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Dopo avere io scritta, e mandata all’Accademia di Padova la mia Dissertazione, il celebre Professor Malacarne pubblicò un suo discorso, in cui, parlando del Parco vecchio, che presso Torino fu piantato per ordine, e sul disegno di Carlo Emanuele I. Duca di Savoja, ed esaminando certe Lettere del Coppino, nelle quali favellasi di detto Parco, ei fa conghiettura, che questo avesse non poco della maniera, e del gusto Inglese. E non poco di fatto ne avea; come poi egli stesso s’accorse per una Lettera di Torquato Tasso a Giovanni Botero, che trovata fu dal Cavalier Tiraboschi nell’Archivio di Guastalla, e a me venne dalla gentilezza del dottissimo Professore comunicata. Ecco la Lettera, che non fu ancora, ch’io sappia, prodotta in luce, e al Serassi rimase ignota: Affinchè il Signor Duca di Savoja mio Signore sappia quanto grato io sia alla Serenità di V. Sig. Illust. per li boni uffizj, con cui s’è degnata di favorirmi apresso a chi maggiormente importava; raccorrò da V. S. pregandola, che assicuri sua Sig. Sereniss. aver io voluto immortalare per quanto in me stia la magnifica et unica al Mondo sua Opera del Parco accanto alla sua capitale in una stanza della mia Gerusalemme, dove fingo di descrivere il Giardino del Palagio incantato d’Armida, et vi dico così:
Poichè lasciar gli avviluppati calli,
In lieto aspetto il bel giardin s’aperse.
Acque stagnanti, mobili cristalli,
Fior varj, e varie piante, erbe diverse,
Apriche collinette, ombrose valli,
Selve, e spelonche in una vista offerse;
E quel, che il bello e il caro accresce all’opre,
L’arte, che tutto fa, nulla si scopre.
I.
Poichè a nemico piè l’Alpi nevose
Chiuse Carlo, d’Italia almo riparo,
E non mai stanco in faticoso acciaro,
Con magnanimo cor l’armi depose,
A diporto di lui foreste ombrose
Vaghe Napée lungo la Dora alzaro,
Ove s’Eto, e Piróo l’aure infiammaro,
April rinverda le campagne erbose.
Fama per queste nove a scherno prende
L’antiche Tempe, e del famoso Atlante
L’alme ricchezze il peregrin qui scorge.
Ma svegliato dragon non le difende:
Anzi cortese allo straniero errante
Con larga destra il grande Eroe le porge.
II.
Drïadi ombrose, alla cui nobil cura
L’orror commise della selva amica
Carlo, tra le cui piante alla fatica
De’ più gravi pensier talor si fura;
Euro invitate a contemprar l’arsura
Con l’aure, che nel grembo ei si nutrica
Ed Austro allor, che la campagna aprica
Borea col gel de’ freddi spirti indura.
Ma perchè rio furor d’alta tempesta
Tronco non svella, o di saetta accesa
Non sia rimbombo a minacciarla ardito,
Basta Carlo scolpir per la foresta,
Ch’ella fia d’ogni oltraggio indi difesa:
Tanto è l’eccelso nome in Ciel gradito.
III.
Se dentro l’ombra delle regie fronde,
Che per l’industre man folta si stende,
Pari a quella giammai belva discende,
Che d’Erimanto sbigottì le sponde;
O pur, se a quella, che le selve, e l’onde,
Col nome ancor di Calidonia offende,
Altra sembiante dure terga orrende
Vi porta, o zanne di gran spuma immonde,
Destre, di cui miglior Grecia non vide,
Sollecite a placar l’ombroso chiostro
Armeranno archi sanguinosi, e rei;
E quasi Meleagro, e quasi Alcide,
Carlo il gran teschio appenderà del mostro:
Chè sa di più gran spoglie alzar trofei.
il fine.