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Capo LV.
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Il commissario giunse alfine di Germania, e venne a dirci che fra due giorni partiremmo.
— Ho il piacere, soggiunse, di poter dar loro una consolazione. Tornando dallo Spielberg, vidi a Vienna S.M. l’Imperatore, il quale mi disse che i giorni di pena di lor signori, vuol valutarli non di 24 ore, ma di 12. Con questa espressione intende significare, che la pena è dimezzata.
Questo dimezzamento non ci venne poi mai annunziato officialmente, ma non v’era alcuna probabilità che il commissario mentisse; tanto più che non ci diede già quella nuova in segreto, ma conscia la Commissione.
Io non seppi neppur rallegrarmene. Nella mia mente erano poco meno orribili sett’anni e mezzo di ferri, che quindici anni. Mi pareva impossibile di vivere sì lungamente.
La mia salute era di nuovo assai misera. Pativa dolori di petto gravi, con tosse, e credea lesi i polmoni. Mangiava poco, e quel poco nol digeriva.
La partenza fu nella notte tra il 25 ed il 26 marzo. Ci fu permesso d’abbracciare il dottor Cesare Armari nostro amico. Uno sbirro c’incatenò trasversalmente la mano destra ed il piede sinistro, affinchè ci fosse impossibile fuggire. Scendemmo in gondola, e le guardie remigarono verso Fusina.
Ivi giunti, trovammo allestiti due legni. Montarono Rezia e Canova nell’uno; Maroncelli ed io nell’altro. In uno de' legni era co’ due prigioni il commissario, nell’altro un sotto-commissario cogli altri due. Compivano il convoglio sei o sette guardie di polizia, armate di schioppo e sciabola, distribuite parte dentro i legni, parte sulla cassetta del vetturino.
Essere costretto da sventura ad abbandonare la patria è sempre doloroso, ma abbandonarla incatenato, condotto in climi orrendi, destinato a languire per anni fra sgherri, è cosa sì straziante che non v’ha termini per accennarla!
Prima di varcare le Alpi, vieppiù mi si facea cara d’ora in ora la mia nazione, stante la pietà che dappertutto ci dimostravano quelli che incontravamo. In ogni città, in ogni villaggio, per ogni sparso casolare, la notizia della nostra condanna essendo già pubblica da qualche settimana, eravamo aspettati. In parecchi luoghi, i commissarii e le guardie stentavano a dissipare la folla che ne circondava. Era mirabile il benevolo sentimento che veniva palesato a nostro riguardo.
In Udine ci accadde una commovente sorpresa. Giunti alla locanda, il commissario fece chiudere la porta del cortile e respingere il popolo. Ci assegnò una stanza, e disse ai camerieri che ci portassero da cena e l’occorrente per dormire. Ecco un istante appresso entrare tre uomini, con materassi sulle spalle. Qual è la nostra meraviglia, accorgendoci che solo uno di loro è al servizio della locanda, e che gli altri sono due nostri conoscenti! Fingemmo d’aiutarli a por giù i materassi, e toccammo loro furtivamente la mano. Le lagrime sgorgavano dal cuore ad essi ed a noi. Oh quanto ci fu penoso di non poterle versare tra le braccia gli uni degli altri!
I commissarii non s’avvidero di quella pietosa scena, ma dubitai che una delle guardie penetrasse il mistero, nell’atto che il buon Dario mi stringeva la mano. Quella guardia era un veneto. Mirò in volto Dario e me, impallidì, sembrò tentennare se dovesse alzar la voce, ma tacque, e pose gli occhi altrove, dissimulando. Se non indovinò che quelli erano amici nostri, pensò almeno che fossero camerieri di nostra conoscenza.