone.

Siete buona come un angelo

Anna.

State in guardia, barone, non voglio far gelosa vostra moglie. — Ve n’andate già?

Barone.

Ho ancora molte cosucce a fare. E poi, se devo dire il vero, non son venuto qui che per il valtz.

Anna.

Troppo cortese.

Barone.

I miei ossequi, signora contessa. Signor Salvi, ci vedremo sta sera?

Salvi.

Non so.

Anna.

Ah! ditemi, vi sarà anche il signor Collalto?...

Barone.

Senza fallo.

Salvi.

Ebbene, sì, barone, ci verrò anch’io.

Anna.

A rivederci.

(Il barone esce).


SCENA V.

Salvi e Anna.


Anna.

E uno.

Salvi.

E che calcolate contessa, s’è lecito, con tanta riflessione?

Anna.

Pensavo che ho già il primo valtz impegnato e stavo almanaccando su chi potrò contare per la prima mazurka.

Salvi.

Mi pare che abbiate delle feroci idee di danza per questa sera.

Anna.

Certo. E avrei bisogno d’un bel cavaliere, giovane, disinvolto, che mi compensasse piacevolmente della noia che mi darà il barone colle sue pirouettes del secolo passato. Ci venite voi questa sera, signor Salvi?

Salvi.

Sì, contessa.

Anna.

(parlando a sè stessa). E chi potrebb’essere questo cavaliere?

Salvi.

Non lambiccatevi troppo il cervello, che il cavaliere si troverà senza cercarlo.

Anna.

Oh! v’ingannate davvero. Gli uomini d’oggi sono così selvatici che se noi non li cercassimo un tantino si correrebbe rischio di sonnecchiare tutta la sera sulla nostra scranna. Dunque ci venite voi questa sera, signor Salvi?

Salvi.

Me l’avete già domandato.

Anna.

Per darvene un’idea, sentite questa: Una volta per ballare una misera mazurka ho dovuto fare la corte per venti minuti ad un signore.... e costui fu così malaccorto, che, dopo avermi lasciato consumare vanamente tutte le arti possibili, mi costrinse, per venirne a capo, a invitarlo io medesima.

Salvi.

Inventate delle storielle voi per fare un po’ la modesta. E chi volete che le creda? la bella contessa d’Aqui, la corteggiata contessa d’Aqui che ricorre a tali mezzi per ballare una mazurka! E non avevate pronto subito ai vostri piedi qualche Collalto, contessa? Eh! via! chi volete che lo creda?

Anna.

Certo, per mala sorte, il signor Collalto non c’era: del resto siamo d’accordo, la storiella è incredibile, e non la crederei neppur io se non avessi sott’occhi in questo momento il signore del quale volevo parlare e al quale sto facendo la corte da venti minuti e la cui poca avvedutezza mi sforza pure a dirgli chiaro e tondo: signor Salvi, se non avete impegni per la prima mazurka di questa sera....

Salvi.

A vostra disposizione, contessa.

Anna.

Oh! finalmente v’ho trovato, povero Salvi.

Salvi.

E anzi tutto, cercato. Ma ciò diverge un poco dallo scopo della mia visita.

Anna.

Ah! la vostra visita aveva dunque uno scopo?

Salvi.

Sì, e non quello d’invitarvi a ballare, dovete esservene avveduta; ma un altro assai diverso.

Anna.

Dite pure.

Salvi.

Vorrei prima una promessa: potreste star seria un poco?

Anna.

Ah! c’è qualcosa da ridere allora?

Salvi.

No.

Anna.

S’è così, la vostra raccomandazione è superflua. Sono seria.

Salvi.

Grazie e perdonatemi. La confidenza che sto per farvi mi tocca nel fondo del cuore, e tocca anche voi, contessa.

Anna.

Animo dunque, son seria, Salvi; guardate.

Salvi.

(con commozione). Sto per dirvi una parola che forse vi giungerà inattesa. Preparatevi.

