< Le mie prigioni
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Cap LX Cap LXII


Capo LXI.

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La mattina del giovedì, dopo una pessima notte, indebolito, rotte le ossa dalle tavole, fui preso da abbondante sudore. Venne la visita. Il soprintendente non v’era: siccome quell’ora gli era incomoda, ei veniva poi alquanto più tardi.

Dissi a Schiller: — Sentite come sono inzuppato di sudore; ma già mi si raffredda sulle carni; avrei bisogno subito di mutar camicia.

— Non si può! gridò con voce brutale. —

Ma fecemi secretamente cenno cogli occhi e colla mano. Usciti il caporale e le guardie, ei tornò a farmi un cenno, nell’atto che chiudeva la porta.

Poco appresso ricomparve, portandomi una delle sue camicie, lunga due volte la mia persona.

— Per lei, diss’egli, è un po’ lunga, ma or qui non ne ho altre.

— Vi ringrazio, amico, ma siccome ho portato allo Spielberg un baule pieno di biancheria, spero che non mi si ricuserà l’uso delle mie camicie: abbiate la gentilezza d’andare dal soprintendente a chiedere una di quelle.

— Signore, non è permesso di lasciarle nulla della sua biancheria. Ogni sabbato le si darà una camicia della casa, come agli altri condannati.

— Onesto vecchio, dissi, voi vedete in che stato sono; è poco verisimile ch’io esca vivo di qui: non potrò mai ricompensarvi di nulla.

— Vergogna, signore! sclamò, vergogna! Parlare di ricompensa a chi non può rendere servigi! a chi appena può imprestare furtivamente ad un infermo di che asciugarsi il corpo grondante di sudore! —

E gettatami sgarbatamente addosso la sua lunga camicia, se n’andò brontolando, e chiuse la porta con uno strepito da arrabbiato.

Circa due ore più tardi mi portò un tozzo di pan nero.

— Questa, disse, è la porzione per due giorni.

Poi si mise a camminare fremendo.

— Che avete? gli dissi. Siete in collera con me? Ho pure accettata la camicia che mi favoriste.

— Sono in collera col medico, il quale, benchè oggi sia giovedì, potrebbe pur degnarsi di venire!

— Pazienza!, dissi.

Io diceva "Pazienza!" ma non trovava modo di giacer così sulle tavole, senza neppure un guanciale: tutte le mie ossa doloravano.

Alle ore undici, mi fu portato il pranzo da un condannato, accompagnato da Schiller. Componevano il pranzo due pentolini di ferro, l’uno contenente una pessima minestra, l’altro legumi conditi con salsa tale, che il solo odore metteva schifo.

Provai d’ingojare qualche cucchiajo di minestra: non mi fu possibile.

Schiller mi ripeteva: — Si faccia animo; procuri d’avvezzarsi a questi cibi; altrimenti le accadrà, come è già accaduto ad altri, di non mangiucchiare se non un po’ di pane, e di morir quindi di languore. —

Il venerdì mattina, venne finalmente il dottor Bayer. Mi trovò febbre, m’ordinò un pagliericcio, ed insistè perch’io fossi tratto di quel sotterraneo e trasportato al piano superiore. Non si poteva, non v’era luogo. Ma fattone relazione al conte Mitrowsky, governatore delle due provincie, Moravia e Slesia, residente in Brünn, questi rispose che, stante la gravezza del mio male, l’intento del medico fosse eseguito.

Nella stanza che mi diedero, penetrava alquanto di luce; ed arrampicandomi alle sbarre dell’angusto finestruolo, io vedeva la sottoposta valle, un pezzo della città di Brünn, un sobborgo con molti orticelli, il cimitero, il laghetto della Certosa, ed i selvosi colli che ci divideano da’ famosi campi d’Austerlitz.

Quella vista m’incantava. Oh quanto sarei stato lieto, se avessi potuto dividerla con Maroncelli!

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