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Capo LIV.
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Quelli ch’erano stati condannati avanti noi, erano già partiti per Lubiana e per lo Spielberg, accompagnati da un commissario di polizia. Ora aspettavasi il ritorno del medesimo commissario, perchè conducesse noi al destino nostro. Questo intervallo durò un mese.
La mia vita era allora, di molto favellare ed udir favellare, per distrarmi. Inoltre Maroncelli mi leggeva le sue composizioni letterarie, ed io gli leggeva le mie. Una sera lessi dalla finestra l’Ester d’Engaddi a Canova, Rezia ed Armari; e la sera seguente l’Iginia d’Asti.
Ma la notte io fremeva e piangeva, e dormiva poco o nulla.
Bramava, e paventava ad un tempo, di sapere come la notizia del mio infortunio fosse stata ricevuta da’ miei parenti.
Finalmente venne una lettera di mio padre. Qual fu il mio dolore, vedendo che l’ultima da me indirittagli non gli era stata spedita subito, come io avea tanto pregato l’inquisitore! L’infelice padre, lusingatosi sempre che sarei uscito senza condanna, presa un giorno la gazzetta di Milano, vi trovò la mia sentenza! Egli stesso mi narrava questo crudele fatto, e mi lasciava immaginare quanto l’anima sua ne rimanesse straziata.
Oh come, insieme all’immensa pietà che sentii di lui, della madre, e di tutta la famiglia, arsi di sdegno, perchè la lettera mia non fosse stata sollecitamente spedita! Non vi sarà stata malizia in questo ritardo, ma io la supposi infernale; io credetti di scorgervi un raffinamento di barbarie, un desiderio che il flagello avesse tutta la gravezza possibile anche per gl’innocenti miei congiunti. Avrei voluto poter versare un mare di sangue, per punire questa sognata inumanità.
Or che giudico pacatamente, non la trovo verisimile. Quel ritardo non nacque, senza dubbio, da altro che da non curanza.
Furibondo qual io era, fremetti udendo che i miei compagni si proponeano di far la Pasqua prima di partire, e sentii ch’io non dovea farla, stante la niuna mia volontà di perdonare. Avessi dato questo scandalo!