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Capo IX.
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Povero mio cuore! tu ami sì facilmente e sì caldamente, ed oh a quante separazioni sei già stato condannato! Questa non fu certo la men dolorosa; e la sentii tanto più che il nuovo mio alloggio era tristissimo. Una stanzaccia, oscura, lurida, con finestra avente non vetri alle imposte, ma carta, con pareti contaminate da goffe pitturacce di colore, non oso dir quale; e ne’ luoghi non dipinti erano iscrizioni. Molte portavano semplicemente nome, cognome e patria di qualche infelice, colla data del giorno funesto della sua cattura. Altre aggiungeano esclamazioni contro falsi amici, contro se stesso, contro una donna, contro il giudice, ec. Altre erano compendi d’autobiografia. Altre contenevano sentenze morali. V’erano queste parole di Pascal:
«Coloro che combattono la religione imparino almeno qual ella sia, prima di combatterla. Se questa religione si vantasse d’avere una veduta chiara di Dio, e di possederlo senza velo, sarebbe un combatterla il dire, che non si vede niente nel mondo che lo mostri con tanta evidenza. Ma poichè dice, anzi, essere gli uomini nelle tenebre e lontani da Dio, il quale s’è nascosto alla loro cognizione, ed essere appunto il nome ch’egli si dà nelle Scritture, Deus absconditus... qual vantaggio possono essi trarre, allorchè nella negligenza che professano quanto alla scienza della verità, gridano che la verità non vien loro mostrata?»
Più sotto era scritto (parole dello stesso autore):
«Non trattasi qui del lieve interesse di qualche persona straniera; trattasi di noi medesimi e del nostro tutto. L’immortalità dell’anima è cosa, che tanto importa e che toccaci sì profondamente, che bisogna aver perduto ogni senno per essere nell’indifferenza di saper che ne sia».
Un altro scritto diceva:
«Benedico la prigione, poichè m’ha fatto conoscere l’ingratitudine degli uomini, la mia miseria, e la bontà di Dio».
Accanto a queste umili parole erano le più violente e superbe imprecazioni d’uno che si diceva ateo, e che si scagliava contro Dio come se si dimenticasse di aver detto che non v’era Dio.
Dopo una colonna di tai bestemmie, ne seguiva una di ingiurie contro i vigliacchi, così li chiamava egli, che la sventura del carcere fa religiosi.
Mostrai quelle scelleratezze ad uno de’ secondini, e chiesi chi l’avesse scritte. — Ho piacere d’aver trovata quest’iscrizione, disse: ve ne son tante, ed ho sì poco tempo da cercare! —
E senz’altro, diessi con un coltello a grattare il muro per farla sparire.
— Perchè ciò? dissi.
— Perchè il povero diavolo che l’ha scritta, e fu condannato a morte per omicidio premeditato, se ne pentì, e mi fece pregare di questa carità.
— Dio gli perdoni! sclamai. Qual omicidio era il suo?
— Non potendo uccidere un suo nemico, si vendicò uccidendogli il figlio, il più bel fanciullo che si desse sulla terra. —
Inorridii. A tanto può giungere la ferocia? E siffatto mostro teneva il linguaggio insultante d’un uomo superiore a tutte le debolezze umane! Uccidere un innocente! un fanciullo!