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Capo LXXVIII.
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Avrei bramato che il cappellano (del quale io era stato così contento al tempo della mia prima malattia) ci fosse stato conceduto per confessore, e che potessimo vederlo a quando a quando, anche senza trovarci gravemente infermi. Invece di dare questo incarico a lui, il governatore ci destinò un agostiniano, per nome P. Battista, intantochè venisse da Vienna o la conferma di questo, o la nomina d’un altro.
Io temea di perderci nel cambio; m’ingannava. Il P. Battista era un angiolo di carità; i suoi modi erano educatissimi ed anzi eleganti; ragionava profondamente de’ doveri dell’uomo.
Lo pregammo di visitarci spesso. Veniva ogni mese, e più frequentemente se poteva. Ci portava anche, col permesso del governatore, qualche libro, e ci diceva, a nome del suo abate, che tutta la biblioteca del convento stava a nostra disposizione. Sarebbe stato un gran guadagno questo per noi, se fosse durato. Tuttavia ne profittammo per parecchi mesi.
Dopo la confessione, ei si fermava lungamente a conversare, e da tutti i suoi discorsi appariva un’anima retta, dignitosa, innamorata della grandezza e della santità dell’uomo. Avemmo la fortuna di godere circa un anno de’ suoi lumi e della sua affezione, e non si smentì mai. Non mai una sillaba, che potesse far sospettare intenzioni di servire, non al suo ministero, ma alla politica. Non mai una mancanza di qualsiasi delicato riguardo.
A principio, per dir vero, io diffidava di lui, io m’aspettava di vederlo volgere la finezza del suo ingegno ad indagini sconvenienti. In un prigioniero di stato, simile diffidenza è pur troppo naturale; ma oh quanto si resta sollevato allorchè svanisce, allorchè si scopre nell’interprete di Dio, niun altro zelo che quello della causa di Dio e dell’umanità!
Egli aveva un modo a lui particolare ed efficacissimo di dare consolazioni. Io m’accusava per esempio, di fremiti d’ira pei rigori della nostra carceraria disciplina. Ei moralizzava alquanto sulla virtù di soffrire con serenità e perdonando; poi passava a dipingere con vivissima rappresentazione le miserie di condizioni diverse della mia.
Avea molto vissuto in città ed in campagna, conosciuto grandi e piccoli, e meditato sulle umane ingiustizie; sapea descrivere bene le passioni ed i costumi delle varie classi sociali. Dappertutto ei mi mostrava forti e deboli, calpestanti e calpestati; dappertutto la necessità o d’odiare i nostri simili, o d’amarli per generosa indulgenza e per compassione. I casi ch’ei raccontava per rammemorarmi l’universalità della sventura, ed i buoni effetti che si possono trarre da questa, nulla aveano di singolare; erano anzi affatto ovvii; ma diceali con parole così giuste, così potenti, che mi faceano fortemente sentire le deduzioni da ricavarne.
Ah sì! ogni volta ch’io aveva udito quegli amorevoli rimproveri e que’ nobili consigli, io ardeva d’amore della virtù, io non abborriva più alcuno, io avrei data la vita pel minimo de’ miei simili, io benediceva Dio d’avermi fatto uomo.
Ah! infelice chi ignora la sublimità della confessione! infelice chi, per non parer volgare, si crede obbligato di guardarla con ischerno! Non è vero che, ognuno sapendo già che bisogna esser buono, sia inutile di sentirselo a dire; che bastino le proprie riflessioni ed opportune letture; no! la favella viva d’un uomo ha una possanza che né le letture, né le proprie riflessioni non hanno! L’anima n’è più scossa; le impressioni che vi si fanno, sono più profonde. Nel fratello che parla, v’è una vita ed un’opportunità che sovente indarno si cercherebbero ne’ libri e ne’ nostri proprii pensieri.