< Le mie prigioni
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Capo XXXIX
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Capo XXXIX.

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Passeggiai tutta mattina fremendo. — Che razza d’uomo è questo Giuliano? Perchè chiamare la mia lettera uno scherzo? Perchè ridere e giocare alla palla con essa? Perchè non rispondermi pure una riga? Tutti gl’increduli son così! Sentendo la debolezza delle loro opinioni, se alcuno s’accinge a confutarle, non ascoltano, ridono, ostentano una superiorità d’ingegno, la quale non ha più bisogno d’esaminar nulla. Sciagurati! E quando mai vi fu filosofia senza esame, senza serietà? Se è vero che Democrito ridesse sempre, egli era un buffone! — Ma ben mi sta: perchè imprendere questa corrispondenza? Ch’io mi facessi illusione un momento, era perdonabile. Ma quando vidi che colui insolentiva, non fui io uno stolto di scrivergli ancora?

Era risoluto di non più scrivergli. A pranzo, Tremerello prese il mio vino, se lo versò in un fiasco, e mettendoselo in saccoccia, — Oh, mi accorgo, disse, che ho qui della carta da darle. — E me la porse.

Se n’andò; ed io guardando quella carta bianca, mi sentiva venire la tentazione di scrivere un’ultima volta a Giuliano, di congedarlo con una buona lezione sulla turpitudine dell’insolenza.

— Bella tentazione! dissi poi, rendergli disprezzo per disprezzo! fargli odiare vieppiù il Cristianesimo, mostrandogli in me cristiano impazienza ed orgoglio! — No, ciò non va. Cessiamo affatto il carteggio. — E se lo cesso così asciuttamente, non dirà colui del pari, che impazienza ed orgoglio mi vinsero? — Conviene scrivergli ancora una volta, e senza fiele. — Ma se posso scrivere senza fiele, non sarebbe meglio non darmi per inteso delle sue risate e del nome di scherzo ch’egli ha gratificato alla mia lettera? Non sarebbe meglio continuar buonamente la mia apologia del Cristianesimo? —

Ci pensai un poco, e poi m’attenni a questo partito.

La sera spedii il mio piego, ed il mattino seguente ricevetti alcune righe di ringraziamento, molto fredde, però senza espressioni mordaci, ma anche senza il minimo cenno d’approvazione nè d’invito a proseguire.

Tal biglietto mi spiacque. Nondimeno fermai di non desistere sino al fine.

La mia tesi non potea trattarsi in breve, e fu soggetto di cinque o sei altre lunghe lettere, a ciascuna delle quali mi veniva risposto un laconico ringraziamento, accompagnato da qualche declamazione estranea al tema, ora imprecando i suoi nemici, ora ridendo d’averli imprecati, e dicendo esser naturale che i forti opprimano i deboli, e non rincrescergli altro che di non essere forte, ora confidandomi i suoi amori, e l’impero che questi esercitavano sulla sua tormentata immaginativa.

Nondimeno, all’ultima mia lettera sul Cristianesimo, ei diceva che mi stava apparecchiando una lunga risposta. Aspettai più d’una settimana, ed intanto ei mi scriveva ogni giorno di tutt’altro, e per lo più d’oscenità.

Lo pregai di ricordarsi la risposta di cui mi era debitore, e gli raccomandai di voler applicare il suo ingegno a pesar veramente tutte le ragioni ch’io gli avea portate.

Mi rispose alquanto rabbiosamente, prodigandosi gli attributi di filosofo, d’uomo sicuro, d’uomo che non avea bisogno di pesare tanto per capire che le lucciole non erano lanterne. E tornò a parlare allegramente d’avventure scandalose.


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