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Capo LVIII.
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Acerbissima cosa, dopo aver già detto addio a tanti oggetti, quando non si è più che in due amici, egualmente sventurati, ah sì! acerbissima cosa è il dividersi! Maroncelli nel lasciarmi, vedeami infermo, e compiangeva in me un uomo ch’ei probabilmente non vedrebbe mai più: io compiangea in lui un fiore splendido di salute, rapito forse per sempre alla luce vitale del sole. E quel fiore infatti oh come appassì! Rivide un giorno la luce, ma oh in quale stato!
Allorchè mi trovai solo in quell’orrido antro, e intesi serrarsi i catenacci, e distinsi al barlume che discendeva da alto finestruolo, il nudo pancone datomi per letto ed un enorme catena al muro, m’assisi fremente su quel letto, e presa quella catena, ne misurai la lunghezza, pensando fosse destinata per me.
Mezz’ora dappoi, ecco stridere le chiavi; la porta s’apre: il capo-carceriere mi portava una brocca d’acqua.
— Questo è per bere, disse con voce burbera; e domattina porterò la pagnotta.
— Grazie, buon uomo.
— Non sono buono, riprese.
— Peggio per voi, gli dissi sdegnato. — E questa catena, soggiunsi, è forse per me?
— Sì, signore, se mai ella non fosse quieta, se infuriasse, se dicesse insolenze. Ma se sarà ragionevole, non le porremo altro, che una catena a’ piedi. Il fabbro la sta apparecchiando.
Ei passeggiava lentamente su e giù, agitando quel villano mazzo di grosse chiavi, ed io con occhio irato mirava la sua gigantesca, magra, vecchia persona; e, ad onta de’ lineamenti non volgari del suo volto, tutto in lui mi sembrava l’espressione odiosissima d’un brutale rigore!
Oh come gli uomini sono ingiusti, giudicando dall’apparenza, e secondo le loro superbe prevenzioni! Colui ch’io m’immaginava agitasse allegramente le chiavi, per farmi sentire la sua trista podestà, colui ch’io riputava impudente per lunga consuetudine d’incrudelire, volgea pensieri di compassione, e certamente non parlava a quel modo con accento burbero, se non per nascondere questo sentimento. Avrebbe voluto nasconderlo, a fine di non parer debole, e per timore ch’io ne fossi indegno; ma nello stesso tempo supponendo che forse io era più infelice che iniquo, avrebbe desiderato di palesarmelo.
Nojato della sua presenza, e più della sua aria da padrone, stimai opportuno d’umiliarlo, dicendogli imperiosamente, quasi a servitore:
— Datemi da bere. —
Ei mi guardò, e parea significare: — Arrogante! qui bisogna divezzarsi dal comandare.
Ma tacque, chinò la sua lunga schiena, prese in terra la brocca, e me la porse. M’avvidi pigliandola, ch’ei tremava, e attribuendo quel tremito alla sua vecchiezza, un misto di pietà e di reverenza temperò il mio orgoglio.
— Quanti anni avete? gli dissi con voce amorevole.
— Settantaquattro, signore: ho già veduto molte sventure e mie ed altrui. —
Questo cenno sulle sventure sue ed altrui fu accompagnato da nuovo tremito, nell’atto ch’ei ripigliava la brocca; e dubitai fosse effetto, non della sola età, ma d’un certo nobile perturbamento. Siffatto dubbio cancellò dall’anima mia l’odio che il suo primo aspetto m’aveva impresso.
— Come vi chiamate? gli dissi.
— La fortuna, signore, si burlò di me, dandomi il nome d’un grand’uomo. Mi chiamo Schiller. —
Indi in poche parole mi narrò qual fosse il suo paese, quale l’origine, quali le guerre vedute, e le ferite riportate.
Era svizzero, di famiglia contadina: avea militato contro a’ Turchi sotto il general Laudon a’ tempi di Maria Teresa e di Giuseppe II, indi in tutte le guerre dell’Austria contro alla Francia, sino alla caduta di Napoleone.