< Le mie prigioni
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Cap XXIX Cap XXXI


Capo XXX.

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Queste carte sarebbero certamente più dilettevoli se la Zanze fosse stata innamorata di me, o s’io almeno avessi farneticato per essa. Eppure quella qualità di semplice benevolenza che ci univa m’era più cara dell’amore. E se in qualche momento io temea che potesse, nello stolto mio cuore, mutar natura, allor seriamente me n’attristava.

Una volta, nel dubbio che ciò stesse per accadere, desolato di trovarla (non sapea per quale incanto) cento volte più bella che non m’era sembrata da principio, sorpreso della melanconia ch’io talvolta provava lontano da lei, e della gioia che recavami la sua presenza, presi a fare per due giorni il burbero, immaginando ch’ella si divezzerebbe alquanto dalla famigliarità contratta meco. Il ripiego valea poco: quella ragazza era sì paziente, sì compassionevole! Appoggiava il suo gomito sulla finestra, e stava a guardarmi in silenzio. Poi mi diceva:

— Signore, ella par seccata della mia compagnia; eppure, se potessi starei qui tutto il giorno, appunto perchè vedo ch’ella ha bisogno di distrazione. Quel cattiv’umore è l’effetto naturale della solitudine. Ma si provi a ciarlare alquanto, ed il cattiv’umore si dissiperà. E s’ella non vuol ciarlare, ciarlerò io.

— Del vostro amante, eh?

— Eh no! non sempre di lui; so anche parlar d’altro. —

E cominciava infatti a raccontarmi de’ suoi interessucci di casa, dell’asprezza della madre, della bonarietà del padre, delle ragazzate dei fratelli; ed i suoi racconti erano pieni di semplicità e di grazia. Ma, senza avvedersene, ricadeva poi sempre nel tema prediletto, il suo sventurato amore.

Io non volea cessare d’esser burbero, e sperava che se ne indispettisse. Ella, fosse ciò inavvedutezza od arte, non se ne dava per intesa, e bisognava ch’io finissi per rasserenarmi, sorridere, commuovermi, ringraziarla della sua dolce pazienza con me.

Lasciai andare l’ingrato pensiero di volerla indispettire, ed a poco a poco i miei timori si calmarono. Veramente io non erane invaghito. Esaminai lungo tempo i miei scrupoli; scrissi le mie riflessioni su questo soggetto, e lo svolgimento di esse mi giovava.

L’uomo talvolta s’atterrisce di spauracchi da nulla. A fine di non temerli, bisogna considerarli con più attenzione e più da vicino.

E che colpa v’era, s’io desiderava con tenera inquietudine le sue visite, s’io ne apprezzava la dolcezza, s’io godea d’essere compianto da lei, e di retribuirle pietà per pietà, dacchè i nostri pensieri relativi uno all’altro erano puri come i più puri pensieri dell’infanzia, dacchè le sue stesse toccate di mano ed i suoi più amorevoli sguardi turbandomi m’empieano di salutare riverenza?

Una sera, effondendo nel mio cuore una grande afflizione ch’ella avea provato, l’infelice mi gettò le braccia al collo, e mi coperse il volto delle sue lagrime. In quest’amplesso non v’era la minima idea profana. Una figlia non può abbracciare con più rispetto il suo padre.

Se non che, dopo il fatto, la mia immaginativa ne rimase troppo colpita. Quell’amplesso mi tornava spesso alla mente, e allora io non potea più pensare ad altro.

Un’altra volta ch’ella s’abbandonò a simile slancio di filiale confidenza, io tosto mi svincolai dalle sue care braccia, senza stringerla a me, senza baciarla, e le dissi balbettando:

— Vi prego, Zanze, non m’abbracciate mai; ciò non va bene. —

M’affissò gli occhi in volto, li abbassò, arrossì; — e certo fu la prima volta che lesse nell’anima mia la possibilità di qualche debolezza a suo riguardo.

Non cessò d’esser meco famigliare d’allora in poi, ma la sua famigliarità divenne più rispettosa, più conforme al mio desiderio, e gliene fui grato.



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