Anna.

Signor Salvi, che avete?... vi prego.... badate.... è cosa ch’io possa sentire?...

Salvi.

E che importa. — Ciò che dico è onesto, e lo dico altamente: Amo vostra figlia, signora, me l’accordate in isposa?

Anna.

(ridendo). Ah! ah! ah! ah! Confesso che non m’ero preparata abbastanza....

Salvi.

Me ne sono accorto.

Anna.

Perdonate la mia ilarità, ve ne prego, ma non posso frenarmi.

Salvi.

Continuate, signora, e vogliate perdonare la mia serietà.

Anna.

Basta. Non prolungate lo scherzo, potrebbe, a lungo andare, riuscire noioso: il mio l’ho saputo finire a tempo, prima che degenerasse in insolenza.

Salvi.

Non credevo che il chiedere ad una madre la figlia in isposa fosse farle un’insolenza. Del resto sappiate che ciò che v’ho detto è vero, è sacro.... Pure per non farvi andare in collera non parliamone più, contessa, perchè il momento non mi pare troppo opportuno. E crediate che questa piccola scaramuccia non deve mutare per nulla i nostri impegni per questa sera.

Anna.

Che impegni?

Salvi.

Come? ve ne siete già dimenticata? parlo, contessa, della prima mazurka che avrò l’onore di ballare con voi

(per andarsene).


SCENA VI.

Anna, Matilde, Salvi.


Domestico.

(annunciando). Donna Foschi.

Anna.

Oh! siate la benvenuta, cara Matilde: come state?

Matilde.

Come sto? domandatelo al mio avvocato il quale sta per prender la fuga vedendomi arrivare. — Cattivo auspicio, non è vero?

Salvi.

Non lo so. Del resto sappiate che m’indirizzavo appunto a casa vostra.

Matilde.

A casa mia?

Salvi.

, per affari d’importanza.

Matilde.

Se la è così, andiamocene; perdonate, amica, ma sono affari d’importanza.

Salvi.

No, non pigliatevi tanta briga, signora.

Anna.

Il signor Salvi ha ragione, mia cara, questa è casa vostra.

Salvi.

Vedete, la contessa è tanto gentile....

Matilde.

Ma....

Anna.

Io mi ritiro nel mio gabinetto di toilette, avete tempo due ore da chiacchierare.

Salvi.

Vedete, la contessa si ritira; approfittiamone.

(Anna esce).

SCENA VII.

Matilde, Salvi.

Matilde.

(siede). Siete contento ora?

Salvi.

Di che?

Matilde.

D’avere schivato così di por piede in casa mia?

Salvi.

Ditemi in verità, vi son forse dei trabocchetti in casa vostra?

Matilde.

Cioè?

Salvi.

Nulla, è un sospetto che mi è venuto poc’anzi nel vedere la ferocia colla quale provocate le persone ad entrarvi.

Matilde.

Finiamola.

Salvi.

Finiamola pure. Tanto più che ho fretta di dirvi....

Matilde.

Oh! prevedo già quel che avete fretta di dirmi: una cattiva nuova, certo.

Salvi.

Una cattiva nuova; temo che abbiate indovinato.

Matilde.

Oh! che c’è....?

Salvi.

La sentenza

Matilde.

È pronunciata?...

Salvi.

No, lo sarà domani, ma è nota....

Matilde.

E.... ho perduto?...

Salvi.

No, avete vinto! siete divisa da vostro marito, e la dote è salvata.

Matilde.

Ah! respiro.

Salvi.

Respirate pure.

Matilde.

Come provarvi la mia gratitudine, Enrico, come provarvi la mia riconoscenza!

Salvi.

Col non parlarmene più.

Matilde.

No, vedrete col tempo ch’io non dimentico i benefizj ricevuti, Enrico: già il cuore me lo diceva d’affidarmi a voi; siete il primo avvocato d’Italia.

Salvi.

