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Capo XXVI.
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Quando questi combattimenti furono cessati, e sembrommi d’esser di nuovo fermo nell’abitudine d’onorar Dio in tutte le mie volontà, gustai per qualche tempo una dolcissima pace. Gli esami, a cui sottoponeami ogni due o tre giorni la Commissione, per quanto fossero tormentosi, non mi traeano più a durevole inquietudine. Io procurava, in quell’ardua posizione, di non mancare a’ miei doveri d’onestà e d’amicizia, e poi dicea: Faccia Dio il resto.
Tornava ad essere esatto nella pratica di prevedere giornalmente ogni sorpresa, ogni emozione, ogni sventura supponibile; e siffatto esercizio giovavami novamente assai.
La mia solitudine intanto s’accrebbe. I due figliuoli del custode, che dapprima mi faceano talvolta un po’ di compagnia, furono messi a scuola, e stando quindi pochissimo in casa, non venivano più da me. La madre e la sorella, che allorchè c’erano i ragazzi si fermavano anche spesso a favellar meco, or non comparivano più se non per portarmi il caffè, e mi lasciavano. Per la madre mi rincresceva poco, perchè non mostrava animo compassionevole. Ma la figlia, benchè bruttina, avea certa soavità di sguardi e di parole che non erano per me senza pregio. Quando questa mi portava il caffè e diceva: «L’ho fatto io», mi pareva sempre eccellente. Quando diceva: «L’ha fatto la mamma», era acqua calda.
Vedendo sì di rado creature umane, diedi retta ad alcune formiche che venivano sulla mia finestra, le cibai sontuosamente, quelle andarono a chiamare un esercito di compagne, e la finestra fu piena di siffatti animali. Diedi parimente retta ad un bel ragno che tappezzava una delle mie pareti. Cibai questo con moscerini e zanzare, e mi si amicò, sino a venirmi sul letto e sulla mano e prendere la preda dalle mie dita.
Fossero quelli stati i soli insetti che m’avessero visitato! Eravamo ancora in primavera, e già le zanzare si moltiplicavano, posso proprio dire, spaventosamente. L’inverno era stato di una straordinaria dolcezza, e, dopo pochi venti in marzo, seguì il caldo. È cosa indicibile, come s’infocò l’aria del covile ch’io abitava. Situato a pretto mezzogiorno, sotto un tetto di piombo, e colla finestra sul tetto di S. Marco, pure di piombo, il cui riverbero era tremendo, io soffocava. Io non avea mai avuto idea d’un calore sì opprimente. A tanto supplizio s’aggiungeano le zanzare in tal moltitudine, che per quanto io m’agitassi e ne struggessi io n’era coperto; il letto, il tavolino, la sedia, il suolo, le pareti, la volta, tutto n’era coperto, e l’ambiente ne conteneva infinite, sempre andanti e venienti per la finestra, e facienti un ronzio infernale. Le punture di quegli animali sono dolorose, e quando se ne riceve da mattina a sera e da sera a mattina, e si dee avere la perenne molestia di pensare a diminuirne il numero, si soffre veramente assai e di corpo e di spirito.
Allorchè, veduto simile flagello, ne conobbi la gravezza, e non potei conseguire che mi mutassero di carcere, qualche tentazione di suicidio mi prese, e talvolta temei d’impazzare. Ma, grazie al cielo, erano smanie non durevoli, e la religione continuava a sostenermi. Essa mi persuadeva che l’uomo dee patire, e patire con forza; mi facea sentire una certa voluttà del dolore, la compiacenza di non soggiacere, di vincer tutto.
Io dicea: Quanto più dolorosa mi si fa la vita, tanto meno sarò atterrito, se, giovane come sono mi vedrò condannato al supplicio. Senza questi patimenti preliminari sarei forse morto codardamente. E poi, ho io tali virtù da meritare felicità? Dove son esse?
Ed esaminandomi con giusto rigore, non trovava negli anni da me vissuti, se non pochi tratti alquanto plausibili: tutto il resto erano passioni stolte, idolatrie, orgogliosa e falsa virtù. — Ebbene, concludeva io, soffri, indegno! Se gli uomini e le zanzare t’uccidessero anche per furore e senza diritto, riconoscili stromenti della giustizia divina, e taci!