< Le mie prigioni
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Capo XVIII.

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Non v’era molta malignità nel lamentarmi dell’orridezza della stanza ove m’aveano posto. Per buona ventura, restò vota una migliore, e mi si fece l’amabile sorpresa di darmela.

Non avrei io dovuto esser contentissimo a tale annunzio? Eppure — Tant’è; non ho potuto pensare a Maddalena senza rincrescimento. Che fanciullaggine! affezionarsi sempre a qualche cosa, anche con motivi, per verità, non molto forti! Uscendo di quella cameraccia, voltai indietro lo sguardo, verso la parete alla quale io m’era sì sovente appoggiato, mentre, forse un palmo più in là, vi s’appoggiava dal lato opposto la misera peccatrice. Avrei voluto sentire ancora una volta que’ due patetici versi:

Chi rende alla meschina
La sua felicità?

Vano desiderio! Ecco una separazione di più nella mia sciagurata vita. Non voglio parlarne lungamente, per non far ridere di me; ma sarei un ipocrita se non confessassi che ne fui mesto per più giorni.

Nell’andarmene, salutai due de’ poveri ladri, miei vicini, ch’erano alla finestra. Il caporione non v’era, ma avvertito dai compagni v’accorse, e mi risalutò anch’egli. Si mise quindi a cantarellare l’aria: Chi rende alla meschina. Voleva egli burlarsi di me? — Scommetto che se facessi questa dimanda a cinquanta persone, quarantanove risponderebbero: «Sì». Ebbene, ad onta di tanta pluralità di voti, inclino a credere che il buon ladro intendea di farmi una gentilezza. Io la ricevetti come tale, e gliene fui grato, e gli diedi ancora un’occhiata: ed egli, sporgendo il braccio fuori de’ ferri col berretto in mano, faceami ancor cenno allorch’io voltava per discendere la scala.

Quando fui nel cortile, ebbi una consolazione. V’era il mutolino sotto il portico. Mi vide, mi riconobbe, e volea corrermi incontro. La moglie del custode, chi sa perchè? l’afferrò pel collare e lo cacciò in casa. Mi spiacque di non poterlo abbracciare, ma i saltetti ch’ei fece per correre a me mi commossero deliziosamente. È cosa sì dolce l’essere amato!

Era giornata di grandi avventure. Due passi più in là, mossi vicino alla finestra della stanza già mia, e nella quale ora stava Gioja. — «Buon giorno, Melchiorre!» gli dissi passando. Alzò il capo, e balzando verso me, gridò: «Buon giorno, Silvio!» —

Ahi! non mi fu dato di fermarmi un istante. Voltai sotto il portone, salii una scaletta, e venni posto in una cameruccia pulita, al di sopra di quella di Gioja.

Fatto portare il letto, e lasciato solo dai secondini, mio primo affare fu di visitare i muri. V’erano alcune memorie scritte, quali con matita, quali con carbone, quali con punta incisiva. Trovai graziose due strofe francesi, che or m’incresce di non avere imparate a memoria. Erano firmate le Duc de Normandie. Presi a cantarle, adattandovi alla meglio l’aria della mia povera Maddalena: ma ecco una voce vicinissima che le ricanta con altr’aria. Com’ebbe finito, gli gridai: «Bravo!». Ed egli mi salutò gentilmente, chiedendomi s’io era Francese.

— No; sono Italiano, e mi chiamo Silvio Pellico.

— L’autore della Francesca da Rimini?

— Appunto. —

E qui un gentile complimento, e le naturali condoglianze sentendo ch’io fossi in carcere.

Mi dimandò di qual parte d’Italia fossi nativo.

— Di Piemonte, dissi; sono Saluzzese. —

E qui nuovo gentile complimento sul carattere e sull’ingegno de’ Piemontesi, e particolare menzione de’ valentuomini Saluzzesi, e in ispecie di Bodoni.

Quelle poche lodi erano fine, come si fanno da persona di buona educazione.

— Or mi sia lecito, gli dissi, di chiedere a voi, signore, chi siete.

— Avete cantata una mia canzoncina.

— Quelle due belle strofette che stanno sul muro, sono vostre?

— Sì, signore.

— Voi siete dunque....

— L’infelice duca di Normandia. —

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