Vi prego, signora, vi sono certe lodi che fanno arrossire come gl’insulti.

Matilde.

Eh via! non arrossite, pudico. Ora che il processo è finito spero che ritorneremo buoni amici come prima. Che comodità, essere libera, libera come una vedova, senza la noja.... (ravvedendosi) e il dolore del lutto. Ho già steso tutto il piano della mia Vita Nuova; domani ve ne farò parte; questa sera saprete il mio nuovo domicilio; ho intenzione di passare la primavera in Brianza, in quella cara Brianza, Enrico!...

Salvi.

Vi saluto, signora; a casa vostra troverete un plico contenente alcuni vostri documenti, che tengo ancora fra mani, e un bigliettino.

Matilde.

Un bigliettino?....

Salvi.

Sì.... è la polizza dell’avvocato; tre o quattro cento franchi tutt’al più: adesso siete diventata così ricca!

Matilde.

Dunque è proprio vero che non mi amate più, Enrico.

Salvi.

E naturale, vi mando la polizza.

Matilde.

Ah! — Io che pure speravo non avervi perduto, Enrico, io che per raccostarmi più a voi, che amavo e amo ancora, volli legarvi coi nodi di questo sgraziato processo — poichè ora non ve la nascondo più questa idea, buona o malvagia che sia, questa idea che mi fu forza mascherare colla larva dell’indifferenza per non irritare la vostra singolare fantasia esaltata dagli scrupoli — io che attesi con ansia il giorno in cui potervi dire: Enrico, torniamo amici come prima; io ora mi vedo pagata da voi col sarcasmo più crudele, colla più amara parola. E perchè difendermi allora, vi domanderò, perchè farmi ricca e libera se non mi amate più? Dell’amor vostro che ne avete fatto, Enrico?

Salvi.

L’ho metamorfosato in atti giudiziari, e in carta bollata, credendo che vi riuscisse più utile.

Matilde.

Lo so io quel che ne avete fatto (alzando un po’ la voce.) L’amor vostro l’avete dato ad un’altra, sì, ad un’altra, (Salvi fa un gesto) ed eccovi tutto pauroso perchè temete che costei che me l’ha rubato possa udirmi! perchè costei, signore, sta in questa casa, lo so. Oh! avvocato mio, vi confondete; credevate potermi abbandonare così per un’altra, e soffocarmi la collera con un miserabile processo che mi date vinto?

Salvi.

Su, andiamo, un po’ di senno signora. Una donna che ha marito dev’essere certo abbandonata un giorno, a meno che.... l’altro... non sia tanto forte o pazzo da rinunciare per essa alla più cara parte dell’esistenza. — Sappiate che non sono nè così forte, nè così pazzo.

Matilde.

Oh! vani artifizj, signor avvocato! non datemi a credere che volete ammogliarvi. Io poc’anzi parlavo della contessa d’Acqui, (Salvi fa un moto di sorpresa) mi capite ora soltanto?

Salvi.

Non una parola di più su quest’argomento: abbenchè io non vi debba nessuna giustificazione, pure vi dico, che il vostro sospetto è falso. Vi saluto.

Matilde.

Enrico, Enrico, e partite, e lasciate così una donna dopo averla perduta? Eccomi sola, Enrico, giovane, libera, senza un appoggio al mondo, senza un ajuto al mondo, e ciò per amor vostro....

Salvi.

Vi compiango, Matilde.

Matilde.

(con collera). Che? che cosa avete detto?

Salvi.

Vi compiango, signora, perchè sapete troppo fingere. Pure se posso rendervi qualche servigio, ve lo renderò. Io sono il solo che possa dirvi la verità, e ve la dico; tenetene conto, perocchè non la sentirete più tanto sovente nelle sale, questa verità. Domani tutta Milano v’avrà condannata, ma non uno oserà dirvelo in viso. E nel vostro piano di vita nuova avete pensato bene a ciò che farete domani? Cangerete domicilio, andrete in Brianza; ma del vostro onore, della vostra bambina che ne farete voi? oh! a ciò non avete ancora pensato. La separazione, signora, è una grave e triste fatalità, e non è gaio il giorno che si abbandona la casa del marito. E conviene che una madre abbia assai sofferto e soffocato immensi dolori prima d’aver il diritto di staccare i suoi figli dal loro padre!

