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Er mejjo e er peggio L'urtimo bbicchiere
Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1835

LE SMAMMATE1

     Dìllo, visscere mie de ste pupille:
Di’, ccore, chi vvò bbene a mmamma sua?
Uh ffijjo d’oro! E cquanti sacchi? Dua?
Du’ sacchi? E Mmamma sua je ne vò mmille.

     No, bbello mio, nu’ le toccà le spille:
Sta’ attentoFonte/commento: Sonetti romaneschi/Correzioni e Aggiunte, sciscio,2 che tte fai la bbua.
Oh ddio sinnòe! Oh ppòvea catùa!3
S’è ppuncicato la manina Achille!

     Guarda, guarda er tettè,4 ccocco mio caro...
Bbe’, er purcinella, sì... Nno, er barettone...5
Ecco la bbumba,6 tiè... Vvòi er cucchiaro?

     Ôh, zzitto llì, cché mmo cchiamo bbarbone,
E vve fo pportà vvia dar carbonaro
Che vve metti7 in ner zacco der carbone.

3 novembre 1835

  1. Smancerie, vezzi di madre.
  2. Cicio, parola vezzeggiativa. [Per il femminile attenta, si veda la nota 5 del sonetto: Le caluggne ecc., 26 dic. 44.]Fonte/commento: Sonetti romaneschi/Correzioni e Aggiunte
  3. Oh dio signore! oh povera creatura! (che il popolo dice cratùra). Queste parole sono qui scritte senza la r, perché così in Roma si suol parlare ai bambini.
  4. Cane. [Tètte in Toscana, tottò nell'Umbria. Voci nate dal tè tè o to' to' (togli togli), che si dice a' cani per allettarli.]
  5. Berrettone.
  6. Bumba, è pe’ bambini “tuttociò che si bee.„
  7. Vi metta.

Note

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