< Le mie prigioni
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Capo XLII
Cap XLI Cap XLIII


Capo XLII.

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Benedissi un’altra volta davvero la solitudine, ed i miei giorni passarono di nuovo per alcun tempo senza vicende.

Finì la state; nell’ultima metà di settembre, il caldo scemava. Ottobre venne; io mi rallegrava allora d’avere una stanza che nel verno doveva esser buona. Ecco una mattina il custode che mi dice avere ordine di mutarmi di carcere.

— E dove si va?

— A pochi passi, in una camera più fresca.

— E perchè non pensarci quand’io moriva dal caldo, e l’aria era tutta zanzare, ed il letto era tutto cimici?

— Il comando non è venuto prima.

— Pazienza, andiamo. —

Bench’io avessi assai patito in quel carcere, mi dolse di lasciarlo; non soltanto perchè nella fredda stagione doveva essere ottimo, ma per tanti perchè. Io v’avea quelle formiche, ch’io amava e nutriva con sollecitudine, se non fosse espressione ridicola, direi quasi paterna. Da pochi giorni quel caro ragno di cui parlai, era, non so per qual motivo, emigrato; ma io diceva: — Chi sa che non si ricordi di me e non ritorni? — Ed or che me ne vado, ritornerà forse, e troverà la prigione vota, o se vi sarà qualch’altro ospite, potrebb’essere un nemico de’ ragni, e raschiar giù colla pantoffola quella bella tela, e schiacciare la povera bestia! Inoltre quella trista prigione non m’era stata abbellita dalla pietà della Zanze? A quella finestra s’appoggiava sì spesso, e lasciava cadere generosamente i bricioli de’ buzzolai alle mie formiche. Lì solea sedere; qui mi fece il tal racconto; qui il tal altro; là s’inchinava sul mio tavolino e le sue lagrime vi grondarono! —

Il luogo ove mi posero era pur sotto i piombi, ma a tramontana e ponente, con due finestre, una di qua l’altra di là; soggiorno di perpetui raffreddori, e d’orribile ghiaccio ne’ mesi rigidi.

La finestra a ponente era grandissima; quella a tramontana era piccola ed alta, al disopra del mio letto.

M’affacciai prima a quella, e vidi che metteva verso il palazzo del patriarca. Altre prigioni erano presso la mia, in un’ala di poca estensione a destra, ed in uno sporgimento di fabbricato, che mi stava dirimpetto. In quello sporgimento stavano due carceri, una sull’altra. La inferiore aveva un finestrone enorme, pel quale io vedea dentro passeggiare un uomo signorilmente vestito. Era il signor Caporali di Cesena. Questi mi vide, mi fece qualche segno, e ci dicemmo i nostri nomi.

Volli quindi esaminare dove guardasse l’altra mia finestra. Posi il tavolino sul letto e sul tavolino una sedia, m’arrampicai sopra, e vidi essere a livello d’una parte del tetto del palazzo. Al di là del palazzo appariva un bel tratto della città e della laguna.

Mi fermai a considerare quella bella veduta, e udendo che s’apriva la porta, non mi mossi. Era il custode, il quale scorgendomi lassù arrampicato, dimenticò ch’io non poteva passare come un sorcio attraverso le sbarre, pensò ch’io tentassi di fuggire, e nel rapido istante del suo turbamento saltò sul letto, ad onta di una sciatica che lo tormentava, e m’afferrò per le gambe, gridando come un’aquila.

— Ma non vedete, gli dissi, o smemorato, che non si può fuggire per causa di queste sbarre? Non capite che salii per sola curiosità?

Vedo, sior, vedo, capisco, ma la cali giù, le digo, la cali, queste le son tentazion de scappar.

E mi convenne discendere, e ridere.


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