Matilde.

Ebbene, che il padre reclami sua figlia ed io gliela cedo.

Salvi.

Oh! aspettate quando la vostra figliuola avrà sedici anni, e che l’aureola della sua giovinezza farà impallidire l’artifizio delle vostre grazie. Allora cedetela al padre, ch’ei ve la nasconderà bene, povera fanciulla.

Matilde.

Che volete voi dire?

Salvi.

Oh! perdonate, perdonate all’ironia che m’è ricomparsa involontariamente sul labbro; essa partiva da un amaro pensiero che mi si è desto nel cuore. Avrei dovuto dirvi con parola buona e sincera: Matilde, siate madre affettuosa, amate la vostra figliuola, conservate per essa la vostra ricchezza, ritiratevi con essa fuori della folla se volete che la folla non impari a schernirvi e spregiarvi e, quel ch’è peggio, unendo in uno stesso disprezzo la madre e la figlia!

Matilde.

Signore.

Salvi.

Ah! comprendo.... Avrei fatto meglio a tacere?

Matilde.

Certo. Non vi chiedevo consigli. — Siete libero, seguite pure i vostri capricci, da alcuni minuti mi siete diventato indifferente; ma non crediate già ch’io vi dimentichi; mi ricorderò di voi, perchè mi avete molto offesa. — Andate.

Salvi.

Scusate — non essendo qui in casa vostra....

Matilde.

Allora me n’andrò io, signore. — Non voglio che in questa casa mi si legga in viso.... che s’indovini.... che si commenti. — Capirete bene!

Salvi.

No, no; non incomodatevi, signora, se desiderate ciò, lasciatemi escire pel primo. Son troppo di cattivo umore per dissimularlo facendo una commedia: ne affido la parte a voi. (esce).


SCENA VIII.

Anna, Maria, e detto


Anna.

(entrando). Sola?

Matilde.

Anna.

Che c’è di nuovo, Matilde?

Matilde.

Ho vinto il processo, domani uscirà la sentenza: vi raccomando il segreto fino a domani.

Anna.

Non dubitate. Vi fo le mie congratulazioni.

Matilde.

Oh! sono addolorata! È triste assai il giorno che si abbandona la casa del marito. Cangerò domicilio, vorrei trovarmi una casetta tranquilla. Questa primavera viaggerò per isvagarmi, in Francia o in Inghilterra.

Anna.

Brava, Matilde. Ma permettete che vi presenti la signora Senesi, mia cognata: Donna Foschi, una mia cara amica.

Matilde.

(con un inchino). Signora.

Maria.

(un altro inchino). Signora.

Anna.

Oh! ditemi. Matilde, come vi vestite stasera per la festa?

Matilde.

Ci verrà il signor Salvi?

Anna.

Sì. Io vestirò tutta in rosa.

Matilde.

Sarò in rosa anch’io con una parure d’opale

Anna.

Potrebbe darsi però ch’io mi mettessi in bianco colla mia corona di perle.

Matilde.

E forse sarò in bianco anch’io con un diadema di diamanti che ho in vista e che voglio comperare ad ogni costo.

Anna.

Rivaleggiamo, signora, a quel che pare.

Matilde.

Troppo onore! Ma non ho tempo da rimanermi. A rivederci.

Anna.

A questa sera.


SCENA IX.

Anna, Maria.


Anna.

(suona il campanello: entra la cameriera). Voglio per questa sera il mio vestito giallo: lo guernirete di fresco con quei merletti di Venezia che ho comperato ieri. Avviserete il gioielliere che si rechi tosto da me. Se temete di non poter finire in tempo il lavoro, Camilla v’aiuterà.

