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Capo XVII.
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Ma quando l’animo era quetato io rifletteva alle smanie sofferte, e adirandomi della mia debolezza, studiava il modo di guarirne. Giovommi a tal uopo questo espediente. Ogni mattina, mia prima occupazione, dopo breve omaggio al Creatore, era il fare una diligente e coraggiosa rassegna d’ogni possibile evento atto a commuovermi. Su ciascuno fermava vivamente la fantasia, e mi vi preparava: — dalle più care visite, fino alla visita del carnefice, io le immaginava tutte. Questo tristo esercizio sembrava per alcuni giorni incomportevole, ma volli essere perseverante, ed in breve ne fui contento.
Al primo dell’anno (1821), il conte Luigi Porro ottenne di venirmi a vedere. La tenera e calda amicizia ch’era tra noi, il bisogno che avevamo di dirci tante cose, l’impedimento che a questa effusione era posto dalla presenza d’un attuario, il troppo breve tempo che ci fu dato di stare insieme, i sinistri presentimenti che mi angosciavano, lo sforzo che facevamo egli ed io di parer tranquilli, tutto ciò parea dovermi mettere una delle più terribili tempeste nel cuore. Separato da quel caro amico, mi sentii in calma; intenerito, ma in calma.
Tale è l’efficacia del premunirsi contro le forti emozioni.
Il mio impegno di acquistare una calma costante non movea tanto dal desiderio di diminuire la mia infelicità, quanto dall’apparirmi brutta, indegna dell’uomo, l’inquietudine. Una mente agitata non ragiona più: avvolta fra un turbine irresistibile d’idee esagerate, si forma una logica sciocca, furibonda, maligna: è in uno stato assolutamente antifilosofico, anticristiano.
S’io fossi predicatore, insisterei spesso sulla necessità di bandire l’inquietudine: non si può esser buono ad altro patto. Com’era pacifico con sè e cogli altri Colui che dobbiamo tutti imitare! Non v’è grandezza d’animo, non v’è giustizia senza idee moderate, senza uno spirito tendente più a sorridere che ad adirarsi degli avvenimenti di questa breve vita. L’ira non ha qualche valore se non nel caso rarissimo che sia presumibile d’umiliare con essa un malvagio e di ritrarlo dall’iniquità.
Forse si danno smanie di natura diversa da quelle ch’io conosco, e meno condannevoli. Ma quella che m’aveva fin allora fatto suo schiavo, non era una smania di pura afflizione: vi si mescolava sempre molto odio, molto prurito di maledire, di dipingermi la società o questi o quegli individui coi colori più esecrabili. Malattia epidemica nel mondo! L’uomo si reputa migliore, abborrendo gli altri. Pare che tutti gli amici si dicano all’orecchio: «Amiamoci solamente fra noi; gridando che tutti sono ciurmaglia, sembrerà che siamo semidei».
Curioso fatto, che il vivere arrabbiato piaccia tanto! Vi si pone una specie d’eroismo. Se l’oggetto contro cui jeri si fremeva è morto, se ne cerca subito un altro. — Di chi mi lamenterò oggi? chi odierò? sarebbe mai quello il mostro?... Oh gioia! l’ho trovato. Venite, amici, laceriamolo! —
Così va il mondo: e, senza lacerarlo, posso ben dire che va male.