< Le mie prigioni
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Capo XXVII
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Capo XXVII.

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Ha l’uomo bisogno di sforzo per umiliarsi sinceramente? per ravvisarsi peccatore? Non è egli vero, che in generale sprechiamo la gioventù in vanità, ed invece d’adoprare le forze tutte ad avanzare nella carriera del bene, ne adopriamo gran parte a degradarci? Vi saranno eccezioni, ma confesso che queste non riguardano la mia povera persona. E non ho alcun merito ad essere scontento di me: quando si vede una lucerna dar più fumo che fuoco, non vi vuol gran sincerità a dire che non arde come dovrebbe.

Sì; senza avvilimento, senza scrupoli di pinzochero, guardandomi con tutta la tranquillità possibile d’intelletto, io mi scorgeva degno dei castighi di Dio. Una voce interna mi diceva: Simili castighi, se non per questo, ti sono dovuti per quello; valgano a ricondurti verso Colui ch’è perfetto, e che i mortali sono chiamati, secondo le finite loro forze, ad imitare.

Con qual ragione, mentr’io era costretto a condannarmi di mille infedeltà a Dio, mi sarei lagnato se alcuni uomini mi pareano vili ed alcuni altri iniqui; se le prosperità del mondo m’erano rapite; s’io dovea consumarmi in carcere, o perire di morte violenta?

Procacciai d’imprimermi bene nel cuore tali riflessioni sì giuste e sì sentite: e ciò fatto, io vedeva che bisognava essere conseguente, e che non poteva esserlo in altra guisa se non benedicendo i retti giudizi di Dio, amandoli ed estinguendo in me ogni volontà contraria ad essi.

Per viemeglio divenir costante in questo proposito, pensai di svolgere con diligenza d’or innanzi tutti i miei sentimenti, scrivendoli. Il male si era che la Commissione, permettendo ch’io avessi calamaio e carta, mi numerava i fogli di questa, con proibizione di distruggerne alcuno, e riservandosi ad esaminare in che li avessi adoperati. Per supplire alla carta, ricorsi all’innocente artifizio di levigare con un pezzo di vetro un rozzo tavolino ch’io aveva, e su quello quindi scriveva ogni giorno lunghe meditazioni intorno ai doveri degli uomini e di me in particolare.

Non esagero dicendo che le ore così impiegate m’erano talvolta deliziose, malgrado la difficoltà di respiro ch’io pativa per l’enorme caldo e le morsicature dolorosissime delle zanzare. Per diminuire la moltiplicità di queste ultime, io era obbligato, ad onta del caldo, d’involgermi bene il capo e le gambe, e di scrivere, non solo co’ guanti, ma fasciato i polsi, affinchè le zanzare non entrassero nelle maniche.

Quelle mie meditazioni avevano un carattere piuttosto biografico. Io faceva la storia di tutto il bene ed il male che in me s’erano formati dall’infanzia in poi, discutendo meco stesso, ingegnandomi di sciorre ogni dubbio, ordinando quanto meglio io sapea tutte le mie cognizioni, tutte le mie idee sopra ogni cosa.

Quando tutta la superficie adoprabile del tavolino era piena di scrittura, io leggeva e rileggeva, meditava sul già meditato, ed alfine mi risolveva (sovente con rincrescimento) a raschiar via ogni cosa col vetro, per riavere atta quella superficie a ricevere nuovamente i miei pensieri.

Continuava quindi la mia storia, sempre rallentata da digressioni d’ogni specie, da analisi or di questo or di quel punto di metafisica, di morale, di politica, di religione, e quando tutto era pieno, tornava a leggere e rileggere, poi a raschiare.

Non volendo avere alcuna ragione d’impedimento nel ridire a me stesso colla più libera fedeltà i fatti ch’io ricordava e le opinioni mie, e prevedendo possibile qualche visita inquisitoria, io scriveva in gergo, cioè con trasposizioni di lettere ed abbreviazioni, alle quali io era avvezzatissimo. Non m’accadde però mai alcuna visita siffatta, e niuno s’accorgeva ch’io passassi così bene il mio tristissimo tempo. Quand’io udiva il custode o altri aprire la porta, copriva il tavolino con una tovaglia, e vi mettea sopra il calamaio ed il legale quinternetto di carta.

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