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Capo LXII.
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Ci si facevano intanto i vestiti da prigioniero. Di lì a cinque giorni, mi portarono il mio.
Consisteva in un paio di pantaloni di ruvido panno, a destra color grigio, e a sinistra color cappuccino; un giustacuore di due colori egualmente collocati, ed un giubbettino di simili due colori, ma collocati oppostamente, cioè il cappuccino a destra ed il grigio a sinistra. Le calze erano di grossa lana; la camicia di tela di stoppa piena di pungenti stecchi, — un vero cilicio: al collo una pezzuola di tela pari a quella della camicia. Gli stivaletti erano di cuoio non tinto, allacciati. Il cappello era bianco.
Compivano questa divisa i ferri a’ piedi, cioè una catena da una gamba all’altra, i ceppi della quale furono fermati con chiodi che si ribadirono sopra un’incudine. Il fabbro che mi fece questa operazione disse ad una guardia, credendo che io non capissi il tedesco: — Malato com’egli è, si poteva risparmiargli questo giuoco; non passano due mesi, che l’angelo della morte viene a liberarlo.
— Möchte es seyn! (fosse pure!), gli diss’io, battendogli colla mano sulla spalla. —
Il pover’uomo strabalzò e si confuse; poi disse:
— Spero che non sarò profeta, e desidero ch’ella sia liberata da tutt’altro angelo.
— Piuttosto che vivere così, non vi pare, gli risposi, che sia benvenuto anche quello della morte? —
Fece cenno di sì col capo, e se n’andò compassionandomi.
Io avrei veramente volentieri cessato di vivere, ma non era tentato di suicidio. Confidava che la mia debolezza di polmoni fosse già tanto rovinosa da sbrigarmi presto. Così non piacque a Dio. La fatica del viaggio m’avea fatto assai male: il riposo mi diede qualche giovamento.
Un istante dopochè il fabbro era uscito, intesi suonare il martello sull’incudine nel sotterraneo. Schiller era ancora nella mia stanza.
— Udite que’ colpi, gli dissi. Certo, si mettono i ferri al povero Maroncelli. —
E ciò dicendo, mi si serrò talmente il cuore, che vacillai, e se il buon vecchio non m’avesse sostenuto, io cadeva. Stetti più di mezz’ora in uno stato che parea svenimento, eppur non era. Non potea parlare, i miei polsi battevano appena, un sudor freddo m’inondava da capo a piedi, e ciò non ostante intendeva tutte le parole di Schiller, ed avea vivissima la ricordanza del passato e la cognizione del presente.
Il comando del soprintendente e la vigilanza delle guardie avean tenuto fino allora tutte le vicine carceri in silenzio. Tre o quattro volte io aveva inteso intonarsi qualche cantilena italiana, ma tosto era soppressa dalle grida delle sentinelle. Ne avevamo parecchie sul terrapieno sottoposto alle nostre finestre, ed una nel medesimo nostro corridoio, la quale andava continuamente orecchiando alle porte e guardando agli sportelli per proibire i romori.
Un giorno, verso sera (ogni volta che ci penso mi si rinnovano i palpiti che allora mi si destarono), le sentinelle, per felice caso, furono meno attente, ed intesi spiegarsi e proseguirsi, con voce alquanto sommessa ma chiara, una cantilena nella prigione contigua alla mia.
Oh qual gioia, qual commozione m’invase!
M’alzai dal pagliericcio, tesi l’orecchio, e quando tacque proruppi in irresistibile pianto.
— Chi sei, sventurato? gridai, chi sei? Dimmi il tuo nome. Io sono Silvio Pellico.
— Oh Silvio! gridò il vicino, io non ti conosco di persona, ma t’amo da gran tempo. Accòstati alla finestra, e parliamoci a dispetto degli sgherri. —
M’aggrappai alla finestra, egli mi disse il suo nome, e scambiammo qualche parola di tenerezza.
Era il conte Antonio Oroboni, nativo di Fratta presso Rovigo, giovine di ventinove anni.
Ahi, fummo tosto interrotti da minacciose urla delle sentinelle! Quella del corridoio picchiava forte col calcio dello schioppo, ora all’uscio d’Oroboni, ora al mio. Non volevamo, non potevamo obbedire; ma pure le maledizioni di quelle guardie erano tali, che cessammo, avvertendoci di ricominciare quando le sentinelle fossero mutate.