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Capo LXXI.
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Le conversazioni di cui parlo, quali con Oroboni, quali con Schiller o altri, occupavano tuttavia poca parte delle mie lunghe ventiquattro ore della giornata, e non rade erano le volte, che niuna conversazione riusciva possibile col primo.
Che faceva io in tanta solitudine?
Ecco tutta quanta la mia vita in que’ giorni. Io m’alzava sempre all’alba, e, salito in capo del tavolaccio, m’aggrappava alle sbarre della finestra, e diceva le orazioni. Oroboni già era alla sua finestra o non tardava di venirvi. Ci salutavamo; e l’uno e l’altro continuava tacitamente i suoi pensieri a Dio. Quanto erano orribili i nostri covili, altrettanto era bello lo spettacolo esterno per noi. Quel cielo, quella campagna, quel lontano moversi di creature nella valle, quelle voci delle villanelle, quelle risa, que’ canti ci esilaravano, ci faceano più caramente sentire la presenza di Colui ch’è sì magnifico nella sua bontà, e del quale avevamo tanto di bisogno.
Veniva la visita mattutina delle guardie. Queste davano un’occhiata alla stanza per vedere se tutto era in ordine, ed osservavano la mia catena, anello per anello, a fine d’assicurarsi che qualche accidente o qualche malizia non l’avesse spezzata o piuttosto (dacchè spezzar la catena era impossibile) faceasi questa ispezione per obbedire fedelmente alle prescrizioni di disciplina. S’era giorno che venisse il medico, Schiller dimandava se si voleva parlargli, e prendea nota.
Finito il giro delle nostre carceri, tornava Schiller ed accompagnava Kunda, il quale aveva l’ufficio di pulire ciascuna stanza.
Un breve intervallo, e ci portavano la colezione. Questa era un mezzo pentolino di broda rossiccia, con tre sottilissime fettine di pane; io mangiava quel pane e non bevea la broda.
Dopo ciò mi poneva a studiare. Maroncelli avea portato d’Italia molti libri, e tutti i nostri compagni ne aveano pure portati, chi più, chi meno. Tutto insieme formava una buona bibliotechina. Speravamo inoltre di poterla aumentare, coll’uso de’ nostri denari. Non era ancor venuta alcuna risposta dall’Imperatore sul permesso che dimandavamo di leggere i nostri libri ed acquistarne altri; ma intanto il governatore di Brünn ci concedeva provvisoriamente di tener ciascun di noi due libri presso di sé, da cangiarsi ogni volta che volessimo. Verso le nove veniva il soprintendente, e se il medico era stato chiesto, ei l’accompagnava.
Un altro tratto di tempo restavami quindi per lo studio, fino alle undici, ch’era l’ora del pranzo.
Fino al tramonto non avea più visite, e tornava a studiare. Allora Schiller e Kunda venivano per mutarmi l’acqua, ed un istante appresso, veniva il soprintendente con alcune guardie, per l’ispezione vespertina a tutta la stanza ed a' miei ferri.
In una delle ore della giornata, or avanti or dopo il pranzo, a beneplacito delle guardie, eravi il passeggio.
Terminata la suddetta visita vespertina, Oroboni ed io ci mettevamo a conversare, e quelli solevano essere i colloquii più lunghi. Gli straordinarii avvenivano di mattina, od appena pranzato, ma per lo più brevissimi.
Qualche volta le sentinelle erano così pietose; che ci diceano: — Un po’ più piano, signori, altrimenti il castigo cadrà su noi. —
Altre volte fingeano di non accorgersi che parlassimo, poi vedendo spuntare il sergente, ci pregavano di tacere finchè questi fosse partito; ed appena partito esso, diceano: — Signori patroni, adesso potere, ma piano più che star possibile. —
Talora alcuni di que’ soldati si fecero arditi, sino a dialogare con noi, soddisfare alle nostre dimande, e darci qualche notizia d’Italia.
A certi discorsi non rispondevamo se non pregandoli di tacere. Era naturale che dubitassimo, se fossero tutte espansioni di cuori schietti, ovvero artifizi, a fine di scrutare i nostri animi. Nondimeno inclino molto più a credere che quella gente parlasse con sincerità.