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Capo XLI.
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Scrissi così:
— Sento che non istate bene, e me ne duole vivamente. Vorrei di tutto cuore esservi vicino, e prestarvi tutti gli uffici d’amico. Spero che la vostra poco buona salute sarà stata l’unico motivo del vostro silenzio, da tre giorni in qua. Non vi sareste già offeso del mio viglietto dell’altro dì? Lo scrissi, v’assicuro, senza la minima malevolenza, e col solo scopo di trarvi a più serii soggetti di ragionamento. Se lo scrivere vi fa male, mandatemi soltanto nuove esatte della vostra salute: io vi scriverò ogni giorno qualcosetta per distrarvi, e perché vi sovvenga che vi voglio bene. —
Non mi sarei mai aspettato la lettera ch’ei mi rispose. Cominciava così: — Ti disdico l’amicizia; se non sai che fare della mia, io non so che fare della tua. Non sono uomo che perdoni offese, non sono uomo che, rigettato una volta, ritorni. Perché mi sai infermo, ti riaccosti ipocritamente a me, sperando che la malattia indebolisca il mio spirito e mi tragga ad ascoltare le tue prediche... E andava innanzi di questo modo, vituperandomi con violenza, schernendomi, ponendo in caricatura tutto ciò ch’io gli avea detto di religione e di morale, protestando di vivere e di morire sempre lo stesso, cioè col più grand’odio e col più gran disprezzo contro tutte le filosofie diverse dalla sua.
Restai sbalordito!
— Le belle conversioni ch’io fo! dicev’io con dolore ed inorridendo. — Dio m’è testimonio se le mie intenzioni non erano pure! — No, queste ingiurie non le ho meritate! — Ebbene, pazienza; è un disinganno di più. Tal sia di colui, se s’immagina offese per aver la voluttà di non perdonarle! Più di quel che ho fatto non sono obbligato di fare.
Tuttavia, dopo alcuni giorni il mio sdegno si mitigò, e pensai che una lettera frenetica poteva essere stato frutto d’un esaltamento non durevole. — Forse ei già se ne vergogna, diceva io, ma è troppo altero da confessare il suo torto. Non sarebbe opera generosa, or ch’egli ha avuto tempo di calmarsi, lo scrivergli ancora?
Mi costava assai far tanto sacrificio d’amor proprio, ma lo feci. Chi s’umilia senza bassi fini, non si degrada, qualunque ingiusto spregio gliene torni.
Ebbi per risposta una lettera meno violenta, ma non meno insultante. L’implacato mi diceva ch’egli ammirava la mia evangelica moderazione.
— Or dunque ripigliamo pure, proseguiva egli, la nostra corrispondenza; ma parliamo chiaro. Noi non ci amiamo. Ci scriveremo per trastullare ciascuno se stesso, mettendo sulla carta liberamente tutto ciò che ci viene in capo: voi le vostre immaginazioni serafiche ed io le mie bestemmie; voi le vostre estasi sulla dignità dell’uomo e della donna, io l’ingenuo racconto delle mie profanazioni; sperando io di convertir voi, e voi di convertir me. Rispondetemi se vi piaccia il patto. —
Risposi: — Il vostro non è un patto, ma uno scherno. Abbondai in buon volere con voi. La coscienza non mi obbliga più ad altro, che ad augurarvi tutte le felicità per questa e per l’altra vita. —
Così finì la mia clandestina relazione con quell’uomo — chi sa? - forse più inasprito dalla sventura e delirante per disperazione, che malvagio.