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Capo LXXII.
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Una sera avevamo sentinelle benignissime, e quindi Oroboni ed io non ci davamo la pena di comprimere la voce. Maroncelli nel suo sotterraneo, arrampicatosi alla finestra, ci udì e distinse la voce mia. Non poté frenarsi; mi salutò cantando. Mi chiedea com’io stava, e m’esprimea colle più tenere parole il suo rincrescimento di non avere ancora ottenuto che fossimo messi insieme. Questa grazia, l’aveva io pure dimandata, ma né il soprintendente di Spielberg, né il governatore di Brünn, non aveano l’arbitrio di concederla. La nostra vicendevole brama era stata significata all’Imperatore, e niuna risposta erane fin’allora venuta.
Oltre quella volta che ci salutammo cantando ne’ sotterranei, io aveva inteso parecchie volte dal piano superiore le sue cantilene, ma senza capire le parole, ed appena pochi istanti, perché nol lasciavano proseguire.
Ora alzò molto più la voce, non fu così presto interrotto, e capii tutto. Non v’ha termini per dire l’emozione che provai.
Gli risposi, e continuammo il dialogo, circa un quarto d’ora. Finalmente si mutarono le sentinelle sul terrapieno, e quelle che vennero non furono compiacenti. Ben ci disponevamo a ripigliare il canto, ma furiose grida s’alzarono a maledirci, e convenne rispettarle.
Io mi rappresentava Maroncelli giacente da sì lungo tempo in quel carcere tanto peggiore del mio; m’immaginava la tristezza che ivi dovea sovente opprimerlo ed il danno che la sua salute ne patirebbe, e profonda angoscia m’opprimeva.
Potei alfine piangere, ma il pianto non mi sollevò. Mi prese un grave dolor di capo, con febbre violenta. Non mi reggeva in piedi, mi buttai sul pagliericcio. La convulsione crebbe; il petto doleami con orribile spasimo. Credetti quella notte morire.
Il dì seguente, la febbre era cessata, e del petto stava meglio, ma pareami d’aver fuoco nel cervello, e appena potea muovere il capo, senza che vi si destassero atroci dolori.
Dissi ad Oroboni il mio stato. Egli pure si sentiva più male del solito.
— Amico, diss’egli, non è lontano il giorno, che uno di noi due non potrà più venire alla finestra. Ogni volta che ci salutiamo può essere l’ultima. Teniamoci dunque pronti l’uno e l’altro sì a morire, sì a sopravvivere all’amico. —
La sua voce era intenerita; io non potea rispondergli. Stemmo un istante in silenzio, indi ei riprese:
— Te beato, che sai il tedesco! Potrai almeno confessarti! Io ho domandato un prete che sappia l’italiano: mi dissero che non v’è. Ma Dio vede il mio desiderio, e dacchè mi sono confessato a Venezia, in verità mi pare di non aver più nulla che m’aggravi la coscienza.
— Io invece, a Venezia, mi confessai, gli dissi, con animo pieno di rancore, e feci peggio che se avessi ricusato i sacramenti. Ma se ora mi si concede un prete, t’assicuro che mi confesserò di cuore e perdonando a tutti.
— Il cielo ti benedica! sclamò; tu mi dai una grande consolazione. Facciamo, sì, facciamo il possibile entrambi, per essere eternamente uniti nella felicità, come lo fummo in questi giorni di sventura! —
Il giorno appresso l’aspettai alla finestra e non venne. Seppi da Schiller ch’egli era ammalato gravemente.
Otto o dieci giorni dopo, egli stava meglio, e tornò a salutarmi. Io dolorava, ma mi sostenea. Parecchi mesi passarono sì per lui, che per me, in queste alternative di meglio e di peggio.