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Capo XXXVII.
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Guardai que’ due brani, e meditai un istante sull’incostanza delle cose umane e sulla falsità delle loro apparenze. — Poc’anzi tanta brama di questa lettera, ed ora la straccio per isdegno! Poc’anzi tanto presentimento di futura amicizia con questo compagno di sventura, tanta persuasione di mutuo conforto, tanta disposizione a mostrarmi con lui affettuosissimo, ed ora lo chiamo insolente! —
Stesi i due brani un sull’altro, e collocato di nuovo come prima l’indice e il pollice di una mano, e l’indice e il pollice dell’altra, tornai ad alzare la sinistra ed a tirar giù rapidamente la destra.
Era per replicare la stessa operazione, ma uno dei quarti mi cadde di mano; mi chinai per prenderlo, e nel breve spazio di tempo del chinarmi e del rialzarmi, mutai proposito e m’invogliai di rileggere quella superba scritta.
Siedo, fo combaciare i quattro pezzi sulla Bibbia e rileggo. Li lascio in quello stato, passeggio, rileggo ancora ed intanto penso:
— S’io non gli rispondo, ei giudicherà ch’io sia annichilato di confusione, ch’io non osi ricomparire al cospetto di tanto Ercole. Rispondiamogli, facciamogli vedere che non temiamo il confronto delle dottrine. Dimostriamogli con buona maniera non esservi alcuna viltà nel maturare i consigli, nell’ondeggiare quando si tratta d’una risoluzione alquanto pericolosa, e più pericolosa per altri che per noi. Impari che il vero coraggio non istà nel ridersi della coscienza, che la vera dignità non istà nell’orgoglio. Spieghiamogli la ragionevolezza del Cristianesimo e l’insussistenza dell’incredulità. — E finalmente se codesto Giuliano si manifesta d’opinioni così opposte alle mie, se non mi risparmia pungenti sarcasmi, se degna così poco di cattivarmi, non è ciò prova almeno ch’ei non è una spia? — Se non che non potrebb’egli essere un raffinamento d’arte, quel menar ruvidamente la frusta addosso al mio amor proprio? — Eppur no; non posso crederlo. Sono un maligno che, perché mi sento offeso da quei temerarii scherzi, vorrei persuadermi che chi li scagliò non può essere che il più abbietto degli uomini. Malignità volgare, che condannai mille volte in altri, via dal mio cuore! No, Giuliano è quel che è, e non più, è un insolente, e non una spia. — Ed ho io veramente il diritto di dare l’odioso nome d’insolenza a ciò ch’egli reputa sincerità? — Ecco la tua umiltà, o ipocrita! Basta che uno, per errore di mente, sostenga opinioni false e derida la tua fede, subito t’arroghi di vilipenderlo. — Dio sa se questa umiltà rabbiosa e questo zelo malevolo, nel petto di me cristiano, non è peggiore dell’audace sincerità di quell’incredulo! — Forse non gli manca se non un raggio della grazia, perchè quel suo energico amore del vero si muti in religione più solida della mia. — Non farei io meglio di pregare per lui, che d’adirarmi e di suppormi migliore? — Chi sa, che mentre io stracciava furentemente la sua lettera, ei non rileggesse con dolce amorevolezza la mia, e si fidasse tanto della mia bontà, da credermi incapace d’offendermi delle sue schiette parole? — Qual sarebbe il più iniquo dei due, uno che ama e dice: «Non sono cristiano», ovvero uno che dice: «Son cristiano» e non ama? — È cosa difficile conoscere un uomo, dopo avere vissuto con lui lunghi anni; ed io vorrei giudicare costui da una lettera? Fra tante possibilità, non havvi egli quella che, senza confessarlo a sè medesimo, ei non sia punto tranquillo del suo ateismo, e che indi mi stuzzichi a combatterlo, colla secreta speranza di dover cedere? Oh fosse pure! Oh gran Dio, in mano di cui tutti gli stromenti più indegni possono essere efficaci, sceglimi, sceglimi a quest’opera! Detta a me tai potenti e sante ragioni che convincano quell’infelice! che lo traggano a benedirti e ad imparare che, lungi da te, non v’è virtù la quale non sia contraddizione!