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Capo XXIV.
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Ah sì! le cure d’un processo criminale sono orribili per un prevenuto d’inimicizia allo Stato! Quanto timore di nuocere altrui! quanta difficoltà di lottare contro tante accuse, contro tanti sospetti! quanta verosimiglianza che tutto non s’intrichi sempre più funestamente, se il processo non termina presto, se nuovi arresti vengono fatti, se nuove imprudenze si scoprono, anche di persone non conosciute ma della fazione medesima!
Ho fermato di non parlare di politica, e bisogna quindi ch’io sopprima ogni relazione concernente il processo. Solo dirò, che spesso dopo essere stato lunghe ore al costituto, io tornava nella mia stanza, così esacerbato, così fremente, che mi sarei ucciso, se la voce della religione e la memoria de’ cari parenti non m’avessero contenuto.
L’abitudine di tranquillità, che già mi pareva a Milano d’avere acquistato, era disfatta. Per alcuni giorni disperai di ripigliarla, e furono giorni d’inferno. Allora cessai di pregare, dubitai della giustizia di Dio, maledissi agli uomini ed all’universo, e rivolsi nella mente tutti i possibili sofismi sulla vanità della virtù.
L’uomo infelice ed arrabbiato è tremendamente ingegnoso a calunniare i suoi simili e lo stesso Creatore. L’ira è più immorale, più scellerata che generalmente non si pensa. Siccome non si può ruggire dalla mattina alla sera, per settimane, e l’anima, la più dominata dal furore, ha di necessità i suoi intervalli di riposo, quegli intervalli sogliono risentirsi dell’immoralità che li ha preceduti. Allora sembra d’essere in pace, ma è una pace maligna, irreligiosa; un sorriso selvaggio, senza carità, senza dignità; un umore di disordine, d’ebbrezza, di scherno.
In simile stato io cantava per ore intere con una specie d’allegrezza affatto sterile di buoni sentimenti; io celiava con tutti quelli che entravano nella mia stanza; io mi sforzava di considerare tutte le cose con una sapienza volgare, la sapienza de’ cinici.
Quell’infame tempo durò poco: sei o sette giorni.
La mia Bibbia era polverosa. Uno de’ ragazzi del custode, accarezzandomi, disse: — Dacchè ella non legge più quel libraccio, non ha più tanta melanconia, mi pare.
— Ti pare? gli dissi. —
E presa la Bibbia, ne tolsi col fazzoletto la polvere, e sbadatamente apertala, mi caddero sotto gli occhi queste parole: Et ait ad discipulos suos: impossibile est ut non veniant scandala; vae autem illi per quem veniunt! Utilius est illi, si lapis molaris imponatur circa collum eius et projiciatur in mare, quam ut scandalizet unum de pusillis istis.
Fui colpito di trovare queste parole, ed arrossii che quel ragazzo si fosse accorto, dalla polvere ch’ei sopra vedeavi, ch’io più non leggeva la Bibbia, e ch’ei presumesse ch’io fossi divenuto più amabile divenendo incurante di Dio.
— Scapestratello! (gli dissi con amorevole rimprovero e dolendomi d’averlo scandalezzato). Questo non è un libraccio, e da alcuni giorni che nol leggo, sto assai peggio. Quando tua madre ti permette di stare un momento con me, m’industrio di cacciar via il mal umore; ma se tu sapessi come questo mi vince, allorchè son solo, allorchè tu m’odi cantare qual forsennato!