< Le mie prigioni
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Cap LV Cap LVII


Capo LVI.

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Il mattino partivamo d’Udine, ed albeggiava appena: quell’affettuoso Dario era già nella strada, tutto mantellato; ci salutò ancora, e ci seguì lungo tempo. Vedemmo anche una carrozza venirci dietro per due o tre miglia. In essa qualcheduno facea sventolare un fazzoletto. Alfine retrocesse. Chi sarà stato? Lo supponemmo.

Oh Iddio benedica tutte le anime generose, che non s’adontano d’amare gli sventurati! Ah, tanto più le apprezzo, dacchè, negli anni della mia calamità, ne conobbi pur di codarde, che mi rinnegarono, e credettero vantaggiarsi, ripetendo improperii contro di me. Ma quest’ultime furono poche, ed il numero delle prime non fu scarso.

M’ingannava, stimando che quella compassione che trovavamo in Italia, dovesse cessare, laddove fossimo in terra straniera. Ah il buono è sempre compatriota degl’infelici! Quando fummo in paesi illirici e tedeschi avveniva lo stesso che ne’ nostri. Questo gemito era universale: arme Herren! (poveri signori!) Talvolta entrando in qualche paese, le nostre carrozze erano obbligate di fermarsi, avanti di decidere dove s’andasse ad alloggiare. Allora la popolazione si serrava intorno a noi, ed udivamo parole di compianto che veramente prorompevano dal cuore. La bontà di quella gente mi commoveva più ancora, di quella de’ miei connazionali. Oh come io era riconoscente a tutti! Oh quanto è soave la pietà de’ nostri simili! Quanto è soave l’amarli!

La consolazione ch’io indi traea, diminuiva persino i miei sdegni contro coloro ch’io nomava miei nemici.

— Chi sa, pensavo io, se vedessi da vicino i loro volti, e s'essi vedessero me, e se potessi leggere nelle anime loro, ed essi nella mia, chi sa ch’io non fossi costretto a confessare non esservi alcuna scelleratezza in loro; ed essi, — non esservene alcuna in me! chi sa che non fossimo costretti a compatirci a vicenda e ad amarci! —

Pur troppo sovente gli uomini s’abborrono, perchè reciprocamente non si conoscono; e se scambiassero insieme qualche parola, uno darebbe fiducialmente il braccio all’altro.

Ci fermammo un giorno a Lubiana, ove Canova e Rezia furono divisi da noi, e condotti nel castello; è facile immaginarsi quanto questa separazione fosse dolorosa per tutti quattro.

La sera del nostro arrivo a Lubiana ed il giorno seguente, venne a farci cortese compagnia un signore che ci dissero, se io bene intesi, essere un segretario municipale. Era molto umano, e parlava affettuosamente e dignitosamente di religione. Dubitai che fosse un prete: i preti in Germania sogliono vestire affatto come secolari. Era di quelle facce sincere che ispirano stima: m’increbbe di non poter fare più lunga conoscenza con lui, e m’incresce d’avere avuto la storditezza di dimenticare il suo nome.

Quanto dolce mi sarebbe anche di sapere il tuo nome, o giovinetta, che in un villaggio della Stiria ci seguisti in mezzo alla turba, e poi quando la nostra carrozza dovette fermarsi alcuni minuti, ci salutasti con ambe le mani, indi partisti col fazzoletto agli occhi, appoggiata al braccio d’un garzone mesto, che alle chiome biondissime parea tedesco, ma che forse era stato in Italia ed avea preso amore alla nostra infelice nazione!

Quanto dolce mi sarebbe di sapere il nome di ciascuno di voi, o venerandi padri e madri di famiglia, che in diversi luoghi vi accostaste a noi per dimandarci se avevamo genitori, ed intendendo che sì, impallidivate esclamando: oh, restituiscavi presto Iddio a que’ miseri vecchi!

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