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Capo XXXVIII.
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Stracciai più minutamente, ma senza residuo di collera, i quattro pezzi di lettera, andai alla finestra, stesi la mano, e mi fermai a guardare la sorte dei diversi bocconcini di carta in balìa del vento. Alcuni si posarono sui piombi della chiesa, altri girarono lungamente per aria, e discesero a terra. Vidi che andavano tanto dispersi, da non esservi pericolo che alcuno li raccogliesse e ne capisse il mistero.
Scrissi poscia a Giuliano, e presi tutta la cura per non essere e per non apparire indispettito.
Scherzai sul suo timore ch’io portassi la sottigliezza di coscienza ad un grado non accordabile colla filosofia, e dissi che sospendesse almeno intorno a ciò i suoi giudizi. Lodai la professione ch’ei faceva di sincerità, l’assicurai che m’avrebbe trovato eguale a sè in questo riguardo, e soggiunsi che per dargliene prova io m’accingeva a difendere il Cristianesimo; «ben persuaso, diceva io, che come sarò sempre pronto ad udire amichevolmente tutte le vostre opinioni, così abbiate la liberalità d’udire in pace le mie».
Quella difesa, io mi proponeva di farla a poco a poco, ed intanto la incominciava, analizzando con fedeltà l’essenza del Cristianesimo: — culto di Dio, spoglio di superstizioni, — fratellanza fra gli uomini, — aspirazione perpetua alla virtù, — umiltà senza bassezza, — dignità senza orgoglio, — tipo, un uomo-Dio! Che di più filosofico e di più grande?
Intendeva poscia di dimostrare, come tanta sapienza era più o meno debolmente trasparsa a tutti coloro che coi lumi della ragione aveano cercato il vero, ma non s’era mai diffusa nell’universale: e come, venuto il divino Maestro sulla terra, diede segno stupendo di sè, operando coi mezzi umanamente più deboli quella diffusione. Ciò che sommi filosofi mai non poterono, l’abbattimento dell’idolatria, e la predicazione generale della fratellanza, s’eseguisce da pochi rozzi messaggeri. Allora l’emancipazione degli schiavi diviene ognor più frequente, e finalmente appare una civiltà senza schiavi, stato di società che agli antichi filosofi pareva impossibile.
Una rassegna della storia, da Gesù Cristo in qua, dovea per ultimo dimostrare come la religione da lui stabilita s’era sempre trovata adattata a tutti i possibili gradi d’incivilimento. Quindi essere falso che, l’incivilimento continuando a progredire, il Vangelo non sia più accordabile con esso.
Scrissi a minutissimo carattere ed assai lungamente, ma non potei tuttavia andar molto oltre; chè mi mancò la carta. Lessi e rilessi quella mia introduzione, e mi parve ben fatta. Non v’era pure una frase di risentimento sui sarcasmi di Giuliano, e le espressioni di benevolenza abbondavano, ed aveale dettate il cuore già pienamente ricondotto a tolleranza.
Spedii la lettera, ed il mattino seguente ne aspettava con ansietà la risposta.
Tremerello venne, e mi disse:
— Quel signore non ha potuto scrivere, ma la prega di continuare il suo scherzo.
Scherzo? sclamai. Eh, che non avrà detto scherzo! avrete capito male. —
Tremerello si strinse nelle spalle — Avrò capito male.
— Ma vi par proprio che abbia detto scherzo?
— Come mi pare di sentire in questo punto i colpi di S. Marco. — (Sonava appunto il campanone.) Bevvi il caffè e tacqui.
— Ma ditemi: avea quel signore già letta tutta la mia lettera?
— Mi figuro di sì; perchè rideva, rideva come un matto, e facea di quella lettera una palla, e la gettava per aria, e quando gli dissi che non dimenticasse poi di distruggerla, la distrusse subito.
— Va benissimo. —
E restituii a Tremerello la chicchera, dicendogli che si conosceva che il caffè era stato fatto dalla siora Bettina.
— L’ha trovato cattivo?
— Pessimo.
— Eppur l’ho fatto io, e l’assicuro che l’ho fatto carico, e non v’erano fondi.
— Non avrò forse la bocca buona.