< Le mie prigioni
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Capo LXXVII
Cap LXXVI Cap LXXVIII


Capo LXXVII.

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Dopo la morte d’Oroboni, ammalai di nuovo. Credeva di raggiungere presto l’estinto amico; e ciò bramava. Se non che, mi sarei io separato senza rincrescimento da Maroncelli?

Più volte, mentr’ei, sedendo sul pagliericcio, leggeva o poetava, o forse fingeva al pari di me di distrarsi con tali studi e meditava sulle nostre sventure, io lo guardava con affanno e pensava: — Quanto più trista non sarà la tua vita, quando il soffio della morte m’avrà tocco, quando mi vedrai portar via di questa stanza, quando mirando il cimitero, dirai: — Anche Silvio è là! — E m’inteneriva su quel povero superstite, e faceva voti che gli dessero un altro compagno, capace d’apprezzarlo come lo apprezzava io, — ovvero che il Signore prolungasse i miei martirii, e mi lasciasse il dolce uffizio di temperare quelli di quest’infelice, dividendoli.

Io non noto quante volte le mie malattie sgombrarono e ricomparvero. L’assistenza che in esse faceami Maroncelli era quella del più tenero fratello. Ei s’accorgea quando il parlare non mi convenisse, ed allora stava in silenzio; ei s’accorgea quando i suoi detti potessero sollevarmi, ed allora trovava sempre soggetti confacentisi alla disposizione del mio animo, talor secondandola, talora mirando grado grado a mutarla. Spiriti più nobili del suo, io non ne avea mai conosciuti; pari al suo, pochi. Un grande amore per la giustizia, una grande tolleranza, una gran fiducia nella virtù umana e negli ajuti della Provvidenza, un sentimento vivissimo del bello in tutte le arti, una fantasia ricca di poesia, tutte le più amabili doti di mente e di cuore si univano per rendermelo caro.

Io non dimenticava Oroboni, ed ogni dì gemea della sua morte, ma gioivami spesso il cuore immaginando che quel diletto, libero di tutti i mali ed in seno alla Divinità, dovesse pure annoverare fra le sue contentezze quella di vedermi con un amico non meno affettuoso di lui.

Una voce pareva assicurarmi nell’anima, che Oroboni non fosse più in luogo di espiazione; nondimeno io pregava sempre per lui. Molte volte sognai di vederlo, che pregasse per me; e que’ sogni io amava di persuadermi che non fossero accidentali, ma bensì vere manifestazioni sue, permesse da Dio per consolarmi. Sarebbe cosa ridicola s’io riferissi la vivezza di tali sogni, e la soavità che realmente in me lasciavano per intere giornate.

Ma i sentimenti religiosi e l’amicizia mia per Maroncelli alleggerivano sempre più le mie afflizioni. L’unica idea che mi spaventasse era la possibilità che questo infelice, di salute già assai rovinata, sebbene meno minacciante della mia, mi precedesse nel sepolcro. Ogni volta ch’egli ammalava io tremava; ogni volta che vedealo star meglio, era una festa per me.

Queste paure di perderlo davano al mio affetto per lui una forza sempre maggiore; ed in lui la paura di perder me, operava lo stesso effetto.

Ah! v’è pur molta dolcezza in quelle alternazioni d’affanni e di speranze per una persona che è l’unica che ti rimanga! La nostra sorte era sicuramente una delle più misere che si dieno sulla terra; eppure lo stimarci e l’amarci così pienamente formava in mezzo a’ nostri dolori una specie di felicità; e davvero la sentivamo.

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