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Capo XL.
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Io pazientava per non farmi dare del bigotto e dell’intollerante, e perchè non disperava che, dopo quella febbre di erotiche buffonerie, venisse un periodo di serietà. Intanto gli andava manifestando la mia disapprovazione alla sua irriverenza per le donne, al suo profano modo di fare all’amore, e compiangeva quelle infelici ch’ei mi diceva essere state sue vittime.
Ei fingeva di creder poco alla mia disapprovazione, e ripeteva Checchè borbottiate d’immoralità, sono certo di divertirvi co’ miei racconti; — tutti gli uomini amano il piacere come io, ma non hanno la franchezza di parlarne senza velo; ve ne dirò tante che v’incanterò, e vi sentirete obbligato in coscienza d’applaudirmi.
Ma di settimana in settimana, ei non desisteva mai da queste infamie, ed io (sperando sempre ad ogni lettera di trovare altro tema, e lasciandomi attrarre dalla curiosità) leggeva tutto, e l’anima mia restava — non già sedotta — ma pur conturbata, allontanata da pensieri nobili e santi. Il conversare cogli uomini degradati degrada, se non si ha una virtù molto maggiore della comune, molto maggiore della mia.
— Eccoti punito, diceva io a me stesso, della tua presunzione! Ecco ciò che si guadagna a voler fare il missionario senza la santità da ciò!
Un giorno mi risolsi a scrivergli queste parole:
— Mi sono sforzato finora di chiamarvi ad altri soggetti, e voi mi mandate sempre novelle che vi dissi schiettamente dispiacermi. Se v’aggrada che favelliamo di cose più degne continueremo la corrispondenza, altrimenti tocchiamoci la mano, e ciascuno se ne stia con sè. —
Fui per due giorni senza risposta, e dapprima ne gioii. — Oh benedetta solitudine! andava sclamando, quanto meno amara tu sei d’una conversazione inarmonica e snobilitante! Invece di crucciarmi leggendo impudenze, invece di faticarmi invano ad oppor loro l’espressione di aneliti che onorino l’umanità, tornerò a conversare con Dio, colle care memorie della mia famiglia e de’ miei veri amici. Tornerò a leggere maggiormente la Bibbia, a scrivere i miei pensieri sulla tavola studiando il fondo del mio cuore, e procacciando di migliorarlo, a gustare le dolcezze d’una melanconia innocente, mille volte preferibili ad immagini liete ed inique.
Tutte le volte che Tremerello entrava nel mio carcere mi diceva: — Non ho ancor risposta. — Va bene, rispondeva io.
Il terzo giorno mi disse: — Il signor N.N. è mezzo ammalato.
— Che ha?
— Non lo dice, ma è sempre steso sul letto, non mangia, non bee, ed è di mal umore.
Mi commossi, pensando ch’egli pativa e non aveva alcuno che lo confortasse.
Mi sfuggì dalle labbra, o piuttosto dal cuore: — Gli scriverò due righe.
— Le porterò stassera, disse Tremerello; e se ne andò.
Io era alquanto imbarazzato, mettendomi al tavolino. — Fo io bene a ripigliare il carteggio? Non benediceva io dianzi la solitudine come un tesoro riacquistato? Che incostanza è dunque la mia! — Eppure quell’infelice non mangia, non bee; sicuramente è ammalato. È questo il momento d’abbandonarlo? L’ultimo mio viglietto era aspro: avrà contribuito ad affliggerlo. Forse ad onta dei nostri diversi modi di sentire, ei non avrebbe mai disciolta la nostra amicizia. Il mio viglietto gli sarà sembrato più malevolo che non era: ei l’avrà preso per un assoluto sprezzante congedo.