Maria.

Camilla sta cucendo un abitino per un nostro poverello.

Anna.

Non monta, ditele che sua madre glielo comanda e che preme (la cameriera esce). Nella nostra società, cognata, la carità è il superfluo, il lusso è il necessario.

Maria.

Dite una frase crudele.

Anna.

Eh! che volete, cognata. Siamo tutti poverelli ad un modo e questa grande società ha anch’essa le sue indigenze. Se io non mi ponessi stasera un nuovo adornamento sul capo sarei più miserabile del vostro mendicante. Non la conoscete voi la nostra società?

Maria.

L’ho conosciuta molto quand’ero giovane la vostra società, e mi ricordo che fino all’età dei ventitrè anni le ho dette anch’io queste follie, perchè allora correvo ridente per le sale da ballo, e, mi ricordo, anche questo, ci siam molte volte sfilate accanto nella furia dei valtz, e ballavamo bene assai tutt’e due. Ma dacchè mi son maritata non ho più ballato, e dacchè son rimasta vedova non sono entrata più nelle sale del mondo.

Anna.

Io invece ballo ancora.

Maria.

È naturale. Siete bella, non avete mai pianto e però vi siete conservata giovane; io invece.... i dolori m’hanno invecchiata. Pure una madre, sia pur bella, giovine, felice, deve ballar poco.

Anna.

Avete delle idee di riforma, cara cognata; ma la vostra riforma capaciterà poco e pochi; non sapete che oggi ballano più le madri che le ragazze? Quella signora che vi ho presentato, ha una figliuola, è divisa dal marito, e pur balla, e balla assai, ve lo assicuro. E poi è usanza, è moda; tutte fanno così.

Maria.

E i figli intanto?

Anna.

I figli? sono a balia, o al collegio, o in convento.

Maria.

Tolga Iddio che ciò sia, signora. Pensate un po’ che mai avverrebbe d’una generazione che non avesse conosciuto le cure materne! Credete voi che i doveri d’una madre si restringano nel dare alla figliuola una sana nutrice, poi una saggia istitutrice, e nel porla più tardi in convento od in collegio, e nell’apparecchiarle finalmente un bel corredo da sposa? V’ha tutta una educazione che le fanciulle non ponno imparare che nell’amoroso consorzio della madre.

Anna.

È forse un rimprovero codesto?

Maria.

No; ma se io avessi una figlia come Camilla porrei in essa tutto il mio amore, tutto il mio orgoglio, studierei giorno e notte quel suo bel coricino, quella sua anima candida, e se una volta mi fosse dato scuoprirvi una buona simpatia, me la mariterei e sarei felice tanto, e ne’ suoi figliuoli ringiovanirebbe la mia vecchiezza.

Anna.

Oh! grazie al cielo, siamo ancora lontani.

Maria.

Men di quanto credete.

Anna.

Cioè?

Maria.

La simpatia c’è già, e l’ho scoperta io....

Anna.

Impossibile!

Maria.

Sì, un bravissimo giovine, il signor Salvi....

Anna.

Ah! ora capisco, siete anche voi della congiura. (suona il campanello).

Maria.

Io non sono d’alcuna congiura; se ho parlato così gli è perchè mia nipote è la più cara affezione che mi sia rimasta in terra.

(entra una cameriera).

Anna.

Fate venir Camilla, (alla cameriera). — Volevo appunto darle una lezioncina intorno a quel signor Salvi. Avete fatto bene a rammentarmelo.

Maria.

Ve ne supplico, non affliggetela.

Anna.

State tranquilla, cognata; questo anzi vi provi com’io pensi a mia figlia.

Maria.

Se permettete allora mi ritiro.

(esce.)

SCENA X.

Anna, Camilla.

Camilla.

Eccomi, hai ancora qualcosa da comandarmi?

Anna.

No. — Dobbiamo discorrere un po’ insieme.

Camilla.

Discorrere insieme, madre mia?

Anna.

Sì; e perchè tanto stupore?

Camilla.

È già tanto tempo che non discorriamo insieme.

Anna.

Perchè da qualche tempo amate più fantasticare che discorrere. — Del resto il discorso che devo farvi è breve: domani entrerete in convento.

Camilla.

Vuoi farmi monaca? Mamma.... se vuoi farmi monaca mettimi nelle Suore di carità, te ne prego.

Anna.

Non si tratta di ciò, si tratta di porvi in convento per un paio d’anni a fine di farvi sloggiar dal cervello alcune vostre affezioni.

Camilla.

Vuoi dunque uccidermi il cuore.... no, no. Allora, quando non t’amassi più, che mi resterebbe sulla terra?

Anna.

Eh! parlo di certe altre affezioni, di cui dovreste aver vergogna.

Camilla.

E ci son tali affezioni? io non ne ho.

Anna.

(alzando la voce con collera). Bugiarda! (Camilla si copre il viso con le mani, e piange).


SCENA XI.

Anna, camilla, Conte, Maria.


Conte.

(entrando). Che c’è, Camilla?

Camilla.

Babbo.

Anna.

Vostro padre viene a tempo, signorina, a tempo per udire una piacevolissima storiella. — Immaginatevi che questa mattina il signor Salvi m’ha chiesto la mano di madamigella. Ah! ah! io mi son messa a ridere.

Camilla.

Mia zia! (si getta nelle braccia di Maria).

Conte.

(serio). Alcuni giorni fa, Salvi ha chiesto a me pure la mano di mia figlia, e non mi son messo a ridere.

Anna.

Come? vorreste forse difenderla? sta a vedere che oggi si maritano le bimbe. Io per me ho fermato di mandare Camilla in convento.

Conte.

Oh! su questo proposito come su quell’altro parleremo un po’ insieme, signora.

Camilla.

(al conte). Non andare in collera colla mamma.

Anna.

(con collera crescente). Al convento, al convento! là imparerà la modestia, là imparerà a non fare la sguaiatella co’ giovani, poichè io non soffrirò mai che si possa dir di mia figlia che fa le moine col tale o col tal’altro, capite? Perchè io in casa mia non voglio civetterie di sorta.

Conte.

(con severità). Anna.

Maria.

Cognata.

Anna.

E che? non potrò dare ammaestramenti a mia figlia? Al convento! La civetteria, sapete Camilla, è brutta cosa; tenetevela in mente questa parola di vostra madre.

Camilla.

Ti giuro che non so di che parli.

Anna.

Ah! non sapete di che parlo, carina? non sapete che l’alzare gli occhi quand’entra un giovane in una stanza, e l’andargli incontro festevole, e lo stringerli la mano, e il fargli smorfie e dolcezze e promesse, non sapete che ciò si chiama civetteria?

Conte.

(C. s.). Basta.

Domestico.

(annunziando). Il signor Collalto.

Anna.

Andatevene (a Camilla).

Conte.

No, rimani (a Camilla).


SCENA XII

Conte, Anita, Camilla, Maria, Collalto.


Anna.

(andandogli incontro con molta affabilità e sorridente). Oh! signor Collalto!

Collalto.

Contessa, permettete che deponga questi fiori?

Anna.

(stringendogli la mano). Oh! siete molto gentile, grazie, Collalto (osservando il mazzo di fiori). Delle rose, delle camelie! delle viole! siete molto gentile.

Collalto.

Dite piuttosto che sono un raffinato speculatore. — Potrei aspirare all’onore di ballare con voi stasera il primo valtz?

Anna.

Oh! certo! di tutto cuore. Sedete, ve ne prego.

Conte.

(prendendo una sedia, e chinandosi verso Anna, piano a lei). E questa, Anna, cosa è?



Cala la tela

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